L’elaborato presente si basa su alcune fonti documentarie
inedite, su qualche fonte orale, sulle fonti edite reperite, come la
memorialistica e su alcune ipotesi derivanti dalla letteratura a disposizione. Contiene
anche alcune riferimenti ai militari italiani deportati in Germania del Terzo Reich.
Sebastiano
Pio Zucchiatti, Vagoni bestiame carichi di ebrei, acquerello, gouache e
pastelli su carta, cm 20,9 x 29,5, 2016 - da un disegno in letteratura.
L’idea di questa ricerca è sorta nella parrocchia di San Pio X,
che fa parte di Udine sud, tra la studiosa Tiziana Menotti, l’architetto
Giorgio Ganis, il parroco don Paolo Scapin e lo scrivente, nell’ambito di un
progetto che prevede un incontro pubblico sul tema da effettuarsi verso il 27 gennaio
2017, Giorno della Memoria, oltre ad un pellegrinaggio culturale da svolgersi sui luoghi della
memoria della Shoah udinese.
L’ipotesi è che a Udine sud, nell’area dello scalo
ferroviario, tra Via Buttrio, Via Pradamano e Via Monfalcone, chiamata un tempo
suburbio di Baldasseria, stazionarono i treni merci provenienti dalla Risiera di San Sabba o dal Carcere del Coroneo, o al comando delle Waffen SS, in Piazza
Oberdan, a Trieste, col trasporto di ebrei, per lo più aschenaziti, e di altri
prigionieri dei nazisti.
Secondo Roberto Curci, un’altra prigione nazista a Trieste
era attiva in Santa Maria Maggiore; era nota con la dicitura di “carcere dei
Gesuiti” (p. 20).
La deportazione era diretta al Campo di concentramento
di Auschwitz, di Dachau e altri lager simili, passando per Tarvisio, nel periodo 1943-1945. Le
strade udinesi di Via Monfalcone e la vicina Via Romans, sono state create
ambedue con deliberazione il 26 settembre 1925, secondo l’Archivio Municipale
di Udine. Nel 1928 la città di Udine contava 60 mila abitanti.
I principali campi di sterminio nazisti, circa trenta, erano
dei veri e propri campi della morte; in tali luoghi perirono per mano violenta tra
i cinque e i sei milioni di ebrei internati, torturati, feriti ed affamati,
come ha scritto William L. Shirer (pag. 1468).
Udine, quale provincia di confine con l’Austria, dopo
l’Anschluss del 1938, confina col Terzo Reich. Si è scoperto che la città
friulana è interessata, nel 1939, al movimento di ebrei del Centro Europa. In
particolare le questure si attivano per far controllare i valichi confinari di
Tarvisio (Coccau) e del Passo di Monte Croce Carnico riguardo alla vigilanza
sugli ebrei stranieri, al rimpatrio di ebrei immigrati in Italia (per le Leggi
Razziali), al controllo di ebrei germanici, di ebrei rumeni, polacchi, cechi e
apolidi (sudditi asburgici e russi). Alcuni di costoro transitano per Udine,
diretti al porto di Genova per l’imbarco verso l’Argentina, gli Stati Uniti d’America e, in qualche caso, verso la Palestina.
Udine,
Via Monfalcone, treni merci in sosta, verso sud, 2016.
Bruno Maida ha scritto che il 21 giugno 1944 dai vagoni merci
carichi di deportati ebrei da Trieste verso Auschwitz si alzavano le voci: «Acqua!
Acqua!» (pag. 233). Quei vagoni transitarono anche per Udine e si fermarono
allo scalo di Via Buttrio. Nella parte opposta dell’ingresso a detto scalo
ferroviario, sito in Via Buttrio, si trovano Via Monfalcone, Via Romans e Via
Pradamano, nella zona di Udine sud.
Secondo Raul Hilberg gli ebrei deportati da Trieste nel
1943-1945 furono 837, compresi 204 ebrei jugoslavi trasferiti dalla Croazia
occupata; furono 7.500 gli ebrei deportati dall’Italia, circa 800 di essi
sopravvissero. La Risiera di San Sabba è servita come Campo di ammassamento (p.
700) per la deportazione soprattutto al campo di sterminio di Auschwitz, in
Alta Slesia (oggi Polonia). Lo stabilimento di Trieste era un vecchio impianto
per la pilatura del riso, trasformato in lager dai tedeschi occupanti.
Furono predisposte 17 celle, una per la tortura dei
prigionieri, come
ha scritto Fabio Galluccio. I metodi di uccisione nel lager andavano dall’utilizzo
del gas di scarico al colpo di mazza o di oggetto contundente alla testa dell’incarcerato.
Il forno crematorio era utilizzato per la cremazione delle salme. Le ceneri
restanti venivano gettate in mare con dei sacchi (pp. 136-137).
Secondo Tristano Matta, in Risiera furono imprigionati, in
attesa dei convogli in direzione di Auschwitz o di altri campi di
concentramento del Reich, oltre 1450 ebrei, provenienti dal Friuli, dalla
Venezia Giulia, dal Veneto e dalla Croazia. Furono 700 i deportai razziali
triestini, dei quali solo una ventina di essi fece ritorno vivo dai campi della
morte. Di 28 ebrei è stata accertata l’uccisione diretta nel lager di San
Sabba, in quanto considerati non in grado di sopportare il trasporto, poiché
vecchi o malati, o accusati di infrazioni alla disciplina (pp. 23-24).
Marcello
Tomadini, Settembre 1943, verso l’esilio,
in Marcello Tomadini, Venti mesi fra i
reticolati, LX tavole con prefazioni di don Luigi Pasa e Guglielmo Cappelletti,
Vicenza, Editrice Società Anonima Tipografica, 1946.
La cifra dei deportati ebrei triestini è nella sostanza
confermata dalle ricerche del 2016 di René Robert Moehrle. Pare che 750 furono
gli imprigionati e internati, mentre i sopravvissuti ammonterebbero a una
quarantina di unità (p. 252).
I “trasporti” dei nazisti sono stati dipinti magistralmente
da uno dei deportati: si tratta del maestro Marcello Tomadini, nato a Cividale
del Friuli il 27 aprile 1893 e morto, a 86 anni di età, il 10 giugno 1979.
«Oltre che artista – ha scritto Sergio Gentilini sul
Messaggero Veneto – come uomo e soldato (di fanteria) soffrì anche la tragedia
del Lager, ricordata nei suoi dipinti: come l’opera datata Thorn 1943 (in
Polonia) dove una lunga fila di deportati entra nel Lager tra il filo spinato
sorvegliati dalla sentinella armata, e quella del 1944 con il treno diretto
verso i campi di concentramento».
«Sono stata allieva del maestro Marcello Tomadini – ha detto
Rosanna Lodolo, di Udine – e lui era una persona splendida, pensi che aiutava
e indirizzava chi era dotato di senso artistico. È stato lui, e ne vado
orgogliosa, a spingermi a frequentare l’Istituto Statale d’arte di Venezia,
dove fui allieva del celebre ceramista armeno Gazar Gazighian».
Invece secondo i dati del 2016 di Mauro Tabor, la
deportazione nei lager da Trieste, fulcro nevralgico dell’Adriatisches Küstenland, avendo colpito anche la
figura dell’ebreo “misto” (ossia l’assimilato e il discendente da persone di
altra religione, rintracciabile dalla sola evidenza del cognome) la cifra
complessiva degli internati è più alta. Pare vada oltre le 1200 persone,
considerando che gli ebrei a Trieste, nel 1938, ammontavano a oltre 6000 unità,
tra le quali letterati, pittori, scienziati, medici e amministratori d’aziende.
Solo 1500 sono i sopravvissuti e i rientrati in città (p. 334).
D’altro canto Trieste era già nota quale porto di
transito e di partenza per la Palestina da parte di emigranti ebrei polacchi e russi
sin dal 1908, come ha scritto Marco Bencich. In quel periodo fu costituito un
Comitato d’aiuto per emigranti ebrei. La Casa degli Emigranti fu inaugurata nel
1923, divenendo una delle strutture più moderne in Italia, riconfermando
Trieste quale “Porta di Sion” (p.
228).
La sede della Comunità ebraica è in Via del Monte, come
scrive Livio Sirovich (p.14). È in quell’edificio triestino che viene data assistenza
a decine di migliaia di ebrei del Centro Europa: tedeschi, austriaci, boemi,
polacchi, ungheresi, lituani, ucraini, croati ed altri (p.15). Essi vengono
imbarcati per la Palestina o per le Americhe; ecco perché Trieste per tutte
queste comunità ebraiche è l’accesso alla salvezza, o Porta di Sion, sempre secondo Sirovich (p.110).
Tra il 1933 e il 1940, secondo Fabio Amodeo e Mario
J. Cereghino, sono 121.391 gli israeliti partiti da Trieste in nave verso la
Palestina; sono essi in gran parte dell’Europa centro-orientale (p. 10).
In ogni caso i profughi germanici accolti in Italia
sono poco meno di 18 mila, in prevalenza ebrei, dei quali almeno 5.000
provenienti dall’Austria. A partire dal 1933 gli esuli di lingua tedesca sono
quasi mezzo milione e 135 mila gli austriaci, dopo l’Anschluss del 1938, come hanno scritto Köstner e Voigt (p. 13).
1. Ebrei rinchiusi nei
vagoni bestiame
È documentato, nel periodo 1943-1945, il transito di ebrei
rinchiusi nei convogli merci in certi luoghi di Udine, secondo i risultati
delle interviste ai signori Anna Chiavon (passaggio a livello di Via Cividale,
sulla linea ferroviaria Udine-Tarvisio) e Giorgio Stella (passaggio a livello di Via della Valle a
Sant’Osvaldo, sulla linea ferroviaria Venezia-Udine). In quest’ultimo caso i
convogli di ebrei imprigionati provenivano da Venezia e, quindi, anche dai Campi di detenzione del Centro e del Nord Italia, come da quello di Fossoli di Carpi, in provincia di Modena.
Come si vedrà una fonte chiara e netta è quella
di Caterina Eleonora Bernardinis, detta “Rina”, decana della ragioneria
friulana, insegnante all’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon” di Udine
e crocerossina, cui è dedicato più oltre un paragrafo apposito, col titolo Quattro vagoni di ebrei a Udine sud.
La sosta a Udine dei treni della morte è ben
accennata da don Domenico Cattarossi. Egli descrive la deportazione effettuata
dai nazisti di prigionieri partigiani e ebrei catturati e partiti da Trieste e
Gorizia. La testimonianza di don Cattarossi è raccolta e pubblicata nel 1965 da
Francesco Cargnelutti (p. 78) e ripresa, nel 1984, da Flavio Fabbroni (p. 56).
Che cosa faceva don Cattarossi? Come si vedrà più avanti in questo contributo
nel paragrafo con la testimonianza di Caterina Eleonora Bernardinis, operava
assieme alla Croce Rossa Italiana (C.R.I.). Ecco le sue parole: “(…) aiutavamo
anche i prigionieri alleati, i partigiani italiani… i partigiani slavi
(meravigliati, non finivano di ringraziarci) e gli ebrei (povera gente! Erano i
più vigilati e i più bisognosi di tutto). Davamo loro da bere, qualche pezzo di
pane, qualche sigaretta”.
Solitamente sono quasi assenti le notizie sul Friuli nella
letteratura nazionale o internazionale sulla Shoah, come emerge ad esempio nel Dizionario dell’Olocausto, a cura di
Walter Laqueur, oppure dalla pur meritoria opera di Corrado Vivanti, intitolata
Gli ebrei in Italia.
Scrive Adonella Cedarmas che i convogli ottimali, secondo
l’ideologia nazista, erano quelli formati da almeno mille deportati: cioè 20
vagoni di 50 persone ciascuno, più tre vagoni per il personale militare di
scorta. In Italia, di rado, si raggiunsero tali cifre; i trasporti di deportati
erano costituiti da alcune decine di unità, del tutto “antieconomici, secondo
il punto di vista nazista” (pag. 122). Si tenga presente che, talvolta, mancava
la scorta o essa era insufficiente e malandata.
Udine, Scalo ferroviario di Via Buttrio, cancello d’ingresso,
2016.
Dal Campo di sterminio di San Sabba a Trieste, che fu attivo
dai primi giorni di febbraio 1944, secondo la Cedarmas, furono deportati 837
ebrei, dei quali solo 77 riuscirono a fare ritorno vivi (p. 123). Le cifre
della Shoah in Friuli Venezia Giulia, come si può comprendere, talvolta non
sono del tutto concordi tra gli studiosi, per i variegati materiali a
disposizione (documenti ufficiali, testimonianze, atti processuali, fotografie,
memoriali, graffiti ed altro) o per la mancanza di registri o per la
manomissione e distruzione degli archivi operata dai nazisti, nel tentativo di
cancellare le tracce della strage.
Alfonso Zamparo, Diario. Siamo tornati uomini!, Dachau 9 - 25 maggio 1945, manoscritto. Collezione famiglia Zamparo, Scorzè, provincia di
Venezia.
È ben vero che nel 1945, in certi convogli in Germania, i
nazisti caricavano sul vagone merci fino a 75 internati, per portarli ai lavori
forzati da Dachau sulla ferrovia bombardata di Laim, vicino a Monaco di Baviera,
concedendo sei ore di sonno per notte, come ha scritto il carabiniere Alfonso Zamparo, nel memoriale edito a cura di Chiara Fragiacomo e Daniele D’Arrigo
(pp. 81-88).
Sulla vicenda di Alfonso Zamparo, internato a Dachau, la
figlia Lauretta Zamparo ha ricordato che il padre, dopo “la cattura del 19
dicembre 1944 e le torture subite a Palmanova per mano delle Bande Nere, riuscì
a scrivere un biglietto dal treno della deportazione durante una sosta a
Salisburgo; tale messaggio fu consegnato a un ferroviere che lo spedì
dall’Italia, subendo la censura; il viaggio di mio papà è il n. 121 ed è
partito da Udine il 24 febbraio 1945”.
Il
linguaggio del biglietto, tra l’altro per poter passare indenne sotto la
censura nazi-fascista, è orientato a non apparire come “disfattista”; infatti
non c’è alcuna cancellazione con grosse righe di inchiostro nero, come usava
l’ufficio censura. Alfonso Zamparo scrisse anche un diario dal Campo
di concentramento di Dachau, dopo la liberazione. Il testo ha così inizio: «Dachau, li 9.5.45 Il primo pensiero di questi brevi appunti,
tracciati nella non più troppo triste prigionia del campo [di] concentramento
di Dachau, va alla mia cara Livia, la mia sposina affettuosa che lasciai
desolata e sola in quel lontano 19.12.44, data del mio arresto. Con tale
pensiero voglio e intendo salutare la mia sposa, baciarla, stringerla
spiritualmente al mio cuore e dirle tutto il mio smisurato affetto. Il secondo
pensiero, non meno intenso del primo, corre alla buona vecchietta che vive a
Tarvisio, alla mamma santa…» (p. 71).
Le alte cifre del numero di reclusi per vagone merci sono,
comunque, menzionate anche da altre testimonianze.
Biglietto
da Salisburgo di Alfonso Zamparo alla moglie Livia, che viveva a Gonars, in
provincia di Udine, 24 febbraio 1945. Collezione famiglia Zamparo, Scorzè,
provincia di Venezia.
Secondo August Walzl alla Risiera di San Sabba furono uccise
3.000 persone nel forno crematorio. Sono 5.000, ad esempio secondo gli studi di
Tristano Matta, ma Liliana Picciotto, nel 2002, contesta tale cifra,
definendola “improbabile” (p. 937), anche se il forno crematorio era in grado
di affrontare oltre 30 cremazioni giornaliere in media.
Roberto Curci, nel 2015, ribadisce la cifra di 4.000
persone deportate dalla Risiera su 76 convogli, citando il fondo dell’Istituto Regionale per
la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia, con sede a
Trieste, oltre
ad altri cinque convogli diretti a Mühldorf, con un numero stimato di poco più
di mille deportati. Il totale dei prigionieri pare allora di 5.000 individui
(p. 104).
Daša Drndić nel suo romanzo documentario,
avvincente e trascinante, fornisce dati leggermente diversi. I trasporti di
ebrei verso i lager nazisti dalla stazione di Trieste, partendo dalla Risiera
di San Sabba, sono 69. Poi ci sono altri 30 convogli di prigionieri diretti ai
Campi di lavoro forzato: i cosiddetti Schiavi di Hitler (p. 121).
Per 20 mila prigionieri la Risiera di San Sabba fu un campo
di transito per Auschwitz e Dachau. I convogli ferroviari passavano per la
Carinzia (e, quindi, per Tarvisio) o per Lubiana. Il primo convoglio di
deportazione per Auschwitz partì il 9 ottobre 1943, ma gli ebrei rinchiusi
arrivarono a destinazione nel mese di dicembre 1943, per carenze organizzative,
scarso materiale rotabile, troppe tradotte militari, bombardamenti, sabotaggi e
traffico merci ordinario che aveva la precedenza sui deportati.
Il 28 marzo 1944 parte un altro convoglio dalla Risiera di
San Sabba, per giungere ad Auschwitz il 4 aprile successivo. Dei 300 triestini
partiti, ben 62 muoiono durante il viaggio. Da Udine furono deportate e uccise
4 persone di religione ebraica, per Walzl (pp. 252-254).
Lo
scalo ferroviario è sulla destra, in fondo a Via Monfalcone. Viale Trieste, è sulla destra, da Piazzale Palmanova. All'inizio prende il nome di Viale XXIII Marzo 1848.
Ecco le parole del deportato Federico Esposito: "Quella mattina c’era la neve, mezza Udine che faceva ala lungo Viale Trieste, gente che ci salutava… chi piangeva, chi salutava, qualcuno all’ultimo momento consegnava cibi, pacchi. Io ho avuto l’impressione che tutta la città si fosse radunata in Viale Trieste. E la gente ci ha seguito fino sotto i vagoni..."
Pianta della città
di Udine eseguita dalla Sezione Tecnica Municipale, Stabilimento Tipo –
Litografico Gustavo Percotto & Figlio, Udine, particolare, 1928.
Da Fiume vennero deportati 258 ebrei; ne ritornarono 22; nel
1903 erano oltre 2.600; la città portuale del Cuarnaro, nel 1931, contava
53.896 abitanti.
I dati di Walzl sugli internati da Fiume, secondo
Curci, vanno aggiornati così: gli ebrei residenti nel 1940, secondo la
prefettura, erano 1.105. Quelli rastrellati e deportati ammontano a 243
persone, delle quali solo 19 sopravvissero (p. 120). Si aggiunga che il monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981, è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Golfo del Quarnaro. Come a dire che i dati non sempre coincidono.
Da Gorizia ci furono 45 deportai ebrei, tutti morti. I dati di
Walzl su Gorizia devono essere rivisti e aggiornati con la ricerca “Le-zikkaron.
In memoria”, del 1994, a cura dell’Istituto per gli Studi Ebraici della
Mitteleuropa e dell’Associazione Amici di Israele, dove si legge che i
deportati ebrei da Gorizia per la destinazione dei lager nazisti furono 76 (quasi
il 60% in più dei dati di Walzl!) e solo quattro di essi si salvarono.
Per Walzl da Trieste furono inviati 620 ebrei al Campo di
sterminio di Auschwitz e si salvarono in 17. Gli ebrei triestini ammontavano
nel 1943 a 3.600 individui. Nel 1912 gli ebrei triestini erano oltre 5 mila e pure negli anni 1920-1930. Gli
ebrei deportati da Venezia erano 212 e solo 15 ritornarono dal campo di
concentramento nazista (pp. 254-259).
Ad esempio Silva Bon Gherardi scrive di 3.700 ebrei
denunciati nel 1938, ma sostiene che le schede, introdotte dalle leggi
razziali, siano 7.760 – quasi il doppio! (p. 90). Conferma l’arresto di donne,
bambini ed anziani, oltre ai maschi adulti (p. 219).
Il forno della Risiera di San Sabba era in grado di
distruggere 70-80 cadaveri per volta. Va in funzione da febbraio – marzo 1944.
L’ultima cremazione avvenne il 28 aprile 1945, coi partigiani titini in
avvicinamento nei boschi del Carso. Il 29 aprile i tedeschi minarono il forno
che crolla parzialmente travolgendo e uccidendo gli stessi prigionieri (p.
219). Volevano così eliminare le tracce dello sterminio.
Udine, Via Monfalcone, treni merci in sosta, verso
nord, 2016.
Dal 3 giugno 1963 la Risiera di San Sabba è un monumento
nazionale. Il processo per i crimini commessi nell’unico lager nazista
esistente in terra italiana si svolse nel 1976, come ricordato nel volume sulla
Storia della Shoah in Italia, di
Marcello Flores ed altri autori, del 2010 (p. 48).
Dalla letteratura a disposizione si sa che i convogli
ferroviari partiti da San Sabba per i campi di concentramento nazisti furono 22.
Essi non poterono passare che da Udine, anche dallo scalo di Via Monfalcone –
Via Buttrio. Il dato sui 22 convogli di deportati ebrei partiti da San Sabba a
Trieste per Auschwitz, Ravensbrück e Bergen Belsen è dedotto dalle ricerche della Picciotto,
pubblicate nel 2002 (pp. 62-65). Altri 20 convogli di carri bestiame carichi di
ebrei sono partiti da Verona, Bolzano, Fossoli, Milano, Roma, Firenze, Bologna
e Mantova, con destinazione Auschwitz. Ulteriori 3 convogli ferroviari di ebrei
hanno iniziato la loro corsa dal Campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, diretti prima a Drancy, in Francia e, infine, ad
Auschwitz. Uno solo è il convoglio di ebrei imprigionati nel Dodecanneso,
transitati a Rodi, Atene, con meta finale Auschwitz.
I convogli come detto, secondo Curci, sono stati
76, in direzione di – in ordine decrescente – Dachau, Auschwitz, Buchenwald,
Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg e Bergen-Belsen, oltre ad altri cinque convogli
diretti a Mühldorf, con un numero stimato di poco più di mille deportati. Il totale
complessivo di persone caricate sui vagoni bestiame da Trieste è di 5.000 unità
(p. 104).
La stessa Picciotto ricorda che Udine aveva una squadra del
gruppo dell’Aktion Reinhard “specialisti” dei campi della morte di Belzec,
Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R III”, con
giurisdizione anche su Gorizia. Al suo comando troviamo Stangl e
successivamente Fritz Küttner e Arthur Walter. Detto ufficio aveva il compito di ripulire il
Litorale Adriatico da partigiani e ebrei, impadronendosi dei beni di questi
ultimi (p. 933).
Nel 1943-1944 succedeva che i militari italiani del fronte
russo, di passaggio per la Polonia in treno, vedessero dei vagoni merci carichi
di persone che chiedevano «acqua, acqua» disperatamente, come racconta Mariella Vivaldi. Il tenente
degli alpini «Luciano, impressionato, aveva chiesto informazioni, in tedesco, ai
ferrovieri polacchi che piantonavano il loro treno. Con reticenza uno di loro
spiegò che erano ebrei fatti prigionieri e deportati nei campi di lavoro» (p.
110).
Udine,
Piazzale della Stazione, lapide dedicata alle donne friulane che, nel 1943-1945,
aiutarono gli internati rinchiusi nei vagoni merci destinati ai Campi di
concentramento nazisti.
A questo punto non si può tralasciare il fondamentale apporto
alla letteratura della Shoah di Zygmunt Bauman, col suo “Modernity and the
Holocaust”, 1989. Pochi autori, prima di
lui, avevano tentato di fare delle interpretazioni e delle riflessioni sul
fenomeno di massa della eliminazione degli ebrei da parte del nazismo. Dopo di
Bauman, si sono aperte molte strade della
comunicazione. I sopravvissuti ai lager e i discendenti delle persone
ammazzate dalla follia nazista hanno parlato con più coraggio e con la
consapevolezza di essere ascoltati, andando a scontrarsi con un’eredità del regime nazista tutt’altro che
morta, come ha scritto il grande sociologo ebreo polacco.
2. Gli ebrei in Friuli nel
passato
I luoghi del Friuli storico e della Venezia Giulia dove
vissero gruppi di ebrei nel passato sono svariati, considerando che la presenza
ebraica in loco risale al Medioevo e, in qualche caso, addirittura all’epoca
Romana. Mancano, tuttavia, le fonti per l’Alto Medioevo circa la presenza
ebraica in regione.
Udine, San Daniele del Friuli, Aquileia, Gorizia, Grado,
Monfalcone, San Vito al Tagliamento, Spilimbergo, Porcia, Brugnera, Maniago,
Sacile, Venzone, Cividale del Friuli, Attimis, Rivignano, Portogruaro, Gradisca
d’Isonzo, Romans, Ontagnano, Ruda, Chiopris, Sagrado, Villesse, Moraro, Fogliano,
Farra, Teor, Muggia, Gemona del Friuli, Palmanova, Jalmicco, Plasencis,
Gradiscutta, Belgrado, Terzo d’Aquileia, Gonars, Fiumicello, Latisana,
Flaibano, Tarcento, Mortegliano e Porpetto hanno avuto comunità o famiglie di
ebrei per vario tempo.
Udine,
cartello stradale di Piazzale D’Annunzio, con l’indicazione precedente del
sito: Piazzale Palmanova. Il foro è dovuto ad un scheggia del bombardamento anglo-americano.
La massima espansione di ebrei a Udine si ebbe nel 1841,
quando furono censiti 112 individui, secondo Pietro Ioly Zorattini, libro del 2002 (p. 44).
Molti ebrei parteciparono attivamente al Risorgimento e all’Irredentismo; si
pensi a Daniele Manin, come ha ricordato Gino Pieri in un articolo sul rientro
dei sopravvissuti dai lager nazisti, intitolato Ritornano gli ebrei, del 1945.
Avevano delle sale di culto, che nella letteratura vengono
definite sinagoghe, nonostante esse non fossero delle costruzioni edificate
all’uopo, ma solo delle stanze di abitazioni utilizzate anche a mo’ di stanza
di preghiera. È ancora Pietro Ioly Zorattini (pp. 81, 83, 120) a spiegare che verso il 1830
ci doveva essere una sinagoga nella frazione di Chiavris, dove da vari secoli
era stanziata la famiglia Caprileis, che dà pure il nome al luogo.
Nel 1840-1870 c’era un oratorio ebraico a fianco della Torre
di Porta San Bartolomeo (o Porta Manin), tra le case sorte sull’antico
castelliere, secondo Maurizio Buora (p. 210).
Udine, Piazzale Palmanova, ovvero Porta Aquileia nel 1945, dopo i bombardamenti
anglo-americani. Fotografia da Internet.
Verso il 1850 la sinagoga è in una zona densamente abitata,
in Vicolo di Lenna, vicino a Riva Bartolini, secondo Pietro Ioly Zorattini
(p. 120). Nel 1880 viene
spostata di poco e il luogo di culto si trova in Via Palladio al numero 8. Nel
1928 l’oratorio ebraico è in Via Romeo Battistig. Verso il 1930 la sinagoga
viene ospitata in Casa Gentilli, in Piazzale Palmanova al numero 2, poi
chiamato Piazzale D’Annunzio (vicino alla zona di Udine sud) e, infine, il 18
settembre 1932 si ha notizia dell’inaugurazione di un’altra sinagoga in Via
Percoto al numero 3 (stesso Ioly Zorattini, p. 83). La notizia di una sinagoga a Udine
nella Casa Gentilli, in Piazzale Palmanova, ossia in Porta Aquileia, viene
tuttavia contestata dalla signora G., sostenendo che “i Gentilli erano solo a
San Daniele, forse quell’abitazione del vecchio Piazzale Palmanova, con orti e
giardini che arrivavano fino in Via Bertaldia, era dei Morpurgo, chissà”.
L’antico toponimo di Piazzale Palmanova viene sostituito in
Piazzale D’Annunzio con Deliberazione del Podestà di Udine del 31 maggio 1940,
come si sa dall’Archivio Municipale della città.
In effetti a San Daniele del Friuli, verso il 1722, sono
attive alcune famiglie dei Gentilli e dei Luzzatto, in plaçute dai Ebreos (piazzetta degli Ebrei; l’odierna Piazza
Cattaneo). La cittadina collinare friulana accolse sin dal XV secolo una
comunità con “un gran numero” di ebrei. Due secoli dopo essi si erano dotati di
una piccola sinagoga e di un cimitero, come ha scritto Valerio Marchi nel suo
libro sui Gentilli (p. 46).
Lo stesso autore, nel suo libro sui Sachs, tuttavia accenna
ad un matrimonio civile che ebbe per testimoni due Gentilli a Udine il 14
dicembre 1925. Gli sposi erano Bruno Algranati ed Elsa Vanda Sachs, maestra
nella scuola elementare di Madrisio di Fagagna prima della Grande Guerra. Elsa
aveva studiato all’Uccellis di Udine, prima di diplomarsi.
“Benedetto e Raffaele
Gentilli – sono i testimoni, come ha scritto Valerio Marchi nel suo volume sul
dottor Sachs – (il primo figlio di Giuseppe e il secondo figlio di Benedetto
stesso) indicati come negozianti residenti a Udine, ove si erano trasferiti da
San Daniele” (pp. 210-213).
Udine,
Porta Aquileia o Piazzale D'Annunzio, 2016.
Lo stesso Valerio Marchi ha pubblicato sul «Messaggero
Veneto» del 16 gennaio 2017 un articolo sui Gentilli, vittime nel vortice della Shoah, tenendo nel medesimo giorno una lezione
all’Università della Terza Età, in presenza di alcuni discendenti dei Gentilli.
3. Forme di
anti-giudaismo
Vari sono i modi per costruire le categorie dell’antisemitismo
in Italia, che poi conducono alle Leggi Razziali. La letteratura ci propone dei
capisaldi, che senza vergogna alcuna, si autodefiniscono “razzisti”.
Cosa scrivono gli autori dell’anti-giudaismo? Nel 1937
si legge che, secondo G. Natti Dubois, ci sono ebrei “per i quali l’appartenenza
al popolo d’Israele ha soltanto un valore ed un peso sentimentale e
tradizionale”.
Ci sono poi gli ebrei attaccati “alla morale, alla
religione, ed alla concezione del mondo dei loro padri (…) credenti sia pur più
o meno fervorosamente”. Sono essi, in sostanza dei buoni sudditi, dei buoni
cittadini, secondo l’angolo visuale, ma non sono dei veri “patrioti dell’Italia,
o della Francia…”. G. Natti Dubois si chiede, infine: “È lecito, e fino a che
punto, che gli ebrei italiani sognino o favoriscano il movimento sionistico,
tendente a creare in Palestina uno stato ebreo?” (pp. 67-73).
Il fascista Roberto Farinacci, nelle sue conferenze
tenute nel 1938 in giro per l’Italia, cita come autorevole il testo “Les
Protocols des Sages de Sion”, del 1918, che si scoprirà essere un falso. Per meglio
far accettare l’anti-giudaismo fascista agli italiani egli menziona niente meno
che la Compagnia di Gesù, “che stabilisce nei riguardi degli ebrei una
intransigenza che va più oltre di quella del nazismo”. Le regole della
Compagnia di Gesù sono formali su tale argomento: “vietano assolutamente di
ricevere nella Compagnia chiunque discenda da razza ebrea, o saracena,
risalendo fino al quinto grado (il razzismo ariano dei Gesuiti è dunque assai
più severo della stessa Germania dove non si risale più in là del quarto grado)”
(p. 12).
Farinacci fa risalire l’anti-giudaismo italiano ai
comizi di Mussolini del 1919, quindi come egli scrive, ben molto prima delle
teorie di Hitler.
Udine, 1918 - fotografia aerea dello scalo ferroviario "Sacca", in Viale delle Ferriere. Al centro, in basso, il sottopassaggio di Via Marsala. Pare che anche in questo scalo merci, nel 1944-1945 sostassero vagoni di ebrei provenienti da Venezia, in attesa di essere attaccati ai convogli per Auschwitz. Ringrazio per la diffusione della fotografia Alessandro Rizzi.
4. Ebrei sotto vigilanza a
Udine nel 1939
Dalla letteratura e dalle memorialistica si sa che certi ebrei,
come Carlo Levi nel 1935, furono deportati al “confino di Gagliano” (Aliano, in
provincia di Matera; nella pronuncia locale: Gagliano), dove ebbe per compagno
d’esilio il fornaio di Sevegliano, provincia di Udine, detto il Bacan – come ha scritto Franco Iaiza (p. 160).
Il redattori di un giornale settimanale di
Udine, «La Vita Cattolica», nato come mensile nel 1923, alzano la testa contro
il regime, nel 1938. Scrivono che il vescovo di Friburgo, in Germania, viene
deportato dai nazisti, come ha riferito Valerio Marchi nel volume su Riccardo
Luzzatto. I giornalisti forniscono informazioni che non si notano in altro tipo
di stampa italiana, ben allineata e attenta alla censura fascista. Vengono
intessute le lodi al fascismo, in chiave anticomunista, perché ha rotto la
“secolare tradizione di settarismo liberal-massonico…”. Allo stesso tempo, il 4
dicembre c’è un articolo che, addirittura, denuncia le persecuzioni naziste,
con un titolo in prima pagina del tipo: “I cattolici tedeschi fedeli al Papa
nella bufera delle persecuzioni”. Tale fenomeno, tuttavia, è raro quanto
isolato.
Dopo le Leggi Razziali gli ebrei furono sottoposti a sorveglianza.
L’elenco che segue è stato scritto sulla scorta delle informazioni rintracciate
in alcuni fascicoli dell’Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura di Udine, Cat. E2, Vigilanza e
controllo persone in transito, b 1. Tutti
i documenti citati sono datati 1939. C’è da dire che per alcuni nominativi
esiste solo la cartellina intitolata al nome stesso, ma all’interno non c’è
nulla. In altri casi si possono trovare uno o due fogli di comunicazioni
manoscritti (malacopia) o dattiloscritti, come lettere, telegrammi e simili. In
rari casi la cartellina contiene più di 3-4 fogli. Vedi la tabella n. 1.
Ciò significa che i nominativi della lista qui proposta erano
da tenere sotto controllo, per le autorità italiane. Alcuni di tali ebrei
passarono effettivamente per i valichi confinari di Tarvisio o di Passo di Monte Croce Carnico, altri no.
Le notizie sono incomplete a causa della distruzione di gran parte dei cartolari.
Le autorità confinarie vengono allertate riguardo alla vigilanza sugli ebrei
stranieri, al rimpatrio in paesi d’origine di ebrei immigrati in Italia
(cacciati per le Leggi Razziali), al controllo di ebrei germanici, di ebrei
rumeni, polacchi, cechi, apolidi e di altri stati dell’Europa Centrale e
Orientale.
Come sottolineato dagli operatori dell’ASUd: “Nel 1945 il
questore Bruni, ritenendo che la Questura potesse essere occupata dai Germanici,
diede ordine di distruggere le carte che aveva in ufficio e le note caratteristiche
dei funzionari di P.S. da lui compilate. Vennero inoltre distrutti anche i mattinali
della squadra politica. Nel 1958 il questore Amendola comunicava al Ministero
dell’Interno che l’archivio della Questura di Udine, così come gli archivi le
biblioteche e i musei della provincia, andò quasi totalmente distrutto durante
gli eventi bellici”. Ecco il motivo delle notizie scarne e dei fascicoli
fantasma.
Torre di guardia al Campo di sterminio di Auschwitz. Fotografia di Elio Varutti 2017
Tabella n. 1 - Elenco
di ebrei sotto vigilanza nel 1939
1. Aes
Bela, ebreo ungherese.
2. Brochlawski
Menachen, ebreo polacco.
3.
Charin
Vladimiro, apolide ebreo.
4.
Cohen
Esteriana ed altri ebrei.
5.
Feist
Wollhein, Hans Israel e Ratherina Sara Feist, ebrei tedeschi diretti in Francia
con divieto di reingresso in Germania.
6.
Gelenter
Jona, di Mendel e Frieda Joles, nato a Stry (Galizia austriaca, poi Polonia, Ucraina)
1 marzo 1889, allontanatosi da Genova.
7.
Glattauer
Edith, di Ugo, nata a Vienna 22 maggio 1916, ebrea straniera, con ritorno a
Vienna ove non possa proseguire per gli USA.
8.
Stark
Ziga, fu Carlo e Anna Sor, nato a Zagabria 31 maggio 1877, ebreo jugoslavo
sotto falso nome di Ziga Jagig (o Jagic), commerciante e agente di spionaggio,
potrebbe varcare frontiera di Sussak (Fiume).
9.
Klein
Hugo, di Vienna, ebreo germanico, con biglietto di passaggio per l’America, via
Genova, poi Udine dove sarà ospite di Leo Furst Via Portanuova 17/1.
10. Kleind
Chaim Jakob, ebreo polacco.
11. Knopfler Josef, di Giulio, nato a
Czegled 18 ottobre 1896 e consorte Farkar Clara e figlio Pietro, ebrei
ungheresi.
12. Kohn Margit, di Isidoro, nata a
Budapest 10 giugno 1919.
13. Kurier Davide, fu Leo, nato a
Choloyon 11 gennaio 1888, ebreo ex austriaco.
14. Stiegwardt Raul, di anni 19, ex
austriaco e Paneth Alfred, di anni 40, cattolici razza ebraica, diretti a
Genova per imbarco per l’Argentina.
15. Egger Adolf, fu Bela, nato a Vienna 5
luglio 1874 e moglie Schabel Marianna, fu Enrico, ebrei ex austriaci, che
recansi a Torino scopo salute.
16. Pilpel Josef e moglie Kerpner Elsa,
ebrei ex austriaci, emigrati a Belgrado, Jugoslavia.
17. Rudinger Josef e famiglia, ebrei ex
austriaci, per emigrare negli USA.
18. Sachs Dorotea, maritata e figli,
ebrei ex austriaci.
19. Grünbaum …, nata a Vienna 27 agosto 1900, la figlia
Henriette, nata a Vienna 22 settembre 1919, e figlio Heinz, nato a Vienna 17
gennaio 1923, per raggiungere il marito Abraham Grünbaum, residente a Roma, Via Veio 2.
20. Salter Paolo, fu Max e moglie
Radwaner in Salter Bertha, fu Adolfo, ebrei.
21. Schwarz Julius di Samuele, nato a Rottweil
13 luglio 1895, moglie Gloria Anna in Schwarz, di Enrico, ebrei tedeschi.
22. Seiden Massimiliano, fu Adolfo, ebreo
polacco.
23. Sonnenschein Irma, di Michele, nata a
Vienna 9 gennaio 1892, ebrea tedesca.
24. Stuckgold Erwin, fu Isacco e di Rochmann Norma, nato a Berlino
17 agosto 1895, medico chirurgo ebreo.
25. Sturm Josef, fu Giacobbe e 23 ebrei
tedeschi.
26. Tarasciskis Orsejus, di Isaak, nato 7
marzo 1919 a Vyatka (antico nome di Kirov, Russia), Vlaas Abrham, di Choim,
nato a Dublino 22 febbraio 1914, ebrei stranieri.
27. Witt Margit, di Mov, nata a Budapest
23 novembre 1919, ebrea, e Geimann Bela, di Henrich e Schlosinger Cecilia, nata
a Budapest 23 gennaio 1914, israelita, ingaggiatore di prostitute in Tirana,
Albania.
28. Vago Gyorgy, ebreo ungherese, che
intende recarsi in Svizzera.
29. Weisz Charlotte, di Samuele e di Vass
Berta, nata a Eger 8 ottobre 1907, suddita ungherese, sospetta ebrea, per
imbarcarsi per New York.
30. Questura di Bolzano. Winter
Desiderio, di Giuseppe, nato a Kiskunhalas 28 agosto 1907, medico dentista
ebreo, con moglie Beck Anna in Winter, di Giuseppe, nata a Kiskunhalas 18
settembre 1909 e figlia Eva, nata a Kiskunhalas 2 luglio 1933, espatrierà
diretto Ungheria in seguito alle disposizioni vigenti per la tutela della
razza.
31. Wiisz Laszlo, di Ladislao, nato a
Budapest 25 maggio 1908, ebreo.
Fonte: ASUd, Questura
di Udine, Cat. E2, Vigilanza e controllo persone in transito, b 1.
Anche in letteratura si possono trovare le
citazioni del confine di Coccau (Tarvisio) tra Austria, ormai Terzo Reich, e
Italia. Ad esempio Paolo Veneziano ha rilevato il passaggio di 40 ebrei viennesi
da Tarvisio nel 1939 e in procinto di imbarcarsi a Sanremo per la Francia (p.
69).
5. Croazia. Un cenno positivo sugli ebrei significa il
confino
Cosa succedeva a chi favoriva gli ebrei nella loro
fuga dalle sgrinfie dei nazisti? Dipendeva da dove ti trovavi. Nell'Italia
della R.S.I., all’interno del Terzo Reich,
cui appartiene la Zona d’occupazione Adriatisches Küstenland, c’era la pena di morte.
La Croazia del 1941, con il governo di
Ante Pavelić, si era adeguata alla linea dominante dettata dal führer . Il movimento ustascia partecipa attivamente
allo sterminio del popolo ebraico e già nel 1941 il ministro degli interni
Andrija Artuković afferma che il governo croato in breve tempo risolverà la
questione nello stesso modo in cui l'ha risolta il governo tedesco.
Qui però la persecuzione contro gli ebrei si accompagna
a quella contro i serbi, quale reazione contro la politica di repressione della
popolazione croata attuata prima della guerra dalle autorità jugoslave. Moriranno
così centinaia di migliaia di serbi, mentre la comunità israelitica croata verrà
praticamente eliminata.
Così chi avesse espresso un parere positivo nei
confronti degli ebrei, si ritrovava al confino per ordine delle autorità
filo-naziste degli ustascia. Il racconto che segue è stato riferito da Bruno
Bonetti, che ha anche scritto una indagine genealogica sulla sua famiglia,
originaria di Zara e di Spalato.
La zia di Bruno, Ottilia Bonetti (nata a Zara nel 1918 e morta a Trieste nel 1989) aveva sposato Zdenko Novaković,
appartenente a una ricca famiglia croata di Bencovaz, cittadina del retroterra
zaratino teatro di aspre contese tra serbi e croati.
Il padre di Zdenko, Mihovil
(1872-1933), commerciante e proprietario terriero, nel 1914 è sindaco della località,
carica che tiene fino al 1918, quando all’amministrazione austroungarica subentra
l’amministrazione militare italiana fino al 1921. Successivamente, con
l’istituzione dello stato dei Serbi, Croati e Sloveni, Mihovil aderisce al
Partito contadino di Stjepan Radić, portavoce dell’indipendentismo croato,
diventandone il responsabile locale. Nel 1931 ridiventa sindaco, ma viene
immediatamente defenestrato per incompatibilità con la politica assimilatrice
del re di Jugoslavia, il serbo Alessandro I (che poco dopo sarà assassinato
dagli ustascia nell’attentato di Marsiglia del 1934).
«Zdenko Novaković, nato a Bencovaz nel 1911 e morto a Spalato nel 1968, studia ingegneria a Praga – ha raccontato Bruno Bonetti – prestigiosa meta
universitaria prediletta dagli slavofoni, ma dopo la morte del padre nel 1933,
a causa dei minori mezzi economici disponibili, si trasferisce a Zagabria, dove si laurea. Generoso fino al limite della
prodigalità, è un uomo cordiale ed estroverso. Dopo il matrimonio con Ottilia
Bonetti, gli sposi risiedono a Zlatar, presso Zagabria. Sdegnato dalla violenta rimozione
del padre dalla carica di sindaco, Zdenko si avvicina all’ala di destra del
partito contadino croato, che nel 1941 confluisce nel movimento degli ustascia.
Tuttavia, Zdenko, che è una persona mite e altruista, non sopporta i brutali
eccessi del regime filonazista. Così, parlando animatamente sul posto di lavoro
a difesa degli ebrei, viene confinato in un paesino della Bosnia, a Žepče, presso Zenica».
«Successivamente – ha aggiunto Bonetti – sempre sotto
lo Stato indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska, NDH), riesce a
ritornare alla vita civile, a Slavonska Požega. Qui però, alla fine della guerra, arrivano
i partigiani, che per punirlo in quanto “fascista” lo spediscono di nuovo in
mezzo ai monti, a Gospić, dove dirige i lavori di ristrutturazione della
ferrovia della Lika (Spalato-Zagabria), danneggiata dagli eventi bellici. Ma la
situazione è destinata ulteriormente a peggiorare: ribellandosi Zdenko alle
soperchierie di alcuni titini, la famiglia perde l’alloggio e viene collocata
in una misera baracca priva di riscaldamento».
«Frattanto – ha concluso Bonetti – nel 1951 uno dei due
bambini muore a seguito della fame e del freddo patiti dalla famiglia, oltre
che della mancanza di medicine. A causa di queste vicende e della perdita di
tutte le ricchissime proprietà di Bencovaz, la moglie Ottilia proverà per tutta
la vita un profondo risentimento verso il comunismo».
6. Ispettore
Lospinoso, salvatore di ebrei francesi a Nizza nel 1943
La vicenda è poco nota, come ha scritto
Giuseppe Vollono, nel 2002, ma è un’azione umanitaria analoga a quella svolta dal
ben più noto dottor Giovanni Palatucci riguardo agli ebrei di Fiume dal 1939 al
1944, fino a quando fu arrestato dai nazisti. Questa è la storia del dottor Guido Maurizio Lospinoso, un barese nato verso il 1885 ed entrato in polizia nel 1915,
di cui ha fatto un cenno anche Susan Zuccotti, nel 2001 (p. 149).
Qualche riga sull’ispettore generale di Pubblica Sicurezza
Guido Lospinoso è dedicata anche da Renzo De Felice nel suo fondamentale Storia degli ebrei italiani sotto il
fascismo, del 1961 (pp. 407 e 445). Già sin dal 1961 è nota la protezione
degli ebrei di Marsiglia, di Cannes e di Nizza, sotto l’occupazione delle
truppe italiane nel periodo 1940-1943, secondo il cappuccino Pierre-Marie Benoît, padre Maria Benedetto, che cita tra i promotori degli aiuti
agli ebrei Angelo Donati, come si legge nella documentazione del volume di
Renzo De Felice (pp. 633-634).
C’è da dire, in premessa, che a Nizza esiste un “Comité
d’Assistance aux Réfugiés (CAR)” sin dal 1938, per assistere gli ebrei con
intenzione di emigrare dall’Europa, come ha scritto Paolo Veneziano. Lo stesso
autore precisa che sulla Costa Azzurra e negli altri sei dipartimenti francesi occupati,
dopo il giorno 11 novembre 1942, dalle truppe italiane la sorveglianza sugli
ebrei è “blanda”. (pp. 75-78).
Gerusalemme,
Giardino dei Giusti, tra i quali c’è una dedica al prefetto Giovanni Palatucci. Fotografia di Daniela
Conighi 2011.
Durante la Seconda guerra mondiale, Lospinoso fu
nominato Ispettore Generale e sin dalla fine del 1942 si occupò della questione
degli ebrei stranieri. Nella primavera del 1943 fu inviato, dal Ministero dell’Interno,
a Nizza, capoluogo della parte di Francia occupata dalle truppe italiane. Qui si
erano rifugiati circa 40 mila ebrei francesi dall’inizio delle deportazioni in
massa in altre parti del territorio francese occupato dai nazisti.
Il dottor Lospinoso aveva il compito di organizzare campi di
concentramento sulla costa, in attesa di affrontare il caso con le autorità
tedesche. Con i nazisti bisognava tergiversare.
Secondo Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino, che
hanno analizzato testi tedeschi intercettati dall’intelligence britannico e
custoditi nel National Archives United Kingdom di Kew Gardens, alla fine di febbraio 1943, Joachim von Ribbentrop,
ministro degli Esteri tedesco, è in visita a Roma per alcuni giorni. Ribbentrop
chiede a Mussolini “una stretta per quanto riguarda la condizione degli ebrei
nei dipartimenti francesi occupati dall’Italia” (p. 46). C’è sul tavolo anche la questione degli ebrei
croati che si sono rifugiati nella Dalmazia sotto amministrazione italiana sui
quali il dittatore ustaša Ante Pavelić e i nazisti vorrebbero mettere le mani.
A Nizza e nei dipartimenti francesi sotto
occupazione italiana dal giorno 12 novembre 1942, sempre secondo Giuseppe
Vollono, verso la fine di marzo 1943 dai quattro ai
cinque mila ebrei stranieri furono confinati in residenze sorvegliate nell’entroterra,
una condizione certamente migliore rispetto ai campi di internamento. Altrettanti
ebrei restarono liberi di vivere lungo la Costa Azzurra. Altri gruppi di ebrei
furono raccolti nell’Alta Savoia, occupata anch’essa dalle truppe italiane, in
alberghi appositamente requisiti.
Quando Mussolini diede l’ordine di passare i
rifugiati ebrei ai tedeschi, per la deportazione verso Auschwitz, l’alto funzionario
di polizia Lospinoso adottò una intelligente tattica dilatoria, per differire l’ordine,
adducendo difficoltà di ogni sorta per organizzare i trasporti. Nel frattempo,
con discrezione, agevolò l’allontanamento graduale di decine di ebrei verso il
territorio italiano, per cui, all’atto dell’armistizio, ben pochi erano ancora
quelli rimasti e che seppero disperdersi con la ritirata dell’Esercito italiano
dalle zone francesi occupate.
Probabilmente Lospinoso
fu in contatto col banchiere Angelo Donati, di religione ebraica, che fece allontanare da Nizza
più di 2.500 ebrei che furono trasferiti, evitando le zone occupate dai
tedeschi, nella “residenza forzata” di Saint-Martin-Vésubie (in italiano San
Martino Lantosca, in occitano Sant Martin de Lantosca), della
Provenza-Alpi-Costa Azzurra.
Giovani
ebrei rifugiati in un campo organizzato da Joseph Fisera, verso il 1942-1943. Era
un ceco attivo in Francia nell’aiuto ai prigionieri in fuga, esponenti della
Resistenza e minoranze perseguitate. Operava nei pressi di Vallon, nelle Alpi
Marittime, nella Francia occupata dagli italiani. La relativa sicurezza di cui
godevano gli ebrei nella zona italiana di occupazione fu criticata non solo da
Berlino, ma anche dal regime collaborazionista di Vichy. Fotografia e
didascalia tratte dal seguente volume; si ringrazia per la diffusione nel web: Fabio
Amodeo, Mario J. Cereghino, L’Italia
della Shoah. Gli ebrei, il fascismo e la persecuzione nazista,
Udine-Trieste, Editoriale FVG, 2008.
Rientrato a Roma, Lospinoso fu costretto a
nascondersi, perché la Gestapo e le Waffen
SS volevano fargli pagare lo smacco subito. Fu nascosto a casa di amici, come ha scritto Gerardo Unia.
Dopo la
liberazione di Roma venne epurato dalla polizia per due volte, con l’accusa di
attività antisemite, vista la sua nomina diretta di ispettore generale a Nizza
effettuata da Mussolini. Dopo il ricorso contro l’ingiusto provvedimento,
sostenuto da molte testimonianze a suo favore, Lospinoso fu reintegrato dal
Ministero degli interni.
Dal 1949 al 1954 fu questore di
Udine. Collocato a riposo nel 1954, morì, eroe sconosciuto, senza
riconoscimenti ufficiali dell’Italia, con la sola gratitudine espressa dalle
Comunità ebraiche francesi nel 1972.
Gli accordi di Berlino del 4 dicembre 1943, come ha
scritto Michele Sarfatti, stabiliscono la consegna ai tedeschi degli ebrei
arrestati dagli italiani nel territorio della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), per la
deportazione nel Terzo Reich (pp. 262-263).
7. Arresti di ebrei a
Udine nel 1944
La caccia agli ebrei non è solo data dalle Leggi
Razziali italiane. Sul quotidiano «Il Piccolo» del 4
settembre 1940 c’è la notizia da Presburgo (Bratislava) riguardo agli ebrei della
Slovacchia. Il governo di quello stato ha deciso che “prima del 16 settembre
tutti gli ebrei residenti nel territorio slovacco dovranno avere dichiarato i
loro beni ai funzionari del Comune di residenza”.
Elio Morpurgo (1858-1944), presidente della Camera di commercio di Udine, in una fotografia giovanile di Pignat. Morpurgo fu anche sindaco di Udine dal 1889 al 1895. Il primo ebreo ad essere eletto sindaco in Italia è lui. Fu deputato del Regno d'Italia in sei legislature e, poi, senatore. Fototeca dei Civici Musei di Udine.
È del 1943 un’informazione
sulla Palestina. Sul giornale «Il Piccolo di Trieste» del 7 marzo 1943 è riferito un fatto terroristico
avvenuto a Gerusalemme, distruggendo un edificio, ma senza vittime civili. “L’inchiesta
ha stabilito che trattasi di bande ebraiche la cui recrudescenza terroristica è
segnalata a Tel Aviv, a Gerusalemme e in altri centri della Palestina. Questa agitazione
si propone di accelerare la creazione di uno stato sionista permesso da
Rooswelt agli ebrei e abilmente provocata da agenti nordamericani. Allo scopo
di rinforzare i reparti preposti in Palestina alla repressione del nazionalismo
arabo, altri 7300 ebrei sono stati arruolati dagli Inglesi nel servizio di
polizia o nella guardia civile palestinese”. Secondo alcuni studiosi tali
reparti costituiscono l’embrione della Brigata ebraico-palestinese portata a combattere
durante la seconda guerra mondiale in Italia e in Austria.
Sullo stesso
quotidiano di Trieste del 21 aprile 1944, ben controllato dal regime nazista,
si legge una notizia riguardo agli ebrei. Si legge di una riunione svolta a
Napoli il 16 aprile con circa 10 mila ebrei. “Erano presenti i rappresentanti
dei giudei di tutte le parti d’Italia meridionale. – si legge nel pezzo
intitolato “La situazione nell’Italia in una dichiarazione di Wiscinsky” –
Anche ebrei sovietici e americani che si trovano nell’Italia meridionale sono
comparsi numerosi alla manifestazione. I giudei hanno deciso di appoggiare
tutti i partiti antifascisti ed hanno indirizzato un telegramma di
ringraziamento a Badoglio per la sua opera di liberazione del giudaismo in
Italia”.
Nel 1944 vengono arrestati quattro ebrei di Udine dalle Waffen SS, secondo Pietro Ioly Zorattini. Si tratta del barone
Elio Morpurgo (1858-1944), prelevato ultraottantenne e ammalato in ospedale il
26 marzo 1944 e deportato alla Risiera di San Sabba il successivo 29 marzo, per
poi finire di vivere in Austria, dove morì di stenti tra… i devoti carcerieri di Hitler.
Dal quotidiano di Udine "Libertà" del 28 marzo 1946. Biblioteca dell'Istituto Friulano di Storia del Movimento di Liberazione (Ifsml), Udine.
Le Waffen SS se la
prendono pure coi matti, basta che siano ebrei; il demente Gino Jona è
arrestato dai tedeschi nel manicomio di Udine. Poi ci sono altri tre ebrei
imprigionati. Leone Jona, arrestato il 9 gennaio 1944, essendo egli partigiano
della Brigata Osoppo Friuli, viene deportato ad Auschwitz il 2 settembre 1944.
Poi c’è Roberto Jona, arrestato il 12 marzo 1944 e deportato ad Auschwitz.
Infine si ha notizia di un ebreo nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il
quale viene arrestato a Udine; il suo nome è Leone Modena, fu deportato a
Dachau e come tutti i sopravvissuti di quel lager venne liberato dall’esercito
degli Stati Uniti d’America il 29 aprile 1945. Fin qui secondo i dati di Pietro Ioly Zorattini, del 2002.
Udine, “Vie de Roe”, ossia il civico n. 30 di Via Verdi, dove
scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta la lapide, che ricorda i
quattro partigiani lì fucilati, tra i quali il giovane Antonio Friz.
Valerio Marchi ha analizzato la figura di Elio Morpurgo in vari elaborati. Nel 2016 ha scritto che egli è una figura di lustro
e di prestigio per la comunità israelitica locale, per la sua bella carriera
politica ed amministrativa. Sin da giovane Morpurgo entrò nel consiglio
comunale nel 1885, divenendo assessore alle Finanze. Dal 1889 al 1895 fu il
primo sindaco ebreo eletto in Italia, poi sottosegretario alle Poste e
all’Industria tra il 1906 e il 1919, fino a divenire senatore del Regno nel
1920.
Il figlio Enrico Morpurgo (1891-1969), udinese al pari delle sorelle Elda
ed Elena, si occupò del Friuli, quale studioso, insegnante, musicista, economista
e filantropo, essendo presidente tra le altre del Comitato Provinciale della
Croce Rossa Italiana (CRI). Estromesso dalla vita pubblica a causa delle Leggi Razziali,
nel 1938, andò in esilio in Svizzera (p. 173-176). Sempre secondo il citato
saggio Valerio Marchi gli ebrei a Udine, nel 1916, erano pari a 80 individui
(p. 169). Bianca e Vittorio Pincherle, ebrei di Udine, sono tra i pochi che si
salvarono dai campi di sterminio (p. 175).
Antonio
Friz, Wolf, a sinistra e Bepi Tomat, Bocjate, studenti partigiani. Archivio
Osoppo della Resistenza in Friuli, curato da Mons. Aldo Moretti, da cui
proviene la fotografia dei partigiani osovani qui pubblicata, Cartella Z –
Fototeca, foto n. 71.
Ritornando alle vicende di Enrico Morpurgo, nato il
10 dicembre 1891, si apprende dal volume di Italo Tibaldi (p. 93), che fu
deportato ad Auschwitz, tatuaggio n. 192901, col convoglio n. 77, partito da
Trieste. Il treno giunge a destinazione il 21 agosto 1944. Pare un'omonimia, dato che il deportato Enrico
Morpurgo nacque a Trieste, figlio di Mario Morpurgo e Emma Luzzatto.
Federico Esposito, ufficiale del regio esercito
italiano, è arrestato dai tedeschi e deportato a Flossenbürg
con partenza da Udine col trasporto del giorno 11 gennaio 1945, come ha scritto
Flavio Fabbroni. L’ufficiale Esposito ricorda la moltitudine di donne e di
bambini che si accalcavano alla stazione di Udine prima della partenza del
treno della morte. C’è folla anche sulle strade limitrofe, come in Viale
Trieste che, dopo Viale XXIII Marzo 1848, congiunge il Piazzale Palmanova (oggi
Piazzale D’Annunzio), dove c’è Porta Aquileia, al Viale della Stazione (oggi
Viale Europa Unita).
Ecco le parole di Federico Esposito: “Quella
mattina c’era la neve, mezza Udine che faceva ala lungo Viale Trieste, gente
che ci salutava… chi piangeva, chi salutava, qualcuno all’ultimo momento consegnava
cibi, pacchi. Io ho avuto l’impressione che tutta la città si fosse radunata in
Viale Trieste. E la gente ci ha seguito fino sotto i vagoni. Eravamo chiusi nei
vagoni piombati regolarmente e la gente era sotto, sul marciapiede. I tedeschi
facevano fatica a trattenere quella marea di gente: soprattutto donne e
bambini, era uno spettacolo per me un po’ straziante” (p.55).
È lo stesso viaggio che toccò fare a Mauro Drigo,
come ha riferito il sopravvissuto a Italo Tibaldi (p. 225), che si riproduce in
altra parte del saggio presente.
Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via
Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono
fucilati alcuni partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, più
precisamente “in Vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di Via Verdi, dove scorre
la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro
partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz, uno studente di Udine sud.
A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande
Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio
1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in
attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento. Palmano cita il
maresciallo delle Waffen SS Kitzmüller, che compì il voltafaccia,
facendo liberare alcuni reclusi fra i quali Verdi, Mario e altri (p. 100). Ecco
il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8
settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 2.
Tabella n. 2 - Detenuti
entrati al carcere di Udine, 1943-1945
Condannati a morte (sentenza eseguita) 98
Deportati in Germania 7.414
Deportati per lavori dalla TODT 753
Rimessi in libertà 1.647
TOTALE 9.912
Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande
Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.
È un prete, fiancheggiatore della Resistenza,
don Giuseppe Grillo, “Micros”, a menzionare la presenza di ebrei nel carcere di
Via Spalato a Udine. Don Grillo conosceva bene quella prigione, dato che vi fu
recluso per ben nove mesi dai nazisti. Egli nomina gli ebrei incarcerati a
Udine nella sua Relazione del Movimento e
dell’Assistenza carceraria al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) della
provincia di Udine, documento custodito nell’AORF, C.Q. fasc. 26, doc. 2.
Tali materiali di studio sono citati nel volume scritto da Luigi Raimondi
Cominesi sul comandante partigiano “Tribuno” (pp. 105-106). Tra le altre, don
Grillo aggiunge che i nazisti “persino con le partenze dei deportati (ne
abbiamo i nominativi) si faceva partire una spia”.
Udine 1935 - La caserma "Di Prampero" in Via Sant'Agostino, del 3° Reggimento artiglieria da montagna Julia, dopo l'8 settembre 1943 divenne sede di reparti repubblichini, ma per la gente era la caserma dell'8° Alpini. Fotografia da Facebook
Un altro luogo di detenzione di partigiani e sospetti vari
nel 1944-1945 a Udine era la ex Caserma dell’Ottavo Alpini, come diceva la gente, poco sopra la Chiesa della
Beata Vergine delle Grazie. È in quelle celle, con carcerieri repubblichini, che furono imprigionate numerose
donne friulane. Forse dava fastidio il movimento di patronage che si era creato
nelle stazioni ferroviarie friulane per alleviare i patimenti dei deportati e
degli ebrei nei carri bestiame.
Sugli aiuti dati dalle parrocchie in Friuli agli sfollati, ai profughi
e, dall’aprile 1945, ai militari italiani in fase di rientro dai Campi di
lavoro, da quelli di prigionia e dai Campi di concentramento vedi, in Appendice il Documento 1. Soprattutto
dal secondo semestre 1945, transitano a Udine oltre 500 mila individui da Germania,
Austria e Jugoslavia, secondo i dati dell’Archivio Osoppo della
Resistenza in Friuli (AORF), cartella T 1, f 7, carte 11 e 12.
Pinzano 1943, donne friulane aiutano i deportati ai Campi di
concentramento nazisti. Fotografia dell’Istituto
Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell'Età Contemporanea
di Pordenone, che si ringrazia per la gentile concessione alla diffusione e
pubblicazione.
“Per ordine del tenente Stonolika – ha scritto Mario
Quargnolo –, tutte le donne che dalle 18 alle 23 circolavano per le vie di
Udine la sera del 14 ottobre [1944], furono fermate, caricate su autocarri, portate in
caserma dell’8° Alpini da dove furono accompagnate all’ospedale per la visita
medica. Il rastrellamento di donne sane e oneste fece un grave scalpore in
città e sollevò infinite proteste. La città di Udine merita una riparazione con
l’allontanamento immediato dei responsabili dello scandalo, che io chiedo
formalmente…” (p. 113). Questo addirittura è parte del testo di una lettera di
protesta firmata niente meno che da Benito Mussolini all’ambasciatore della
Germania Rudolf Rahn nella Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), del 10 dicembre 1944. Naturalmente
potete immaginare cosa fece di quella ufficiale protesta l’ambasciatore di
Hitler nell’Italietta di Mussolini. Se ne fece un bel baffo ed archiviò.
Resta il fatto che la caserma dell’Ottavo Alpini, in mano ai
militi della R.S.I., oltre il Giardin Grande “imboccata la salita delle Grazie”
viene utilizzata per segregare i rastrellati. Anche Franco Iaiza accenna a
questo luogo di prigionia, dandogli un cupo colore, dato che vide all’interno
della struttura anche dei soldati tedeschi.
Era assieme a degli amici Iaiza, dopo aver fatto le comparse al “Rigoletto”
al cinema teatro Odeon e furono intercettati da un gruppo di bersaglieri, che
li accusarono di essere partigiani, sapendo bene dove portarli a recludere.
Bastava un nonnulla e finivi in galera. “Sempre fra spintoni e minacce ci
fecero attraversare tutto Giardin Grande, e, imboccata la salita delle Grazie,
ci consegnarono al corpo di guardia dell’ottavo alpini. Qui i padroni erano
ovviamente cambiati; difatti ci prese in consegna un tale la cui divisa
prevedeva anche un lugubre maglione nero che recava trapuntati sul petto
teschio e femori incrociati. Questi teneva nella destra un mitra e ostentava un
ghigno poco promettente. Ascoltò distrattamente i bersaglieri, impedì a noi di
parlare e ci costrinse ad entrare in una squallida stanza che già ospitava
alcuni malcapitati visibilmente tristi ed avviliti (…). Nulla ci dissero di
loro, poco di quella prigione e soltanto qualche accenno al disumano
trattamento fino ad allora subito” (pp. 274-275). Dopo una notte in guardina,
senza interrogatorio, il gruppo di comparse del “Rigoletto” fu liberato. Degli
altri non si sa.
Da altre fonti emerge ancora che la caserma dell’8°
Alpini fungeva da carcere nazista. È Narciso Ferroli, trasporto n. 121, sopravvissuto
che racconta a Italo Tibaldi la sua esperienza (p. 235). «Io sono stato preso dai tedeschi il
30 dicembre 1944, incarcerato a Udine nella caserma dell’8° Alpini, poi ricoverato
all’Ospedale civile, in seguito ad una ferita con infezione. Venni poi
incarcerato in Via Spalato e, col camion, portato alla stazione di Pontebba da
dove sono partito per la Germania. Non ricordo la data esatta, doveva essere
verso il 20 o 22 febbraio 1945. Sono arrivato a Dachau il 28 febbraio 1945,
immatricolato col numero 142176».
Un altro carcere di Udine, utilizzato dai nazisti
per detenere i prigionieri prima dell’internamento si trova nella caserma della
LXIII Legione “Tagliamento”, in Via Aquileia, secondo quanto riferito, nel
volume del 1984, da Rosina Cantoni a Flavio Fabbroni (p. 23). La stessa Rosina
Cantoni, secondo Italo Tibaldi, è compresa nel trasporto n. 117, assieme ad
ebrei e zingari (pp. 116-117), partito da Trieste il giorno 11 gennaio 1945, con
soste a Gorizia e Udine, con destinazione Ravensbrück, dove giunge il 16 gennaio 1945. Identificati 31
deportati. Superstiti alla liberazione: 8.
Tra i detenuti saliti a Udine su quel treno della
morte, come ha raccontato Rosina Cantoni alla famiglia Barbarino, c’erano pure
alcuni partigiani rastrellati, come Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 –
Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato
al IX Corpus di Tito
dell’Osvobodilna Fronta - Fronte di Liberazione della Jugoslavia. Fu catturato
a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager.
Come era la vita nel Campo di Flossembürg? La
descrive Pietro Pascoli nel 1946 sul quotidiano «Libertà». Era il 14 gennaio
1945. Nel crudo inverno una tradotta speciale carica di deportati politici,
provenienti dalle carceri di Udine, Gorizia e Trieste giungeva “dopo tre giorni
e tre notti di viaggio durante il quale non fu fornito alcun cibo e soli pochi
sorsi d’acqua, alla piccola stazione di Flossembürg capolinea”.
Entrata del Campo di sterminio di Auschwitz / Oświęcim.
Fotografia di Elio Varutti 2017
Come fu l’accoglienza? Vagoni merci, all’arrivo un
plotone di Waffen SS con i cani poliziotto che addentavano i polpacci. “Ci
avevano assicurato che ci portavano in Germania – spiega Pascoli, n° di
matricola tatuato 41927 – come liberi lavoratori”. Spogliati nudi nella neve.
“Nudo mi presentai al comandante con una fotografia in mano”. Erano le mie
bambine. Non fu permesso di tenere la foto. “Quella fotografia mi era stata
consegnata al momento della partenza fuori della stazione di Udine, tre giorni
prima l’11 gennaio 1945 dalla mia bambina maggiore”.
Riguardo ai luoghi di incarcerazione a Udine, non è
finita qui perché qualcuno degli arrestati è detenuto al comando delle Waffen SS, in Via Cairoli, come accadde
a Faustino Barbina; la sua testimonianza è sempre nella indagine di Flavio
Fabbroni (p. 24).
Come ricordavano nel dopoguerra certi udinesi “gli ebrei
Basevi, del negozio di abiti e tessuti - ha riferito Sergio Burelli – si sono
salvati dalle retate dei tedeschi perché sono riusciti a scappare in Svizzera”,
ma forse non è del tutto vero. I Basevi a Udine erano specializzati, agli inizi
del Novecento, in “abiti fatti (per uomo)”, con la seguente intestazione della
ditta “Basevi A. e figlio, Mercatovecchio”, al civico numero 27, secondo Gualtiero Valentinis, della
Camera di commercio (p. 105).
“Arturo Basevi, proprietario del negozio omonimo – ha scritto
Mario Quargnolo –, credette per primo, a Udine, nell’abito confezionato. Era
anche un musicista di notevole livello. Troviamo traccia di un’esecuzione beethoveninana
(il Quartetto opera 59, numero 3), cui partecipò al violoncello, in compagnia
del fratello Armando (violino), del dotto Giuseppe Castellani (secondo violino)
e dell’ingegner Luigi Montini-Zimolo (viola). Il concerto fu tenuto il 4 giugno
1927 nell’ambito dell’Università popolare dopo che il professor Enrico Morpurgo
aveva commemorato Beethoven. Nonostante le leggi razziali, Arturo Basevi («un vero signore» ricordano i suoi dipendenti) non
ebbe noie sino al settembre 1943. Poi dovette nascondersi a Treviso, mentre la
sua ditta passava sotto gestione commissariale. Tornò a Udine nel maggio 1945
in bicicletta, con la folta barba che si era fatto crescere nel frattempo” (p.
123).
Arturo Basevi si era difatti nascosto in Veneto, a Borso del
Grappa, in provincia di Treviso, come risulta dal libro di Antonio F. Celotto e
Zilio Ziliotto, del 2015, edito a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza
(p. 143).
Bozzetto pubblicitario della ditta A. Basevi e figlio, di
Udine, «Libertà», 25 dicembre 1945.
L’attività del negozio Basevi di Udine di Via Mercatovecchio al n. 27, in
effetti, è in piena funzione nel 1945,
come si può notare da un bozzetto pubblicitario apparso sul quotidiano «Libertà»
nel giorno di Natale.
La lista dei Basevi salvatisi dall’Olocausto, poiché fuggiti
in Svizzera è composta dalle seguenti persone: Achille, Amalia, Arrigo,
Attilio, Edda, Ermete, Franca, Giuseppe, Grazia, Jole, Lea nata Foa, Olga,
Renato, Sandro e Vittorio, come ha scritto Renata Broggini (p. 454). Pare più
verosimile, dunque, che Arturo Basevi fosse nascostosi a Treviso, evitando i
treni della morte.
Dalle fonti orali, infine, si sa che Armando Basevi era
proprietario dell’oratorio di San Leonardo in Via Gorghi. Da ricerche di Valerio Marchi del 2022, pubblicate sul «Messaggero Veneto» si è saputo che Armando Basevi di
Udine, dopo l’8 settembre 1943, si sia nascosto per un mese nel Cimitero
cittadino, con l’aiuto di padre Cesario da Rovigo e, poi, in Carnia, a Ovaro
sfuggendo alle persecuzioni naziste e alle delazioni. La falsa notizia della
fuga in Svizzera dei Basevi di Udine si rivelò salvifica per loro, perché confuse
le ricerche delle autorità naziste. Certo in Svizzera si rifugiano i tre figli
di Elio Morpurgo, oltre ai fratelli Oscar e Fabio Luzzatto (Valerio Marchi, “Le
leggi razziali i nascondigli. Così si salvarono i Basevi”, «Messaggero Veneto», 8 aprile 2022).
Gli ebrei a Udine nel 1938 sono 78 e nel 1945 sono ridotti a
40 individui, in base ai dati di Pietro Ioly Zorattini, opera del 2002.
Scatola di lucido per scarpe femminili Bata, con altre
scatole sequestrate agli ebrei internati al lager di Auschwitz. Da una bacheca
del Museo di Auschwitz. Fotografia di Elio Varutti 2017
A Udine
tra i primari marchi di negozianti c’erano anche i Bata, commercianti di
calzature, non presenti prima della Grande Guerra. I Bata sono originari di
Zlin, in Moravia. L’impresa è
fondata nel 1894 da
Tomáš Baťa. Il cognome in grafia ceca è: “Baťa”. Oggi l’azienda,
nota e diffusa su scala mondiale come “
Bata Shoe Organization”, è un’industria
di calzature, con sede a Losanna in Svizzera.
Nel 1933
Jan Bata, fratello del fondatore, fu accusato dai nazisti di essere ebreo, come
ha scritto Paolo Nori su «Libero» nel 2010. Non ho trovato dati sulla fede ebraica dei Bata di Zlin.
«Vendevamo scarpe a Udine in via Mercatovecchio – ha ricordato
Paola Troiano – mio marito Tulio Troiano era il gerente, poi ispettore del
Triveneto; i proprietari erano della Cecoslovacchia. Verso gli anni 1966-1967
in negozio fu installata la prima scala mobile della città e la ditta Bata
aveva circa 80 negozi in Italia, dai primi dieci con i quali aveva iniziato».
Dichiarazione di deportazione al lager di Auschwitz intestata
al signor Anticoli Lazaro di Roma, nato il 3.1.1910. Da una bacheca del Museo
di Auschwitz. Fotografia di Elio Varutti 2017
Altri ricordano che «a titolo di réclame nel negozio Bata di
Udine, negli anni 1950-1960 – come ha detto Carmen Burelli – comprando le
scarpe, regalavano il calzascarpe col nome della ditta, oppure delle pezze per lucidare
le scarpe e fornivano i barattoli di lucido per scarpe col loro marchio».
Nelle bacheche del
Museo di Auschwitz
si possono vedere le s
catole
di lucido per scarpe femminili e anche maschili col marchio Bata, con altre
scatole e oggetti vari sequestrati dai nazisti agli ebrei internati al lager.
Prima e subito dopo la seconda guerra mondiale le scarpe erano un
acquisto important in Friuli e si compravano a Pasqua, come ha scritto Renzo Valente (p.
138). Solo col boom economico del 1950-1960 i consumi diventano di massa a
prezzi più accessibili ai consumatori.
8. La variante
ferroviaria di Vat, 1944
Per questo paragrafo sono grato all’architetto Franco
Pischiutti, residente nel mio quartiere. Appassionatosi alla indagine sugli
ebrei a Udine sud, egli ha approfondito autonomamente e in collegamento con lo
scrivente, il tema della variante ferroviaria di Vat, a Udine. «So che
la Organizzazione TODT – ha detto l’architetto Franco Pischiutti – ha lavorato
alla variante della ferrovia di Vat, che si trova nella zona a Nord Est di
Udine, vicino a Paderno, che è una frazione della città».
Udine, la variante di Vat, costruita nel 1944 dai nazisti,
evidenziata con le frecce blu in campo giallo. In colore rosso si notano le
linee degli autobus, mentre i cerchi sono i capolinea. Le linee nere
ravvicinate, in basso, indicano lo scalo di Via Buttrio (a destra) e la
stazione (a sinistra). Udine, Pianta
della città, Corpo dei Vigili Urbani, Azienda Municipale dei Trasporti,
1980.
Sulla variante di Vat c’era un
progetto delle Ferrovie di Stato del 1939, che restò sulla carta. Nella
primavera del 1944 i tedeschi, quando il Friuli è da loro occupato e
trasformato in Adriatisches Kustenland,
con il lavoro coatto dei requisiti della
TODT (uomini, donne, vecchi e ragazze), costruirono la linea ferroviaria di Vat
dallo scalo di Via Buttrio in soli tre mesi. Tali informazioni sono state
raccolte presso l’ingegnere Domenico Pittino, che aveva uno zio impegnato in
quei lavori ferroviari.
«È probabile quindi – ha
aggiunto Franco Pischiutti – che dall’estate del 1944 anche sulla variante di
Vat, decentrata e in mezzo ai campi, ci sia stato il transito di vagoni carichi
di ebrei e di altri prigionieri provenienti da Trieste, dal Campo di concentramento
della Risiera di San Sabba e diretti ad Auschwitz. Ciò deve essere accaduto
soprattutto quando la line ferroviaria ordinaria, passante per Via Cividale,
veniva danneggiata dai bombardamenti degli aerei anglo-americani. C’è da dire,
infine, che il trasporto dei convogli di catturati lungo la variante di Vat
impediva la visione alla gente di Udine di quei vagoni caricati di ebrei e di
altri prigionieri in condizioni disumane».
La tratta della variante in
questione è stata dismessa nel 2015. La dismissione è avvenuta per la variante
di tracciato sulla circonvallazione ferroviaria di Udine (p. 74), come si legge
nell’Atlante delle linee ferroviarie dismesse, del 2016, edito da Rete Ferroviaria
Italiana. La parte di binari interessata è citata con questo nome: “Bivio
Pradamano-Udine-Bivio Vat”.
La citata dismissione riguarda la variante di Vat in
superficie, in quanto, come precisa Claudio Calligaris, che ha lavorato per
diversi anni negli uffici della stazione di Udine “quella tratta ferroviaria
ora è interrata ed è molto utile per il traffico ferroviario mercantile da
Trieste per Tarvisio, Vienna, che non serve si fermi a Udine”. Alla domanda sull’anno di costruzione della
variante di Vat Claudio Calligaris ha risposto che “è stata costruita dai
tedeschi nella seconda guerra mondiale, ne ho conferma anche dal signor Luciano
Marioni, che al tempo era mio capo ufficio in ferrovia, l’hanno realizzata sfruttando parte del materiale rotabile che
sarebbe servito per la nuova linea Udine – Portogruaro, poi, su quel tracciato
lungo e dritto, fu costruita invece una strada autoveicolare, la cosiddetta ferrata, appunto”.
Calligaris mi informa, infine, che lo scalo di Via Buttrio,
conosciuto nell’ambiente ferroviario in questi ultimi decenni come “Udine
Parco” è stato molto utilizzato nelle seconda metà del Novecento per le
operazioni di carico e scarico merci e di materiali per l’esercito, carri
armati compresi.
“Ricordo che negli anni 1980-1990 – ha concluso Calligaris – a
Udine Parco interi treni caricavano materiali,
uomini e mezzi per le manovre militari in Sardegna. Ancor oggi Udine Parco viene utilizzato per carico
scarico legnami e per il ferro utile all’acciaieria ABS. Comunque a quello
scalo facevano e fanno riferimento anche i convogli provenienti da Palmanova,
mentre sul lato Venezia ci sono altri due scali, c’è lo Scalo Sacca, utilizzato
per il materiale viaggiatori, più o meno dalla stazione a piazzale Cella, poi
c’è lo Scalo San Rocco, da piazzale Cella a Via della Valle, che è quasi
dismesso”.
9. Il fantat Rosenberg arrestato a Gorizia nel 1944
Si chiamava Rosenberg e aveva 12 anni. Era un ragazzo, un fantat (in lingua friulana). Viveva da
parenti o amici sotto falso nome. Fu arrestato davanti ai compagni di scuola dalle
Waffen SS, nella sua classe, presso la
scuola media di Gorizia e fu portato via. Non si seppe più nulla di lui, anche dopo
la guerra.
Corrado Cagli, Robert e
Michael Rosenberg, 1953. Disegno a olio su carta, cm 70 x 50, firmato in
basso a destra. Collezione privata, in I. Reale (a cura di), Cagli. Immaginare la libertà, Comune di
Udine, Galleria d’Arte Moderna, Firenze, Il Fiorino, 1989, p. 247.
Il testimone di questa tremenda esperienza è il maestro
Alfredo Orzan. Nella sua biografia, egli ricorda le continue retate naziste
nelle scuole di Gorizia, per scovare e deportare i figli dei partigiani e i
ragazzi ebrei che si nascondevano, con un’altra identità, grazie al soccorso di
tanti ignoti “Giusti”.
“Son rivâts a scuela i militârs da SS e i
republichins – ha detto
Alfredo Orzan – ai vedût puartâ via il me
compagn di classe a Guriza, in Via dei Cappuccini, al jera a stâ intuna famea cuntun altri non,
Rossini o Rossetti, no mi visi ben, ma lui al jera un Rosenberg e al veva dodis
agns. Lu àn puartât via a pidadis tal cul e pachis cul manaçon da sclopa, lui al vaiva e
chei lu pestavin ancjemò di plui. Al jera dome un fantat” (Sono arrivati alla
scuola [media] i militari delle SS e
i repubblichini – ha detto A. Orzan – ho visto portare via il mio compagno di
classe a Gorizia, in Via dei Cappuccini, era a stare in una famiglia con un
altro nome, Rossini o Rossetti, non ricordo bene, ma lui era un Rosenberg e
aveva dodici anni. L’hanno portato via a pedate nel sedere e botte col calcio
del fucile, lui piangeva e quelli lo pestavano ancora di più. Era solo un
ragazzo).
Non si è riusciti a trovare una citazione del bambino Rosenberg,
nato nel 1931-1932, nella letteratura consultata, primo fra tutti il libro La Shoah dei bambini, di Bruno Maida. Vi
sono vari Rosenberg della Jugoslavia, consultando Internet, nell’Elenco di Ebrei
stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, secondo i dati del
Ministero dell’Interno, ma nessuno nato nel 1930 circa, con riferimenti a
Gorizia, come il bambino Rosenberg, invece
vi sono vari individui con dei legami con Zagabria.
La Cedarmas scrive sugli ebrei di Gorizia e menziona un
Giacomo Rosenbaum, fu Salomone, nato a Zawercze il 20 novembre 1904 e residente
in Piazza Tommaseo 29, agente di commercio, di nazionalità polacca (p. 266). Un
altro Rosenbaum è di nome Ilario e sta a Monfalcone negli anni 1929-1931,
internato a Tarsia, provincia di Cosenza, e ritornato a Gorizia (pp. 137 e
146).
Renata Broggini pubblica un Elenco degli stranieri accolti in
Svizzera per motivi “politico-razziali”, dove si può trovare un Robert
Rosenberg, nato il 30 luglio 1913 (p. 509), oppure ci sono una Emma Rosenberg
nata Colorni il 4 maggio 1879 e un Roberto Rosenberg Colorni nato il 1° luglio
1901, secondo i dossier degli Archivi federali e cantonali svizzeri (p. 483).
Corrado
Cagli, Giovane nel lager, 1972. Disegno
a olio su carta, cm 34 x 24, firmato in basso a sinistra. Collezione privata, Roma,
in I. Reale (a cura di), Cagli.
Immaginare la libertà, Comune di Udine, Galleria d’Arte Moderna, Firenze,
Il Fiorino, 1989, p. 268.
Ancora Renata Broggini riporta il caso di passaggio da
Gorizia di una famiglia di ebrei in fuga, mentre un parente stretto “capitano
della milizia”, pur essendo stato avvertito prima “dai suoi amici delle SS” non
si preoccupa di salvare i congiunti ebrei. Anzi fa di peggio. È “il genero di
mia sorella, marito di sua figlia” – ha raccontato la testimone L.P.B. nel suo Pro memoria per il dopoguerra, scritto a
Lugano il 17 novembre 1944 (p. 336). Detto “capitano della milizia” fa
veramente una cosa losca. “Vendette tutto quanto i miei avevano messo a suo
nome per salvare, ritirò gioielli e denari lasciati da conoscenti e si comperò
una tenuta nel Veneto”.
Liliana Picciotto cita alcuni Rosenberg tra i 2844 ebrei
rastrellati e concentrati nel Campo di Fossoli, frazione di Carpi, in provincia
di Modena, vicino allo snodo ferroviario di Verona, che porta facilmente al
Brennero e ai lager in Austria, Slesia e Baviera. Essi furono deportati a
Auschwitz, per l’eliminazione (p. 4). Negli elenchi di Fossoli si trovano, tra
gli altri, i seguenti deportati a Auschwitz: Lucia Rosenberg, figlia di Giulio,
nata il 23 giugno 1900; Sofia Rosenberg, di Isacco, nata il 25 settembre 1878 e
Thea Rosenberg, di Oscar, nata il 28 luglio 1928.
A Fossoli, dunque, c’è l’unico “Campo di
concentramento speciale appositamente attrezzato” dalla R.S.I. per ebrei
arrestati dagli italiani, come ha ricordato Michele Sarfatti (p. 263).
Nel volume intitolato “Le-zikkaron. In memoria”, a cura dell’Istituto
per gli Studi Ebraici della Mitteleuropa e dell’Associazione Amici di Israele,
è scritto che furono 76 gli ebrei goriziani, residenti a Gorizia o gli
arrestati in provincia di Gorizia, deportati nei lager nazisti. Quasi tutti
morirono ad Auschwitz; solo quattro ritornarono a casa (p. 4). Una lapide ricorda
tali deportati e uccisi nei lager; è situata dal 1951 nel cortile della
sinagoga di Gorizia. Ventidue persone furono arrestate nella notte del 23
novembre 1943. Trentasette di tali ebrei imprigionati furono uccisi nel lager
appena scesi dal vagone bestiame, poiché vecchi o bambini. Tra di loro non c’è
alcun Rosenberg. Nello stesso testo è menzionato un “quattordicenne” (p. 5), ma
egli è arrestato in casa, nella zona del ghetto; deve trattarsi di Giacomo
Iacoboni, nato il 26 dicembre 1928 e sopravvissuto al lager di Bergen Belsen
(p. 24).
Corrado Cagli, Buchenwald
1945, Disegno a olio su carta, cm 20,5 x 33, firmato e datato in basso a
destra: Germany 1945 Cagli, in I. Reale (a cura di), Cagli. Immaginare la libertà, Comune di Udine, Galleria d’Arte Moderna,
Firenze, Il Fiorino, 1989, p 193.
Non so se c’entri col fantat
Rosenberg, compagno di classe di Alfredo Orzan, ma ho trovato un riferimento a
quel cognome con un disegno a olio su carta di Corrado Cagli, che fu tra i
primi soldati dell’esercito USA ad entrare nel Campo di sterminio di Buchenwald,
nel 1945. L’artista ebreo, nato a Ancona, fece un gran numero di disegni e
schizzi dell’orrore che vedeva. Il titolo dell’opera in questione è netto e
preciso: Robert e Michael Rosenberg.
Anche se riporta la data del 1953, anno della sua composizione artistica, il
disegno mostra in modo inequivocabile due ragazzi in un lager. C’è la torretta
di controllo con la sentinella armata. Uno dei ragazzi tiene in mano una
gavetta o una gamella per la zuppa di rape. Chissà se uno dei personaggi
ritratti da Cagli è il fantat
Rosenberg di Gorizia?
È appena il caso di accennare al flusso di ebrei germanici
che giunge a Gorizia sin dal 1933, come ricordato dalla Cedarmas (pp. 59-60) e
da Valerio Marchi nel suo articolo su Elio Morpurgo (p. 229). È scritto che
Attilio Morpurgo, presidente della Comunità israelitica di Gorizia è impegnato
nella raccolta di fondi per i profughi ebrei provenienti soprattutto dalla
Germania. Il presidente Morpurgo si lamenta del fatto che i numerosi ebrei
facoltosi di Udine contribuissero in modo “misero”.
Due ebree di Gorizia si salvarono fuggendo in Svizzera; esse
sono Lea Pincherle e Mariella Vivaldi. Proprio quest’ultima nel 2000 ha scritto
un libro – intitolato La porta della
salvezza – dove cita i Rosenbaum che avevano un negozio di stoffe a
Gorizia, sulla strada del Castello (p. 13).
Sempre da questa autrice, nata a
Gorizia, veniamo a sapere che il vice prefetto di Bolzano il 27 luglio 1943
diede indicazioni a certe famiglie ebraiche, andate ad interpellarlo sulla loro
sorte «di partire, di lasciare la città immediatamente» (p. 47). Il fatto
incredibile è che, pur sollecitati da racconti strazianti, anche il podestà di
Feltre (pp. 80-81) e il prefetto di Venezia aiutarono gli ebrei in fuga dai
nazisti, procurando loro documenti falsi (pp. 162-163).
Sul tema dei documenti falsi si dilunga
Tivadar Soros nel suo volume scritto nel 1965 in esperanto, per raccontare, nel
cupo scenario dell’occupazione nazista dell’Ungheria, il dramma a lieto fine di
una coraggiosa famiglia ebrea. Si tenga presente che a Budapest c’erano 280
mila ebrei. Alla fine della guerra, con l’arrivo dei carri armati russi, dopo
le persecuzioni e le deportazioni dei nazisti e dei fascisti ungheresi ne erano
rimasti circa 130 mila.
È Pino Lella, di 17 anni, con lo zio Mimmo, nel 1943, a far
parte della rete clandestina che reca aiuto alle famiglie ebraiche per
espatriare in Svizzera. Il punto di raccolta è tenuto da don Luigi Re, che a
Campodolcino, in provincia di Sondrio, ospita ragazzi e adulti ebrei da portare
al sicuro in Svizzera, lontano dai fascisti. Vengono usati i sentieri di
montagna. Uno dei passeur umanitari è proprio Giuseppe Lella, nato a Bari nel
1926, poi trasferito a Milano. Dal capoluogo lombardo Pino entra in contatto
con don Luigi Re nel 1943, per aiutare gli ebrei alla fuga. La sua esperienza viene
a galla solo nel 2017, mediante un romanzo di Mark Sullivan, autore americano
di thriller, che ha venduto 250 mila e-book, scaricati nel web. Il testo è
stato pure stampato col titolo: “Benath a scarlet sky” (Sotto un cielo
scarlatto), tradotto anche in Italia, come ha scritto Elisabetta Rosaspina sul «Corriere
della Sera» del 30 agosto 2017.
10. Ebrei nascosti, ebrei
sopravvissuti al lager
Si salvò dal lager una ragazzina fuggita in queste terre
friulane. Il suo nome è Arianna Szörényi, nata a Fiume il 19 aprile 1933. Suo padre,
Adolfo Szörényi, ebreo di
nazionalità ungherese era nato a Lugos (oggi in Romania) nel 1879. Egli morì in
campo di concentramento nazista nel 1944, come sua moglie cattolica, un figlio
e altre quattro figlie, come ha scritto Luigi Raimondi Cominesi, nel suo volume sulla famiglia Szörényi.
Sfollata a San Daniele del Friuli nel 1943 la famiglia Szörényi,
di nove componenti, a causa di una spia, viene arrestata il 16 giugno 1944
dalle Waffen SS e imprigionata a
Udine, dove subì la spoliazione dei beni materiali (pp. 23-25). Portati in
camion a Trieste e alla Risiera di San Sabba, forse il 21 giugno 1944 furono
caricati su un carro bestiame per Auschwitz, poi finirono a Birkenau. Un
parente, Leo Michelutti, va a cercare notizie di loro al comando delle SS a
Udine e, addirittura, fino alla Risiera di San Sabba, senza avere risposte. La
famiglia viene divisa. A metà gennaio 1945 Arianna subisce uno spostamento a
piedi e in treno, sul carro bestiame, per Ravensbrück e, infine, a Bergen Belsen. Qui, a
metà aprile 1945 il lager è liberato dalle truppe inglesi.
Roma,
16 ottobre 1943, biglietto recapitato dalle famiglie ebraiche del ghetto, prima
della retata nazista. Fotografia da Internet.
Rientrata a San Daniele “senza neanche un fazzoletto”, visse
colà fino al 1952, per finire gli studi. Incontra perfino il delatore amico dei
nazisti. Egli non fu mai arrestato, epurato, né condannato per ciò che fece.
L’unica piccola soddisfazione di Arianna Szörényi fu di sputargli in faccia
pubblicamente dicendogli: “Lazzarone, sei tu che hai denunciato la mia
famiglia!”. Il caso degli Szörényi è citato nel processo del 1976 sulla Risiera
di San Sabba nei confronti del comandante dell’Einsatz Kommando “Reinhard” col Waffen SS August Ernst Dietrich Allers e
del suo sottoposto tenente delle Waffen SS
Joseph Oberhauser.
È da aggiungere che gli stessi autori italiani della Shoah
precisano che alcuni ebrei si diedero alla clandestinità, soprattutto dopo il
1943, con l’Adriatisches Kustenland e
la conseguente occupazione nazista del Friuli, della Venezia Giulia, di
Trieste, Pola, Fiume e Zara. Altri ebrei si unirono agli sfollati, sfruttando
il cambio di nome, con la complicità di certi impiegati italiani, per sfuggire
alla retate naziste.
Anche i parroci del Friuli aiutarono gli ebrei a nascondersi.
È proprio successo negli ameni paesini del Friuli che alcuni religiosi, assieme
ad altri italiani, nascondessero gli ebrei, salvandoli dalle sgrinfie dei
nazi-fascisti, come ha raccontato Gianni Strasiotto. L’ebreo Israel Caimo, nato
a Rodi nel 1887, viveva nell’ombra nel 1944 a Casarsa della Delizia, in
provincia di Udine. Era sposato con Bula, rifugiatasi a San Vito al Tagliamento
con la figlia Virginia. Avevano quattro figli: Beni, Elia, Teodoro e, appunto,
Virginia. Israel Caimo da Rodi si era trasferito a Istanbul, Parigi e Padova,
da dove si era rifugiato infine a Casarsa, senza alcuna annotazione negli
uffici dell’anagrafe, dove andavano a cercare le Waffen SS.
Nel mese di ottobre 1944 ufficiali e militi delle Waffen SS lo cercarono a Casarsa, per
catturarlo e deportarlo alla Risiera di San Sabba, ma lui era a farsi una lunga
passeggiata, che gli salvò la vita. Poi si nascose nella soffitta della
canonica di Castions di Zoppola, d’accordo col parroco. L’ebreo Caimo fu
salvato da don Giuseppe Cristante, che lo ospitò lì a suo rischio e pericolo su
richiesta dell’avvocato Zefferino Tomè, di Casarsa. Si pensi che difronte alla
canonica di Castions di Zoppola, dove si nascose l’ebreo Caimo, era installato
un ufficio dell’Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo (OVRA),
il servizio segreto fascista. In seguito, per evitare l’arresto, dato che due
sgherri dell’OVRA erano riusciti ad adocchiarlo, il Caimo fu ospite del parroco
di Rauscedo, don Giovanni Delle Vedove (1899-1976) fino alla fuga dei nazisti.
Udine, Impianti ferroviari Via Romans incrocio Via Capriva.
Una ebrea che si salvò dalla deportazione è una componente
della famiglia Bolaffio di Trieste. Ha raccontato la signora Chiara Dorini: «Mio
papà Arno Dorini e mia mamma Silvana Chiesa si sposarono nel 1944 a San Lorenzo
di Sedegliano, in provincia di Udine. Dalla casa della famiglia Chiesa erano
appena andati via i tedeschi della Wehrmacht, che dopo l’8 settembre 1943
avevano stabilito lì il loro comando, lasciando 4-5 stanze per la famiglia
proprietaria».
«È incredibile che in casa ci
fosse pure mia nonna che era ebrea. – ha detto Chiara Dorini – Quei tedeschi
là, tuttavia, non le hanno torto un capello. La nonna era Maria Bolaffio,
originaria di Trieste, che morì nel 1995. Aveva sposato Pietro Chiesa, di San
Lorenzo di Sedegliano. La famiglia Bolaffio di Trieste ha avuto persone sparite
o arrestate dai nazisti e mai più tornate dalla Germania. Mia nonna Maria
Bolaffio si salvò, ma non voleva nominare il fatto di essere ebrea, si
confidava solo con me. Mi ricordo che chiedevo a mia madre di raccontarmi della
nonna Bolaffio, ma mi rispondeva che erano cose vecchie e finiva lì il discorso».
«Mio nonno Pasquale Dorini
lavorava al macello di Fiume e abitava con la famiglia in una villa – ha concluso
la signora Dorini – perciò una parte della famiglia stava nella città portuale
del Cuarnaro. Dopo l’occupazione jugoslava del 3 maggio 1945, nonno Pasquale fu
imprigionato dai miliziani titini e, per fortuna, scarcerato dopo pochi mesi.
Ma tanti suoi amici furono prelevati dalla polizia e scomparvero. Alla villa
c’era stata una perquisizione e ormai si temeva il peggio. Mio papà Arno, che
aveva combattuto contro gli jugoslavi, e mia mamma Silvana riuscirono a
raggiungermi in Friuli, da altri parenti».
La storia delle famiglie
Bolaffio, Chiesa e Dorini, tra Trieste, Fiume e le campagne del Codroipese, è
stata riportata nel 2004 da Mario Blasoni sul «Messaggero Veneto».
Nascondere una ebrea in soffitta
voleva dire, sotto i nazisti, essere fucilati se scoperti. È accaduto così a
Venezia, in Santa Croce, con esiti positivi durante la seconda guerra mondiale.
Protagonista del salvataggio dalla deportazione alla Risiera di San Sabba a
Trieste e poi ad Auschwitz, passando per Udine, è stato un poliziotto. Si
chiamava Aldo Bon e, assieme alla moglie Francesca Capoduro salvò la vita di
Lea Rina Cesana, la giovane ebrea nascosta nel solaio.
Questa vicenda di umanità, che
ha per attore principale un dipendente della polizia ferroviaria, è stata
raccontata dai figli delle coppie di sposi interessate: Aurelio Bon, di 77 anni
e dal settantenne Mirko Ferrari. Il quotidiano di Venezia «Il Gazzettino» l’ha
resa pubblica con le parole di Raffaella Ianuale il 21 gennaio 2017.
Nel sottotetto di casa, in calle
delle Procuratie, furono tenuti nascosti agli occhi dei nazi-fascisti e delle
loro spie la signora Cesana e suo marito cattolico Giovanni Ferrari. I
discendenti di quegli sposi – salvatori e salvati – si sono incontrati di
recente per ricordare i 246 ebrei veneziani deportati e uccisi nei lager di
Hitler. Essi hanno detto, infine, che il gesto di Aldo Bon e Francesca Capoduro
“non svanisca nel nulla”.
11. Il caso di Bruno
Piazza, avvocato triestino
Uno che si salvò dal campo di sterminio di Birkenau è l’avvocato
Bruno Piazza, che era nato a Trieste il 16 dicembre 1889, dove morì il 31
ottobre 1946.
Come si legge nelle enciclopedie, nell’articolo di Antonio
Antonucci su «La Stampa» nel mese di ottobre 1945 e nel web, egli è stato testimone diretto delle
camere a gas. Avvocato e giornalista, apparteneva a una
famiglia ebraica di tradizione irredentista che si era distinta per
l’annessione di Trieste all'Italia. Figlio di Giulio Piazza e Olga Frankel, si
sposò con Angela De Job, da cui ebbe tre figli. Aveva un fratello minore,
Alceo, anch’egli deportato ad Auschwitz, dove morì.
Bruno Piazza è stato iscritto al Partito Nazionale Fascista
dal 1922. Ha esercitato l’attività di pubblicista e la professione legale con
successo fino al 1938, quando fu radiato dall’albo, in seguito alle Leggi
Razziali. Venne arrestato a Trieste il 13 luglio 1944 con l’accusa di “odiare i
tedeschi” e di essere “di razza ebraica”, come scrisse lui stesso nel suo
memoriale. Detenuto alla Risiera di San Sabba, dopo alcuni giorni venne
trasferito alle carceri triestine del Coroneo. Il 31 luglio 1944 fu caricato su
un convoglio diretto ad Auschwitz, dove arrivò dopo tre giorni, ricevendo il
numero 190712 e venne classificato tra i prigionieri politici; per questo
motivo, al contrario di come accadeva a tutti gli ebrei con più di 50 anni, non
fu eliminato subito dopo il suo arrivo.
Selezionato da Josef Mengele per l’eliminazione il 19
settembre 1944, trascorse un intero giorno insieme a 800 persone stipate nella
camera a gas in attesa della morte. All’ultimo momento venne letta una lista di
undici persone che dovevano uscire in quanto prigionieri politici o ebrei
misti; il suo era l’ultimo nome, come ha scritto nel memoriale citato. Riuscì a
sopravvivere ad Auschwitz-Birkenau fino alla liberazione del campo da parte
dell’esercito sovietico, avvenuta il 27 gennaio 1945.
Marcello Tomadini, Benjaminovo
12-17 marzo 1944 – Dopo oltre trenta ore di chiusura nei carri bestiame, ci
fanno scendere a piedi scalzi, sulla neve, per soddisfare le necessità
corporali, in Marcello Tomadini, Venti
mesi fra i reticolati, LX tavole con prefazioni di don Pasa e Guglielmo
Cappelletti, Vicenza, Editrice Società Anonima Tipografica, 1946.
Al suo ritorno a Trieste nel 1945 ritrovò tutti i suoi
familiari, fortunosamente salvatisi. Scrisse in sole tre settimane di intenso
lavoro tra giugno e luglio di quello stesso anno un libro-documento, lucido e
dettagliato resoconto della sua esperienza, intitolato Perché gli altri dimenticano, ma diversi editori si rifiutarono di
pubblicarlo. Morì per un attacco di cuore nel 1946. I figli Brunetto e Maria
Luisa, dopo dieci anni dalla sua morte, riuscirono a far pubblicare la sua
testimonianza, nelle edizioni Feltrinelli.
L’opera di Bruno Piazza fu uno dei primissimi memoriali
scritti da deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti.
Oltre a Bruno
Piazza, sette furono i deportati ebrei italiani autori di racconti
autobiografici nei primi anni del dopoguerra: Lazzaro Levi alla fine del 1945,
Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul e Luciana Nissim
Momigliano nel 1946, e infine nel 1947 il celebre Primo Levi e Liana Millu. Ad
essi vanno aggiunti: Luigi Ferri, la cui deposizione (in tedesco) è resa
nell’aprile 1945 di fronte ad uno dei primi tribunali d’inchiesta sui crimini
nazisti e Sofia Schafranov, la cui testimonianza fu raccolta nel 1945 in un
libro-intervista di Alberto Cavaliere, come si legge nel web.
Marcello Tomadini, Sandbostel
1944 – In alcune baracche sono attrezzate le “conigliere”, in Marcello Tomadini, Venti mesi fra
i reticolati, LX tavole con prefazioni di don Pasa e Guglielmo Cappelletti,
Vicenza, Editrice Società Anonima Tipografica, 1946.
12. Quattro vagoni di ebrei
a Udine sud
Quasi con lo stesso titolo Rina Bernardinis dedica
all’argomento due pagine di un suo memoriale, edito nel 1982. È una testimone
eccellente, poiché in veste di crocerossina alla stazione di Udine ha visto i
convogli ferroviari per il trasporto di ebrei e di prigionieri militari
italiani. Tali tradotte erano posizionate, come scrive non a caso l’autrice
“lontano dalla vista di tutti”. Forse sarà per questo motivo che molti degli
intervistati del quartiere di Baldasseria – Udine sud, che riportano i loro ricordi,
oppure quelli dei genitori, zii e nonni, non hanno mai sentito parlare di treni
di ebrei o altri deportai in transito e in sosta nella zona di Via Monfalcone,
Via Romans e Via Buttrio, come hanno detto Danila Braidotti, Luciano Gon,
Teresa Novelli, Claudio Calligaris e Giorgio Romanello.
“A jerin lis sfoladis di Pola – ha detto Danila
Braidotti, di Pagnacco – che a vivevin tes barachis a Felet, ma no ai mai
sintût fevelâ di ebreus, ni sfolâts, ni puarâts vie dai todescs cui vagons dal
treno” (C’erano le sfollate di Pola che vivevano a Feletto [Umberto, frazione
di Tavagnacco, confinante con Udine], ma io non ho mai sentito parlare di
ebrei, né sfollati, né portati via dai tedeschi coi vagoni del treno).
Il sito citato dalla Bernardinis è proprio a Udine sud, nell’area dello scalo ferroviario, tra Via
Buttrio, Via Pradamano e Via Monfalcone. Lì stazionarono i treni merci
provenienti dalla Risiera di San Sabba o dal Carcere triestino del Coroneo, per
il trasporto di ebrei e di altri prigionieri dei nazisti.
Si precisa, tuttavia, che talvolta gli ebrei sono
catturati dalle milizie italiane, dopo l’8 settembre 1943. Come ha raccontato
Ida Marcheria a Roberto Olla: “Gli italiani ci hanno preso. Ci hanno portato al
carcere di Trieste, al Coroneo. Erano italiani. I tedeschi li abbiamo visti
pochi giorni prima di partire per la Polonia” (p. 10).
Posto di blocco tedesco nei pressi di Tarcento, 1944. Da: Rina
Bernardinis, Nel mio autunno ricordo,
Udine, Giovanni Aviani, 1982, p. 145, che si ringrazia per la pubblicazione.
Con tutta probabilità i quattro vagoni visti a Udine sud
dalla crocerossina Bernardinis e dai suoi colleghi sono quelli che effettuarono
il trasporto del 28 marzo 1944. In quella data parte uno dei convogli dalla Risiera di San Sabba, per
giungere ad Auschwitz il 4 aprile successivo. Dei 300 triestini partiti, ben 62
muoiono durante il viaggio, secondo Walzl (pp. 252-254). Quattro vagoni
bestiame possono contenere 70-75 individui ciascuno, ben stipati. In totale
fanno 300 persone, secondo la forsennata programmazione nazista. L’evento riportato
qui di seguito è comunque ambientato nel 1944.
«Nessuno aveva segnalato al Posto di Pronto Soccorso della stazione di
Udine – scrive Rina Bernardinis –
l’arrivo di quel treno. Le disposizioni erano state impartite in sordina, dalla
superiore autorità tedesca, direttamente ai propri dipendenti.
Quattro vagoni staccati dal convoglio al cosiddetto “scalo Buttrio”,
erano finiti su un binario morto, lontano dalla stazione, lontano dalla vista
di tutti.
Erano i vagoni degli ebrei, di quelli più sfortunati che non avevano
avuto una porta amica a cui bussare o non avevano osato rivolgersi agli amici,
per non esporli alle feroci rappresaglie naziste, in caso di delazioni,
perquisizioni, rastrellamenti.
Numerosi della zona di Trieste e nei paesi vicini, avevano visto
esplodere l’odio contro di loro, in una caccia di casa in casa, in tutti i
quartieri.
Gli Italiani che si adoperavano per salvarne qualcuno, operavano con
la coscienza di chi si ribellava all’iniqua discriminazione razziale e non
intendeva essere complice, neppure passivo, dell’antisemitismo fascista.
Ma non tutti avevano il coraggio e meno ancora avevano la possibilità
materiale di concretizzare i salvataggi nelle buie cantine della città o negli
sparsi casolari della campagna o, meglio ancora, in quelli della montagna.
Udine 1938,
Piazza Vittorio Emanuele II (poi Piazza Libertà), crocerossine e militi della
CRI, in servizio di beneficenza, con il presidente CRI professor Enrico Morpurgo,
figlio di Elio, di famiglia ebraica, primo a sinistra; la terza a sinistra è la professoressa Bernardinis. Da: Rina Bernardinis, Nel mio autunno ricordo, Udine, Giovanni Aviani, 1982, p. 128, che si ringrazia per la pubblicazione e diffusione.
***
Il uno dei suoi frequenti giri d’ispezione, mai autorizzati, ma sempre
assai proficui, don [Domenico] Cattarossi, attivo, silente collaboratore, aveva scoperto
quei quattro vagoni. Era rapidamente arrivato in sede a dare l’informazione. Il
personale non aveva indugiato a predisporre ogni cosa per un’assistenza
efficiente. E di assistenza dovevano avere veramente bisogno quegli infelici,
poiché la permanenza nei vagoni, nonostante la breve distanza fra il luogo di
partenza e quello della sosta, durava già da alcuni giorni.
Il colloquio con la “superiore autorità” – che fu evidentemente
sorpresa della nostra scoperta – per un avvicinamento del convoglio alla sede
di servizio, rimase infruttuoso.
Nel frattempo i militi e le crocerossine avevano sistemato su due
carretti, reperiti nei dintorni, il materiale sanitario e generi vari di
sussistenza, non deperibili di cui disponevano.
La comitiva si mosse immediatamente, infermiere in testa, verso il luogo
indicato, alquanto scomodo per il lavoro. A un tratto, uno dei frequenti
allarmi obbligò in tutta fretta, a rientrare.
Non era ancora spento il sibilo della sirena del cessato pericolo,
quando, pronti sull’uscio per ripartire, vedemmo passarci davanti un convoglio,
a velocità moderata, ma in ripresa.
In coda c’erano i vagoni degli ebrei, evidentemente portati in
stazione, con imprevedibile, rapidissima manovra, durante l’allarme. Un’atroce
beffa.
Gli sguardi e i saluti di quei poveretti, stipati ai finestrini,
sembravano volerci dire: “Grazie! Non siete riusciti a darci il vostro aiuto
materiale, ma vi siamo ugualmente grati. La vostra intenzione, il vostro
pensiero, sarà per noi una scintilla di luce nel buio dell’avvenire che ci
attende”.
Seguimmo con lo sguardo quel treno, finché fu solo un puntino nero,
che infine scomparve».
Ci sono altre fonti a conferma del passaggio di
molti deportati nel 1944-1945 allo scalo di Via Buttrio a Udine per i treni
della morte. La testimonianza di Mauro Drigo raccolta da Italo Tibaldi (p. 225)
è riferita al trasporto del giorno 11 gennaio 1945; il testimone cita un giorno
diverso, precisando “mi pare”.
«Siamo partiti dalle carceri di Udine – ha riferito
Mauro Drigo – allo scalo merci eravamo in tanti. Il treno merci era lungo; era,
mi pare, il giorno 14 gennaio 1945. I vagoni vennero piombati e scortati dalle
SS e dalla polizia di Trieste la Sipo… giungemmo in Germania, nel campo di
Flossenbürg, Comando di Hersbruch, il giorno 29 gennaio 1945. Mi fu assegnato
il n. 41747 di matricola». I deportati sono circa 489. Identificati sino al
1984: 110. È lo stesso viaggio che toccò fare a Federico Esposito, come ha
riferito il sopravvissuto a Flavio Fabbroni (p. 55), che si riproduce in altra
parte del saggio presente.
Sullo stesso libro di Italo Tibaldi si può leggere un
racconto più dettagliato riguardo alla partenza dei prigionieri dei nazisti,
riferito al 1945. «Il 1° febbraio venni trasferito – ha affermato Ermes
Visintini a Italo Tibaldi – insieme ad altri prigionieri di Via Spalato allo
scalo ferroviario di Udine, dove trascorremmo la notte e parte del giorno
successivo, stipati in cento per ogni vagone. Il giorno 2 febbraio arrivarono
da Via Spalato altri 200 carcerati; fummo ripartiti in cinquanta per vagone e
si partì per Mauthausen. Ad una stazione austriaca (Villaco, credo) vennero
agganciati ai nostri vagoni quelli contenenti altri 600 prigionieri provenienti
dal carcere Coroneo di Trieste». Il convoglio giunge a Mauthausen il 7 febbraio
1945, sotto scorta dei tedeschi e dei cosacchi, loro alleati, fino al campo di
sterminio, che fu comunque liberato dall’esercito degli USA il 5 maggio 1945.
Altri ebrei uccisi in Germania
nel Campo di concentramento e passati
per le carceri di Udine sono i goriziani Pincherle (Olga, Emilia e Samuele),
come ha raccontato Mariella Vivaldi: «i loro nomi sono ora incisi nel marmo
della lapide che si trova sul muro della sinagoga di Gorizia» (p. 182).
13. Trattamento degli ebrei
nei campi di concentramento nazisti
Sin dal primo dopo guerra in città e nel Friuli si hanno dei
ragguagli di come venivano trattati gli ebrei nei campi di concentramento
nazisti. Nell’articolo intitolato Parla
un superstite di Mauthausen, pubblicato su «Libertà»
del 23 giugno 1945, a pagina 4, un deportato, tale Domenico Castiglione,
imprigionato il 5 febbraio di quell’anno racconta la sua testimonianza. «Fummo
trasportati in maniera bestiale, 50-60 per vagone, chiusi per tre giorni senza
mangiare e senza bere». Nel campo di sterminio il cibo consisteva in una zuppa
di rape essiccate e scorze di patate, un pezzetto di margarina e 100 grammi di
pane.
Marcello Tomadini, Sandbostel
1944 – Giungono al campo le donne polacche che presero parte all’insurrezione di
Varsavia. Molte morirono durante il lunghissimo viaggio fatto a piedi, in
Marcello Tomadini, Venti mesi fra i reticolati, LX tavole con prefazioni di don
Pasa e Guglielmo Cappelletti, Vicenza, Editrice Società Anonima Tipografica,
1946.
Poi il racconto precisa il
trattamento riservato agli ebrei dalle guardie naziste del campo di Mauthausen.
«Gli ebrei vennero uccisi tutti. Quelli che resistevano, venivano chiusi in un
recinto nudi e innaffiati per ore con un pompa. Morivano di congelamento urlando
come pazzi. In mezzo ad essi c’erano anche vecchi e bambini sotto i dieci
anni». Poi Castiglione descrive le camere a gas del “Campo 3”, i cadaveri
gettati nel forno crematorio. «La SS
fuggì il 4 maggio – conclude la testimonianza – e il 5 giunsero gli alleati e
la sospirata liberazione».
Sullo stesso giornale quotidiano, il 27 giugno 1945, si può
leggere un articolo firmato solo dal nome, tale Carlo, riguardo al campo di
sterminio di Dachau. I deportati giungono a Dachau il 28 febbraio 1945 alle 11
del mattino, dopo quattro giorni di viaggio, chiusi senza cibo, in carri
bestiame. Otto compagni di viaggio sono caduti sotto le pallottole della scorta
repubblicana fascista durante un tentativo di fuga fra Pontebba e Tarvisio. “Chi ha
sparato più rabbiosamente è stato un siciliano, certo Morredu”.
14. Le due sorelle ebree di Grado, 1944
Sono state nascoste dalla gente di Grado, in provincia di Gorizia.
“Erano due sorelle ebree – ha raccontato Eva Ebner – e nel 1944 lavoravano in un
negozio di bigiotteria, giocattoli e abbigliamento da spiaggia all’inizio del
viale che unisce il porto alla spiaggia, dove si trova anche la pasticceria
Panciera, ma questa è sull’altro lato della strada; la mia mamma mi aveva
portato al mare da Tarcento, in provincia di Udine, dove abitavano in quel
tempo”.
Queste due sorelle ebree avevano addirittura un negozio
aperto al pubblico, come facevano a nascondersi dalla caccia dei nazisti? E poi
si sono salvate? Come si chiamavano? “Sì, si sono salvate – ha risposto la
professoressa Ebner – perché le ho viste anche negli anni del dopoguerra, sai
il medico diceva a mia madre che mi avrebbe fatto bene l’aria di mare, così il
papà ci portava in un piccolo albergo difronte al negozietto delle due sorelle ebree, me le ricordo ancora, una era magra,
mentre l’altra era paffuta e ben in carne; ecco negli anni 1949-1950, mi pare, avevano
trasferito l’attività commerciale in fondo al viale, a destra, verso la
spiaggia. Non saprei dire il loro nome, mi ricordo che i gradesi dicevano che
erano ebree e che la gente del luogo aveva tenuto nascosta la loro origine,
così si sono salvate. Ho ancora un paio di orecchini comprati da loro”.
15. Altri racconti delle
fonti orali, 1943-1945
La prima persona che mi parlò di una retata nazista nel
quartiere ebraico di Fiume, in realtà mi stava raccontando i fatti dell’esodo degli
italiani dalla città del Cuarnaro, dopo il giorno 8 settembre 1943. Con questa
digressione ebbi conferma che la Shoah passò per Udine, Gemona e Tarvisio. “I
tedeschi presero donne, bambini ed anziani – ha detto la signora N.C. – e li
portarono via con i camion. Nei giorni successivi altri camion e uomini in
divisa per caricare mobili, merci ed ogni cosa. Si portarono via tutto, non
lasciarono neanche uno spillo”. Si può vedere, in merito, una lettera alla
redazione di un quotidiano: E. Varutti, Fiume
1943, «Il Manifesto», 5 luglio 2001.
Alcune donne friulane si organizzarono, andando nelle
stazioni a vedere i treni di ebrei diretti in Germania, per dare qualche aiuto,
un po’ d’acqua, portandosi i bambini come copertura e perché aiutavano a
raccogliere dei biglietti lanciati dai finestrini dei vagoni merci prima
dell’arrivo delle guardie tedesche. Tutto ciò emerge dal film documentario di
Paolo Comuzzi e Andrea Trangoni, in titolato: Cercando le parole. La disubbidienza civile delle donne friulane di
fronte all’8 settembre 1943.
Marcello
Tomadini, Belsen 1945 – Uno dei forni
crematori ove furono gettati, dopo essere stati asfissiati coi gaz, migliaia di
uomini e donne perché inabili al lavoro, o perché si rifiutavano di lavorare
per la Germania, in Marcello Tomadini, Venti mesi fra i reticolati,
LX tavole con prefazioni di don Pasa e Guglielmo Cappelletti, Vicenza, Editrice
Società Anonima Tipografica, 1946.
Sentiamo altre fonti. “Era il 1943-1944 – ha detto Alessandro
Pirani – e mia madre Maria Teresa Mezzavilla ricordava che a Tarvisio, dai
treni, i prigionieri lanciavano dei biglietti con l’indirizzo dei loro
familiari, poi le donne friulane organizzate scrivevano a quegli indirizzi,
avvertendo che il familiare ebreo era passato di lì”.
Un’altra fonte orale, in certe ricerche scolastiche, ha
riferito i ricordi della sua famiglia. È il professor Ezio Cragnolini, nato a
Gemona del Friuli, in provincia di Udine, nel 1955, da me e dagli allievi dell’Istituto
“Bonaldo Stringher” di Udine intervistato il 28 novembre 2007. “Mia madre – ha
detto Cragnolini – raccontava di certi treni carichi di gente, che si lamentava
nei carri bestiame fermi in stazione a Gemona, nel 1943-1944, e lei assieme ad
altri gemonesi davano un po’ di uva, presa dai filari lì vicino, e un po’ di
frutta dai finestrini a quei poveretti, che erano italiani [ebrei di Fiume]”.
La signora Anna Chiavon di Udine ricordava che da bambina
aveva visto “transitare a Udine i treni di ebrei per la Germania quando, con
altre bambine, andavo al passaggio a livello di Via Cividale per guardare i
treni e a salutare i passeggeri”. I bambini, ingenuamente, salutavano quei prigionieri
che passavano lentamente nei carri bestiame, senza rendersi conto di ciò che
stava avvenendo. Li stavano deportando ad Auschwitz e Dachau.
La signora Rina Menis, di Artegna, morta novantenne pochi
anni fa, ricordava di aver visto gli ebrei nei vagoni merci alla stazione di
Artegna, in provincia di Udine, durante la seconda guerra mondiale, come
riferisce il nipote Giorgio Ganis.
Il testo della seguente fonte orale è stato reperito in
Internet. «Sono stata presa prigioniera e portata a Trieste a sedici anni – ha detto Bianca Torre, di Turriaco,
in provincia di Gorizia – il 24 maggio
1944 assieme allo zio Angelo e al cugino Aldo, poi trasferita ad Auschwitz. A
Udine i miei familiari sono arrivati con una valigia e vestiario per me. Mia
sorella e mia zia mi davano la roba attraverso la grata del vagone piombato.
Poi hanno aperto il vagone e mi hanno dato l’intera valigia. Non so come sono
riusciti a sapere che ero in viaggio. Il treno non viaggiava veloce e mi
ricordo che in prossimità dei nostri paesi tutti buttavano fuori dei
bigliettini di saluto per i propri cari. Ho visto bambini di 8 anni, donne e
vecchi con le stampelle. Con noi c’erano quattro ebrei, due femmine e due
maschi».
Udine, al
centro si nota Via Buttrio, con lo scalo e la linea ferroviaria proveniente da
Gorizia Trieste, Comune di Udine, Istituto Geografico Militare (prima edizione
1882), particolare, 1928.
È presumibile che l’incontro dei familiari di Bianca Torre
sia avvenuto nello scalo merci di Udine, tra Via Buttrio, Via Romans e Via
Monfalcone, poiché i treni venivano fatti attendere in quell’area, per non
occupare i binari della stazione. Tra l’altro nella stazione, nel 1944,
dovevano esserci varie sentinelle militari naziste oltre alla polizia
ferroviaria italiana, mentre era più facile consegnare oggetti dai finestrini
dei carri bestiame piombati allo scalo ferroviario, poco o per niente controllato.
Addirittura alcuni congiunti “hanno
aperto il vagone piombato”, segno di scarsi controlli militari. Anziché
scappare, i prigionieri sono lieti di ricevere una valigia, vestiario e cibo,
tanta era la fiducia malriposta nelle autorità.
Come mi hanno detto meravigliati alcuni agricoltori
della zona di Udine sud: “Ma è possibile che la Shoah sia passata vicino alle cumieres di Baldassarie?” Le “cumieres”, in lingua friulana, sono
le porche, o strisce di terra rilevata e coltivata, con solchi ai lati per
raccogliere l’acqua. È una sistemazione tipica sia degli orti coltivati dai
contadini, sia dell’orto casalingo. Ebbene la Shoah non passa solo in
Baldasseria, sobborgo meridionale di Udine e, come si è già visto, a Tarvisio,
Artegna, Gemona del Friuli, Pinzano (oggi in provincia di Pordenone), ma anche a
Tarcento, come ha detto Giuseppina De Luca, nel 1968, a un giornalista del «Messaggero Veneto», che si firma con D.L., solo con una sigla.
Per certi ebrei ed altri detenuti il fatto di non fuggire dai
treni della morte o dai campi di concentramento, pur avendone l’occasione,
rappresentò un errore fatale. Il Campo di concentramento per ebrei di
Servigliano Marche, in provincia di Ascoli Piceno, fu uno dei pochi ad essere
preso d’assalto dai partigiani di Giustizia e Libertà nel maggio 1944, così che
gli internati potessero evadere. “Non tutti però fuggirono: alcuni, timorosi di
non trovare di sopravvivere e non sapendo a chi rivolgersi – scrive Liliana Picciotto
– piuttosto che darsi alla macchia, preferirono rimanere a Servigliano” (p.
125). Poi furono concentrati a Fossoli e, quindi, ad Auschwitz.
Un’altra fonte orale ricorda che a Udine nel periodo
1943-1945 “mia madre andava a prendere i biglietti degli ebrei lanciati dai
vagoni merci chiusi e piombati – ha detto Giorgio Stella, di Udine – lei si
chiamava Maria Maiolini, era nata nel 1922 ed è morta nel 2015, diceva che
quella gente si lamentava molto, il treno passava lentamente al passaggio a
livello di Sant’Osvaldo, precisamente in Via della Valle, dove adesso c’è un
sottopassaggio, poi le donne udinesi spedivano i messaggi di saluto agli
indirizzi scritti dai prigionieri in quei biglietti”.
Udine,
sottopasso di Via della Valle, in precedenza c’era il passaggio a livello, dove sono stati visti i treni di ebrei, 2016.
Un’altra fonte eccezionale sull’aiuto dato ai prigionieri dei
nazisti a Udine diretti ai campi di concentramento è senza dubbio la signora
Clelia Messina, nata il 13 novembre 1917. Come ha scritto Giacomina Pellizzari
sul «Messaggero Veneto» del 15 gennaio 2017. Era il 1945 e Clelia Messina,
abitante in Via Medici – a Udine sud - pur di sfamare i deportati, con la sua
bicicletta, andava a chiedere del cibo ai contadini di Pradamano e di
Cussignacco.
Poi con altre donne andava in
stazione per passare quel cibo ai prigionieri italiani, stipati nei vagoni
bestiame, mentre qualche guardia tedesca lasciava fare, ma qualcuno sparò. In
stazione c’era il caos – segno che le donne e le ragazze che aiutavano i
deportati erano davvero tante – e la signora Clelia voleva distribuire una
minestra con un pentolone. «I prigionieri ci chiamavano mamma, la guardia sparò
e il proiettile mi sfiorò le gambe. Da allora non ho più visto un film di
guerra».
Si riporta un altro racconto sull’aiuto dato ai prigionieri
stipati nei carri bestiame. «Mia mamma era una ragazzina che abitava in Via Napoli, a Udine – ha comunicato
Fabio Galimberti, di Martignacco – diverse volte ha portato, a suo rischio, di
nascosto delle patate che tirava contro le piccole finestrelle dei vagoni. E
molte volte ha raccolto i bigliettini che cadevano da queste aperture per portarli a un sacerdote. Si ricorda ancora bene quegli avvenimenti».
Ecco
una storia riferita da un esule di Fiume a Genova. È il racconto di Graziella
Superina, riportato da Aldo Tardivelli, suo marito: «Avevo tante amiche a Fiume
che frequentavano la stessa classe della scuola elementare “Dante Alighieri”. Una
fra queste, Elena, ebrea, compagna di banco e di giochi. Il più delle volte,
durante la sosta delle lezioni nell’ora della ricreazione mi offriva una parte
della sua merenda, che era un po’ più sostanziosa della mia. Le
lezioni in classe procedevano regolarmente fino l’ora della religione
cattolica, quando la mia (povera) amica doveva uscire dalla classe e attendere,
in solitudine, nel corridoio la fine della lezione».
«Purtroppo, e con sicurezza, temo, che fra gli ebrei
scomparsi per sempre nel 1943-1944, ci sarà stata, certamente, anche l’amica
Elena. Sarà andata ad infoltire l’elenco, incredibilmente lungo, di altre
migliaia d’infelici della nostra città, a trovare la morte nei Campi di
concentramento nazisti».
La signora Paola De Wrachien, di Udine, ha detto: «Ero anche io tra quelle bambine che in
stazione a Udine cercavano di dare un po’ di pane di acqua ai deportati dei
tedeschi».
Poi ricorda qualcosa d’altro? «Mi ricordo che i treni erano fermi
all’altezza del Dopolavoro ferroviario, in Via Cernaia 2 – ha aggiunto la De
Wrachien – e penso che c’erano tante persone, non so se parenti o semplici
udinesi, che davano delle cose per aiutare i prigionieri, compresi gli ebrei». Lei
è andata da bambina solo in stazione nel 1944-1945, oppure anche su altri
binari? «No, perché poi i tedeschi hanno spostato quei vagoni merci proprio
verso Badasseria – ha concluso De Wrachien – dato che in stazione c’era troppa
confusione, ricordo tanti bigliettini gettati dai deportati e raccolti da noi
bambini, che poi le donne grandi utilizzavano per scrivere qualche notizia alle
famiglie di quei poveretti»..
16. Ebrei, soldati e
partigiani italiani a Dachau 1944-1945
In una famiglia di Baldasseria, suburbio di Udine, c’è un
parente militare italiano della Sicilia imprigionato e spedito a Dachau. “Si
chiamava Alfonso Pendino e faceva l’insegnante – ha detto Teresa Novelli, di
Udine – i tedeschi l’hanno preso e portato a Dachau, poi è ritornato qui da noi
a Udine che era magrissimo. Mi ricordo che mio papà, che era Luigi Novelli,
nato a Buttrio nel 1882 e morto nel 1958, lavorava in ferrovia e mi parlava
dello scalo merci, ma non ricordo vicende collegate agli ebrei, diceva di aver
visto tanti soldati... A bombardavin il tren e si butavin jù tal cjamp
(Bombardavano il treno e la gente si buttava giù nel campo). Mio papà per
lavoro, nel 1944-1945, andava fino a Trieste, Treviso e Tarvisio. Abitavamo in
Via Pradamano al numero 45… e cuanche al rivave Pippo, il me om, Torribio
Marioni, al cjapave la vacjute Bise pe cuarde e a scjampavin fin a Pradaman
(Quando arrivava Pippo [aereo mitragliatore noto nella seconda guerra mondiale]
il mio uomo prendeva la mucca Bise alla corda e scappavano fino a Pradamano)”.
“Me pari Gino, di Baldassarie, al jere militâr in Albanie – ha detto Luciano Gon – e dopo l’8 settembre i
superiôrs a son sparîts e lui nol saveve dulà lâ e
al è restât in caserme, cussì lu àn cjapât i todescs e menât sù fin a Dachau,
and’à viodudis di ducj i colôrs, ma nol à mai volût fevelât cun me di chel
periodi di vuere” (Mio padre Gino, di Baldasseria, era militare in Albania e
dopo l’8 settembre i superiori sono spariti e lui non sapeva dove andare ed è
rimasto in caserma, così lo hanno preso i tedeschi e deportato fino a Dachau,
ne ha viste di tutti i colori [violenze e cattiverie], ma non ha mai voluto
parlare con me di quel periodo di guerra).
Lo sfacelo del regio nonché imperiale
esercito sabaudo, dopo il giorno 8 settembre 1943 è stato ben inquadrato in
poche righe da Francesco De Gregori, capitano degli Alpini e partigiano delle
Brigate Osoppo col nome di battaglia di “Bolla”, fucilato il 7 febbraio 1945 alla
malghe di Porzus dai partigiani comunisti. Dopo l’armistizio: altro che “Tutti
a casa!”. Secondo De Gregori la reazione ai tedeschi poteva starci, come si
legge nell’articolo “Introduzione d’un libro interrotto dalla morte”,
pubblicato postumo nel 1949.
Finì a Dachau, come tanti altri militari italiani, pure
Alberto De Grandi, di origine trentina. Mi raccontava che il suo internamento
era iniziato dopo il giorno 8 settembre 1943, quando i nazisti presero
prigionieri i soldati italiani in Bosnia. Alberto ricordava Zara, perché nel
1940 era stato nelle caserme della città italiana della Dalmazia. Poi aveva dovuto
andare a Bihać, in Bosnia
Erzegovina dove, ogni sera, i partigiani tiravano colpi di fucile contro le
sentinelle del fortino italiano. Dopo il 1943 vide i soldati italiani che
scambiavano il loro fucile con i bosniaci per un pezzo di pane, da tanta fame
che avevano.
Portato in campo di concentramento tedesco, si sentì proporre
di aderire alle milizie della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), oppure alle
Waffen SS. “Non ne potevamo più della
guerra – diceva Alberto – così furono ben pochi ad arruolarsi, alcuni di loro
lo fecero per mangiare o per tagliare la corda alla prima occasione, però accettai
di lavorare come contadino, come altri commilitoni, solo sperando di mangiare
meglio e ci trasportarono a Königsberg, in russo: Kaliningrad… ma noi eravamo operai, così
la sentinella ci riempiva di botte col calcio del fucile, quando sbagliavamo di
attaccare il cavallo al carro… noi ridevamo e i tedeschi giù botte. Poi siamo
evasi, viaggiando clandestini sui vagoni merci, ma nel centro dell’Europa ci
hanno ripresi e portati a Dachau, da dove sono sopravvissuto. Ah, quello che ho
visto nel campo di concentramento, tante violenze, uccisioni di ebrei, freddo,
fame, cumuli di cadaveri, i forni crematori, le partigiane slave, i prigionieri
francesi coi pacchi viveri dei familiari. Bisogna solo aver provato per credere”.
In base alla biografia di Paolo Spezzotti (Cividale del
Friuli 1914 - 2014), sottotenente del Reggimento cavalleggieri “Alessandria” di
Palmanova, si sa che il 14 settembre 1943, rimasto senza ordini superiori, su
suggerimento del maresciallo dei carabinieri si dileguò dalla sua caserma,
mentre in città entravano le forze d’invasione tedesche. Come ha scritto
Liliana Cargnelutti, il sottotenente Spezzotti viene fermato a Udine dai
tedeschi il 19 gennaio 1945, assieme al padre Luigi Spezzotti, senatore del Regno.
I due sono imprigionati e interrogati nelle carceri di Via Spalato. Il 24
febbraio 1945 da Trieste partì un treno di deportati che sostò a Udine, per far
salire Paolo Spezzotti con altri detenuti politici, militari italiani e qualche
donna (p. 25).
Paolo Spezzotti, Narciso Ferroli, Alfonso Zamparo,
secondo Italo Tibaldi (pp. 121-122) fanno parte del convoglio n. 121, partito
da Trieste il 24 febbraio 1945 e giunto a Dachau il 28 febbraio seguente. Totale
deportati 324, di cui 71 identificati. Superstiti al 1984 risultano: 53.
Ritorniamo a Dachau. L’orrore del campo di concentramento non
è vissuto da Paolo Spezzotti solo nei mesi di marzo e aprile 1945, perché anche
dopo la liberazione, avvenuta il 29 aprile 1945 con l’intervento delle truppe
degli Stati Uniti d’America, dovette pensare con altri ex internati alle numerose
salme insepolte del lager, sotto la guida degli alleati. L’odissea non è
finita, a Dachau difronte ai soldati USA ci sono 33 mila sopravvissuti e oltre
7 mila cadaveri. “Ci vollero tre giorni di lavoro con l’impiego di una decina
di carri agricoli, per portarli nelle fosse comuni” (p. 26). Poi siccome non ce
la faceva più, decise di fuggire, assieme ad altri due friulani, come ha
scritto nel 2005 nella sua Cronaca di
viaggio. Il suo rientro in Friuli avvenne con mezzi di fortuna: a piedi,
con un camion, in tram, su vagoni bestiame, su un carretto trainato da un asino…
(pp. 54-64).
Il dottor Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza. Collezione famiglia Savino, Udine.
Un altro milite italiano “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si
tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine.
Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano,
fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” –
disse dal vagone alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via,
assieme a un gruppo di alcuni suoi
colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio,
conoscendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si
perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un
pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice
commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse
per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di
zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.
Udine, Cortile della Questura, Lapide commemorativa degli otto deportati nei campi di concentramento, dove è citato tra gli altri il dottor Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza. Collezione famiglia Savino, Udine.
La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di
concentramento di Ebersen, sotto-campo di
Mauthausen. Trovato uno che lavorava nel campo stesso, furono
consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il
pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui oggi è dedicata
una lapide nel cortile della Questura di Udine.
Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen
il 15 marzo 1945.
Tra i poliziotti italiani c’era un briciolo di
umanità nel trattamento degli ebrei incarcerati dai nazisti con l’ausilio
servile degli apparati militarizzati della R.S.I., come le Brigate Nere. A
Torino, nel 1945, all’Ufficio Razza, presta servizio tale Conti, funzionario di
carriera, come ha scritto Sarfatti. Ebbene detto Conti cerca di “lenire quanto
possibile le pene degli ebrei arrestati o detenuti presso le carceri” (p. 357).
Addirittura ne ottiene la scarcerazione in modo disinteressato e senza
ammettere alcuna forma di riconoscenza. Udine, Torino, Nizza e Fiume non sono
casi isolati di questure con un po’ di umanità dentro la guerra.
Pure nelle prigioni di Udine c’erano dei poliziotti vicini al
Comitato di Liberazione Nazionale, in collegamento con i detenuti politici.
“Dentro il carcere – ha scritto Ferdinando Pascolo “Silla” – c’erano il
direttore, un sergente maggiore a altri che lavoravano nascostamente per il
C.L.N., ma c’era anche la macchina carceraria vera e propria che agiva per i
tedeschi e per i repubblichini” (p.156).
Necrologio del dottor Mario Savino, «Libertà», 13 marzo 1946, p. 2.
La signora Maria Pelaia è una di quelle mogli-madri che hanno
cercato di vedere i propri congiunti sul carro bestiame prima della partenza
per Dachau. La sua testimonianza è pubblicata sul quotidiano di Udine «Libertà»
del 29 maggio 1946. Il maresciallo tedesco delle carceri di Udine era il tale Hans Johannes Kitzmüller. Quel maresciallo vietò alla signora Pelaia di vedere il marito,
arrestato il 27 gennaio 1944, prima della partenza per il Campo di
concentramento di Dachau. Nell’aprile 1944 viene arrestato pure il figlio
Tomaso, che cercava notizie del padre e, sempre
Kitzmüller, vietò alla signora Pelaia di vedere il figlio. Avvertita da
una “buona guardia delle carceri” italiana, la signora riuscì a vedere suo
figlio alla stazione di Gemona, durante una delle soste del convoglio
ferroviario. “Lo vidi da un pertugio del carro bestiame con le sole mutande.
Ultima indimenticabile tristissima visione”.
Detto maresciallo Kitzmüller in talune occasioni funge da
interprete in certi processi lampo contro gli arrestati dai nazisti. Durante
tali fatti, che portarono alla fucilazione alcune decine di prigionieri
rastrellati in vari luoghi del Friuli, la corte giudicante era incredibilmente
costituita anche da ufficiali delle Waffen SS in divisa, come ricorda Gino
Pieri nel suo articolo intitolato Una
esecuzione in carcere. 9 aprile 1945. Come minimo Kitzmüller è testimone
passivo dei crimini di guerra perpetrati dai suoi commilitoni nei confronti di
ebrei e di militari italiani imprigionati.
Alcune fonti, tuttavia, tendono a scagionarlo,
anzi lo presentano come doppiogiochista o, addirittura, quale elemento vicino
alle Brigate Osoppo Friuli, tramite don Emilio De Roja, secondo quanto ha
scritto Luigi Raimondi Cominesi nel suo libro sul comandante partigiano
“Tribuno” (pp. 120-156).
17. Fuggiaschi, disertori e
resistenza passiva
Un militare italiano in fase di internamento, ad esempio, si
salvò fuggendo dal carro bestiame, assieme ai suoi commilitoni imprigionati. Si
chiamava Angelo Varutti, figlio di Giovanni Maria e di Anna Maria Zucchiatti,
di San Vito di Fagagna, una famiglia di contadini. Barbe Agnul (Zio Angelo) fu catturato dai tedeschi a Ciconicco, in
Comune di Fagagna, nel 1944 mentre con un carro portava mobili e patate a dei
parenti sfollati. La sua testimonianza di evasione ha dell’incredibile, perché raccontò
che i ferrovieri italiani informarono i prigionieri, presi dai tedeschi, quali
assi del carro merci potevano essere spostate facilmente per scivolare fuori
dal vagone, nei rallentamenti del treno, e fuggire.
Višegrad, Angelo Varutti, 6 luglio 1942. Collezione famiglia Varutti, Udine.
Così fece Angelo, riuscendo a non farsi prendere dai colpi
della mitragliatrice tedesca posta sul tetto della tradotta. Arrivato a piedi a
casa, non ne poteva più della guerra e delle armi e dei morti ammazzati, così
si fece preparare dai familiari un piccolo buco nel fieno e lì stava nascosto
durante il giorno. Sua madre gli portava da mangiare. I nazisti non lo trovarono,
nemmeno i repubblichini o le spie, neanche i cosacchi e nemmeno i partigiani.
Così si salvò. Il 6 luglio del 1942 Angelo Varutti era di stanza con l’esercito
italiano a Višegrad, un centinaio
di chilometri da Sarajevo, dopo aver partecipato alle campagne di Albania e di
Grecia. Dopo il giorno 8
settembre 1943 era riuscito a rientrare a casa a San Vito di Fagagna.
Anche Rina Bernardinis ricordava che a Udine i «ferrovieri, i militi
della Croce Rossa, mentre qualcun altro, come la signora Magnani che sapeva
perfettamente il tedesco distraeva i tedeschi con delle buone scuse, riuscivano
a togliere da sotto l’asse del pavimento di un carro merci. Proprio da quel
pertugio sono scivolati fuori dal vagone i sedicenni del Real Corpo Equipaggi,
prelevati a Venezia. Poi venivano preceduti da un ferroviere e muniti di
contrassegni forniti dalla signora Vignando, per scendere lungo la scarpata
vicina e sparire, nascondendosi nello scuro della sera».
Allora c’era una forma di resistenza passiva, perché c’era
chi tentava di rabbonire i tedeschi con carte e permessi vari, mentre altri
aiutavano a fuggire i deportati, oppure li assistevano. Chi erano i più bravi a
infinocchiare i nazisti? «I più bravi persuasori dei tedeschi,
oltre alla citata signora Magnani – ha riferito la
professoressa Bernardinis –, erano il
cappellano militare, il capitano medico, il telefonista Macorigh, che ci
segnalava i convogli di internati da Casarsa o quelli di ebrei da Trieste, ma
poi c’erano i conduttori, gli addetti alla Marelli ed altri ferrovieri,
soprattutto i manovali. La parola d’ordine tra di noi era: Salvarne quanti più
si può».
Una fuga dal treno della morte del 4 febbraio 1945
è raccontata da Giovanni Agnoli a Italo Tibaldi, trasporto n. 121 (pp.
235-236). La cattura dopo l’evasione è effettuata dai tedeschi e dai cosacchi,
loro aiutanti. Riformato il convoglio di oltre otto carri merci, con
prigionieri del carcere di Udine e del Coroneo di Trieste, l’arrivo a Dachau
avviene il 24 febbraio 1945 e la liberazione, grazie ai soldati degli USA, è
del 28 aprile 1945.
La stessa fuga viene descritta da un altro
prigioniero, in un’altra fonte edita. Si tratta del racconto del partigiano
Italo Zuliani “Paride”. La sua testimonianza è pubblicata sul giornale «Il
volontario della libertà» del giorno 1° aprile 1946 e in altre puntate della
testata medesima. Nel trasporto ferroviario da Trieste a “Udine uniscono i
carri dei detenuti di quel carcere”, scrive Zuliani. Alcuni deportati “dei
vagoni aggiunti a Udine riescono ad evadere”. Poi vengono caricati a Gemona
altri dieci prigionieri così nel vagone ci sono 70 persone. Dopo cinque giorni
di viaggio i detenuti giungono al Campo di sterminio di Mauthausen. Uno dei
prigionieri è morto nel vagone durante il trasporto, ma le Waffen SS non ne hanno voluto sapere di scaricarlo e seppellirlo.
L’autore è stato recluso nei campi di concentramento, tra violenze inaudite
(calci, schiaffi, frustate ed altro) nel periodo compreso tra il 6 febbraio e
il 6 maggio 1945, giorno della liberazione da parte dei soldati degli USA. Si
notano delle coincidenze tra quanto descritto da Italo Zuliani col trasporto n.
120 del volume di Italo Tibaldi (p. 120-121).
Nel 1943-1944, essendo chiuso il Passo del Brennero
per neve, le autorità naziste chiedono ed ottengono il permesso di far passare
i loro treni dalla Svizzera per i lager, come ha scritto Daša Drndić. Pure gli
operatori della sezione di Zurigo della Croce Rossa vanno ad aiutare i
deportati diretti in Germania nei vagoni piombati. Sono italiani, ebrei e
zingari. Alla stazione ferroviaria ricevono un po’ di brodo caldo, coperte ed
altro, sotto il controllo dei gendarmi, tra colpi ed urla. Gli operatori della
Croce Rossa elvetica non possono parlare, né fischiare. Poi i convogli successivi
vengono spostati a distanza, perché non si sentano le urla (p. 147-154).
C’è tutta una prosopopea negativa contro gli imboscati, gli
obiettori di coscienza e i casi simili, eppure chissà quanti sono gli italiani
che hanno salvato la pelle in questo modo?
Si legge in certa memorialistica che nel 1944 Mussolini
chiamò alle armi la classe del 1926. Molti studenti di quarta e quinta liceo
abbandonarono sia la scuola che Udine, nascondendosi in campagna “altri – ha scritto
Franco Iaiza – come i nostri compagni di classe Petri e Cominotti, raggiunsero
le formazioni partigiane che praticavano la guerriglia sulle vicine colline e,
fra questi, ci fu chi, come Sandro Cominotti, pagò con la vita” (p. 177).
Chi restava al suo posto, finì al campo di concentramento,
come il colonnello Albano, del 2° fanteria, catturato la sera del 12 settembre
1943, dopo che i tedeschi avevano occupato i punti strategici della città di
Udine, come ha scritto Mario Quargnolo (p. 71).
Ora c’è la storia di un disertore, aiutato da tanti italiani.
È Severino Fabris di Basiliano. «Una sera si presentò
sull’uscio di casa Severino Fabris un collega di mio padre. – ha scritto Franco Iaiza – Visibilmente spaventato, ci disse di
essere fuggito dal treno che lo rimpatriava dalla Germania, dove, prigioniero
di guerra, aveva optato, pur di rientrare in Italia, per l’arruolamento
nell’esercito fascista. Avendo quindi disertato, non poteva certo rifugiarsi a
casa sua a Basiliano, perché lo avrebbero facilmente scoperto e logicamente,
fucilato. Ci chiese asilo e rimase con noi. Si rapò a zero, si fece crescere un
folto paio di baffi neri e mio padre, complice il segretario comunale, riuscì
ad iscriverlo all’anagrafe con il nome di Romano Valentino e a spacciarlo per
un vecchio amico cacciato al nord dall’incalzante avanzata anglo-americana. Per
renderlo ancora più insospettabile lo fece precettare dall’Organizzazione Todt,
che lo destinò, come altre migliaia di italiani più o meno impauriti e
demoralizzati, a costruire quel mega-fosso anticarro che in loco era detto
“fossalon” e che, per nostra fortuna non servì a niente» (p. 178).
18. I disegni di Corrado
Cagli a Buchenwald, 1945
Corrado Cagli nacque a Ancona il 23 febbraio 1910 e morì a
Roma il 28 marzo 1976. Nel 1915 si trasferì a Roma con la famiglia, dove compì
gli studi e frequentò l’Accademia di Belle Arti. Nel 1932 fa parte del “Gruppo
dei nuovi pittori romani”, con Giuseppe Capogrossi ed Emanuele Cavalli, primo
nucleo della Scuola Romana. Nel 1936
partecipa alla VI Biennale di Milano, nel 1937 è oggetto di attacchi antisemiti
sulla stampa nazionale ed espone alla Esposizione Internazionale di Parigi. Poi
è anche a New York e alla XXI Biennale di Venezia.
Nel 1937-1938 Cagli, prima del suo esodo come ebreo a Parigi
e New York, instaura a Udine un intreccio artistico con i fratelli Afro, Dino e
Mirko Basaldella. Per i tre artisti friulani, così come per altri pittori
italiani, Cagli è “stato un punto fermo di riferimento, un polo culturale,
un’inesauribile fonte di immaginario”, come ha scritto Isabella Reale (p. 11).
Nel 1941 si arruola volontario nell’esercito degli Stati
Uniti d’America. Dopo gli addestramenti in Arizona, nel 1944, partecipa allo
sbarco in Normandia a seguito della Prima Armata USA, combattendo poi in
Belgio, sulle Ardenne e in Germania, dove fu tra i primi soldati ad entrare nel
Campo di sterminio di Buchenwald.
Proprio l’immaginazione dell’artista è superata nei suoi
disegni fatti a Buchenwald, campo nazista appena liberato nel 1945. Cagli
intitola i suoi schizzi: Disegni
documentari. Nel suo segno c’è una lucidissima analisi della realtà. È una
documentazione, quindi una denuncia, azione diretta sulla realtà tremenda del
campo di sterminio.
Nel 1946-1947 opera a New York e poi a Roma. Nel 1970-1973 è
chiamato a Gottinga a realizzare il monumento commemorativo della comunità
ebraica nell’area della sinagoga distrutta dai nazisti, col titolo: La notte dei cristalli.
19. I nomi di ebrei
raccolti da Claudio Magris
Tra i graffiti della Risiera di San Sabba a Trieste si
possono leggere determinati nomi, in base alle fotografie dei libri di storia.
Lo scrittore Claudio Magris ne elenca alcuni di essi nel suo romanzo intitolato
Non luogo a procedere. Il testo è in
forma caotica, com’è la scrittura murale degli imprigionati. “Arrestati 24
settembre 1944 marito Aldo Sereni nato il 19 dicembre 1896. Partito 12 ottobre.
Jolanda Moriz [di] Abbazia parte 11.1.1945”.
L’elenco continua in questo modo: “9 IV 944 arrivati kva Kabilio
Albert Levi Ida Manzato Evarisio Marcherita [Margherita] Levi Grünwald arriva qui il 30.11.1944 parte
per X 11.1.1945” (p. 348).
Roberto Curci ha spiegato che le scritte graffiate
sui muri delle celle della Risiera di San Sabba dai carcerati ebrei e
partigiani sloveni sono state ricopiate nell’immediato dopoguerra dal
collezionista Diego de Henriquez su diversi quaderni, prima che venissero
ricoperte con la calce, dato che il luogo servì ad accogliere i profughi
istriani e dalmati. Curci ha aggiunto dati su Margherita Levi Grünwald. Era una maestra
di 44 anni presso le scuole elementari ebraiche di Trieste. Riparata in un
paesino del Friuli con la famiglia Herzog “commise più di una volta l’imprudenza
di venire a Venezia”. Braccata dai nazisti e da Mauro Grini, delatore al soldo
dei nazisti, fu catturata e imprigionata alla Risiera (p. 44-45).
La spia pericolosissima, perché ebreo – forse ricattato dai
nazisti – che risponde al nome di Mauro Grini, alias dottor Manzoni, è menzionato anche da Livio Sirovich (pp. 24 e 405)
e da vari altri autori.
Da altre fonti si sa che un ebreo, tale Giulio Grünwald era
socio dell’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, in un’industria di Fiume nel
1928. “Fiume iera con l’Italia e Grünwald col Conighi gà progettado e fatto una raffineria de
benzina con depositi di petrolio per la città”, come ha raccontato la signora
Miranda Brussich, nata a Pola e vissuta a Fiume fino al 1946.
Del resto Trieste è un punto di partenza di ebrei provenienti
dal Centro Europa per i porti di Haifa nel 1933 e per Tel Aviv nel 1938, come
ha scritto Gabriella Steindler Moscati (p.43). È un altro grande romanziere a
fornirci simili notizie. Si tratta di Amos Oz che, nel suo romanzo “Una storia
di amore e di tenebra”, ricorda gli ebrei di Vilna (Lituania), giunti a Trieste,
per imbarcarsi sulla motonave Italia
con destinazione Haifa, in terra palestinese, sotto Mandato inglese. Ecco i
loro nomi: Shlomit e Alexander Klausner col figlio Yehudah Arieh (p. 140).
Altri autori menzionano Trieste come un porto
utilizzato dagli ebrei per imbarcarsi verso la Palestina. Klaus Voigt fa anche
delle cifre. Prima del 1940 gli ebrei con visto di transito a Trieste per la
Palestina sono tra i 4 e i 6 mila, tra i quali molti austriaci (p. 35).
Sempre Trieste è un punto di riferimento per il transito di
bambini ebrei di altre zone dell’Adriatico. Nei mesi di gennaio-maggio 1943,
infatti, è la famiglia Stock di Trieste a ricevere le lettere dell’ingegnere
Israele Kalk, di Milano, per perorare la causa dei bambini ebrei sfollati da
Spalato, in Dalmazia, come ha scritto Giancarlo Lancellotti (p. 141). Nel 1998
a Trieste è presente l’unica comunità ebraica della regione, con 628 iscritti,
come riporta Annie Sacerdoti.
Gli ebrei in fuga non puntavano solo a Trieste. Oltre
al porto dell’Alto Adriatico, c’era il cosiddetto “canale” di Fiume,
soprattutto dopo il 1938. Era un punto di espatrio per gli ebrei di Fiume, dei
dintorni e, più in generale, per tutti i Balcani e l’Europa centrale. C’era poi
il “canale” di Varese, come ha scritto Curci, per espatriare in Svizzera (p.
59).
Dopo l’emanazione delle Leggi Razziali a Fiume giunge
un funzionario della Questura tutto particolare. Si chiama Giovanni Palatucci
ed è assegnato all’Ufficio stranieri, poi diviene Questore reggente. Per sei
anni, nell’esercizio delle sue funzioni alla Questura, Palatucci si prodiga in
un’intensa opera di salvataggio di migliaia di perseguitati, soprattutto ebrei.
Fornisce loro permessi speciali, svia le piste dei rastrellamenti nazisti, fa
distruggere fogli anagrafici che li riguardano, procura la loro via di fuga
all’estero o in altri posti della penisola meno esposti.
Giovanni Palatucci viene arrestato nel mese di
settembre 1944 e deportato a Dachau, dove muore nel febbraio 1945. Oggi egli
gode di riconoscimenti internazionali, compresi quelli dello stato d’Israele.
Il 1° maggio 1945 le truppe titine e quelle della IV Armata
dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia entrano a Trieste. Nei 43 giorni
di occupazione jugoslava la città vide numerosi imprigionamenti di italiani,
con processi popolari, condanne a morte e la conseguente eliminazione nelle
foibe. Le scuole vennero utilizzate come campi di concentramento degli
imprigionati, sovvertendo l’ordinamento scolastico.
Le ritorsioni e le violenze dei partigiani titini
sui civili e militari italiani sono menzionate, tra gli altri, da Roberto Curci
(p. 78).
Con l’arrivo degli Alleati
anglo-americani, gli jugoslavi si ritirano dalla Zona A, occupando la Zona B; è
attivato il Governo Militare Alleato (GMA; in inglese: “Allied Military
Government”, AMG) e si assiste alla nascita del Territorio Libero di Trieste
(TLT), fino al 1954. Siamo agli albori della guerra fredda. In riferimento ai
proponimenti degli Alleati, può essere ricordata la lettera di Winston Churchill a Stalin, datata 23 giugno 1945. «Mi sembra che una frontiera –
scrive Churchill –, che delimiti la zona d’influenza russa, e corra da Lubecca
via Eisenach fino a Trieste e giù fino all’Albania, sia una questione che
richiede molte discussioni condotte fra buoni amici» (p. 561).
Verso il 12 maggio le
truppe britanniche si stanziano ufficialmente a Trieste, per sostituirsi agli
slavi. Come hanno scritto Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino: “Nella primavera
del ’45, i soldati neozelandesi dell’Ottava Armata britannica trovano a Trieste
poco più di quattrocento israeliti, ridotti praticamente alla fame. Il 7
maggio, accompagnati da un rabbino della Brigata Ebraica, una quindicina di
membri della comunità triestina riaprono le porte della sinagoga. L’incubo è
finito. Dalle ceneri dell’Olocausto europeo, appena tre anni dopo, sorgerà lo
Stato di Israele” (p. 68).
Con il 12 maggio 1945, come si legge a pag. 1 sul quotidiano «Libertà»,
il governo italiano reintegra “gli ebrei nei loro diritti patrimoniali uguali a
quelli di altri cittadini, coi quali hanno uguali doveri”. Le Leggi Razziali
del 1938 sono abrogate, andando ad occupare una brutta pagina della storia.
Quale immagine hanno lasciato tra gli udinesi i
soldati americani nel dopoguerra? Sono solo dei piccoli pensieri, ma sono
indicativi del periodo vissuto. “Nel 1945 all’Albergo Italia di Udine
alloggiavano i soldati americani – ha raccontato nel 2009 il signor Petronio
Olivieri – io, nel 1945, ero garzone da Gattolin, in Piazza San Giacomo a
Udine, in un negozio laboratorio di paste fresche (ravioli e cappelletti), poi
chiuso nel 1979; ricordo che i soldati americani ci portavano i materiali per
fare i cappelletti, i tortellini e noi eravamo specializzati sui cjalçons, i
ravioli della tradizione carnica. Noi si lavorava e loro compravano contenti e
ci dicevano che non avevano mai mangiato così bene, facendo propaganda anche
presso i loro commilitoni di stanza a Udine”.
Sentiamo cosa ricorda Nino Almacolle: “Nel 1946 ero
scolaro alla scuola IV Novembre e c’erano vari bambini profughi istriani e di
Zara, poi le maestre ci portavano alla ex-GIL di via Asquini, dove stavano i
soldati americani, che ci davano le prugne secche: dolci e buone. Tutto era
buono in quel tempo, perché c’era tanta fame!”.
Gli ebrei non vogliono, «Libertà», 18 giugno 1946, p. 3.
20. Il detenuto della
Risiera di San Sabba
Come vengono trattati i prigionieri della Risiera di San
Sabba a Trieste? Cosa succede agli ebrei imprigionati nel lager triestino? Vengono
torturati dai nazisti?
A tali domande si cerca di rispondere con il contenuto del
memoriale scritto da Leonardo Longo, pubblicato nel 2005 in Sicilia. Nato a
Polizzi Generosa, vicino a Palermo il 15 novembre 1923, costui muore il 7
ottobre 2015 a Termini Imerese. Già militare del reggimento chimico di Roma, dopo l’8 settembre
1943 è assegnato al reparto di fanteria di Acqui, in Piemonte. Rifiutandosi di
servire la Repubblica di Salò, diserta a Torino, unendosi al Battaglione
Patrioti Davide, guidato dal colonnello Davide Ferrero. Catturato, come tutto il Battaglione Patrioti Davide,
costituito da un centinaio di giovani piemontesi, viene recluso al Campo di
concentramento di San Sabba dal 5 al 24 maggio 1944, in procinto di essere
trasportato ai lager di Dachau e poi in quello di Allach. Sopravvissuto ai lager nazisti, riesce a tornare a Termini
Imerese il 19 giugno 1945. Nel 2005 pubblica il suo memoriale di guerra.
Ho trovato queste ed altre preziose notizie nel volume di
Fabio Lo Bono su un altro fenomeno della guerra e del dopoguerra, che si
incrocia con la ferocia degli aguzzini del lager di San Sabba. Fabio Lo Bono ha
scritto un interessante ed originale libro sul Campo profughi d’Istria, Fiume e
Dalmazia aperto a Termini Imerese, presso la vecchia caserma “Giuseppe La Masa”
dal 1948 al 1956.
Esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia fino in Sicilia? Ebbene sì, è
accaduto anche questo. Comunque Fabio Lo Bono sapientemente ha deciso di
dedicare qualche riga della sua inedita indagine sull’accoglienza degli
italiani del confine orientale anche al Campo di concentramento di San Sabba,
essendoci passato (e sopravvissuto) un suo conterraneo, appunto Leonardo Longo.
Già si sapeva dalla letteratura a disposizione che al lager
di San Sabba vengono commesse delle sevizie irripetibili dai militi delle Wafen SS, tra i quali vi sono alcuni
ucraini. Averne conferma da un’altra fonte, come quella di Leonardo Longo
appunto, è un’ulteriore verifica degli atti criminali perpetrati contro i
prigionieri italiani, contro i partigiani jugoslavi e contro gli ebrei.
Le sevizie sono costituite da bruciature effettuate con la
sigaretta accesa o con dei fogli di carta infuocati, poi c’è lo strappo delle
unghie, per ottenere informazioni sui partigiani. L’uccisione avviene con un
colpo di mazza, forse per risparmiare al Terzo Reich la pallottola della
fucilazione, oppure per semplice ferocia e brutalità dei carcerieri. I corpi
vengono poi bruciati nel forno crematorio.
L’autore del memoriale, il partigiano Leonardo Longo, accenna
al fatto che di rado tali sevizie vengono compiute sugli ebrei, perché le
notizie sui movimenti partigiani le potevano dare solo i partigiani
incarcerati. Longo scrive che ha sentito gridare a lungo ed in modo straziante i
prigionieri sottoposti alle sevizie.
Gli ebrei sono definiti “prigionieri di transito”. Essi sono
destinati ai Campi di sterminio di Auschwitz, di Mauthausen o di Dachau. I maltrattamenti
che subiscono gli ebrei a San Sabba sono qualche calcio, certi spintoni, oppure
ceffoni e le immancabili frustate.
Essi sono rinchiusi in uno degli stanzoni al terzo piano, in
attesa di essere trasportati ai lager in Germania. «Forse i capi SS – ha scritto Leonardo Longo –
consci e consapevoli del martirio e dell’olocausto a cui questi derelitti
andavano incontro, non volevano anticiparne le pene» (dal libro di Fabio Lo
Bono, pag. 248).
21. Ebrei in Friuli nel
1945-1948, i Palestinesi
e i rientri
Dopo la liberazione di Udine, avvenuta il 1° maggio 1945, sin
dal mese di giugno 1945, si ha voce della costituzione di un Comitato ebraico
di assistenza ai correligionari. Ne dà notizia, il 4 giugno 1945, il quotidiano
«Libertà», giornale della provincia di Udine, nato da poco tempo. “Il
Comitato ebraico di assistenza ai correligionari – si legge a pag. 2 – ha
nominato a Udine un’apposita commissione per l’assistenza degli ebrei residenti
nella provincia di Udine, compresi quelli rifugiatisi nella provincia stessa
per ragioni di guerra”. Detto Comitato ha sede in Via Erasmo da Valvason, 4 e riceve quotidianamente dalle ore
9 alle 10.
Nella periferia udinese, nel Comune di Tavagnacco, a Feletto
Umberto, secondo un’altra testimonianza “c’erano degli ebrei che noi di Feletto
chiamavamo i Palestinesi”. È Giannino
Angeli che racconta e prosegue così: “Stavano nella casa dove nel 1953 andò ad
abitare la mia famiglia in Via dei Martiri 88”.
Nel 1946-1947 tale abitazione era affittata ad una famiglia
siciliana e “ai piani superiori furono alloggiati questi ebrei, detti
Palestinesi, erano in divisa militare inglese, ma non so se fossero della Brigata Ebraica, inquadrata nell’Ottava Armata britannica, che pattugliò Tarvisio nel
1945, mi ricordo di non averli mai visti in paese con le armi, non so se
fossero ebrei salvati dai campi di detenzione italiani perché, a differenza dei
soldati britannici, sempre impeccabili, loro, i Palestinesi erano, come dire,
male in arnese, un po’ emaciati”.
Cambiano zona. Dal Friuli passiamo al Golfo del Quarnaro. Nel periodo 1943-1945 la città portuale di Fiume è colpita
dai bombardamenti anglo-americani. «Me ricordo che iera scuola de
matina se no iera bombardamenti – ha detto Egle Tomissich, nata a Fiume nel
1931 – e invece se i bombardava de matina la scuola iera de pomeriggio dalle
ore 14,30, però se la sirena dell’allarme sonava fin a quella ora, no se fazeva
proprio scuola, quindi noi scolare se aspettava el bombardamento e le sirene
per no andar a scuola, cussì ierimo contente…».
Dopo
una serie di continui colpi d’artiglieria sulla città di Fiume, il 3 maggio
1945, entrano in città i partigiani titini e l’Esercito di Liberazione Popolare
Jugoslavo, dando inizio alle prime eliminazioni di italiani del posto, con lo
scopo di annettere Fiume alla Jugoslavia. Giunse nella città del Quarnaro, da
Trieste, anche un reparto della Brigata Ebraica, con lo scopo di trovare gli
ebrei fiumani nascosti o sfollati colà dalla Croazia, rifocillarli e portarli
in terra di Palestina.
Accadde proprio così alla ragazza Liliana Schmidt, nata a
Fiume il 7 ottobre 1929. Intervistata dopo la guerra, la Schmidt ricorda in
particolare un soldato della Brigata Palestinese (la definisce proprio così:
“Palestinese”, come la gente di Feletto Umberto), che la accompagna a Firenze
in cerca di parenti. Altri reparti della Brigata Ebraica erano a Firenze,
addetti alla distribuzione dell’acqua, vista la distruzione operata
sull’acquedotto dai nazisti, come riporta Luigi Raimondi Cominesi (p. 76).
A questo punto si può rilevare che certi reparti della
Brigata Ebraica agiscano in Friuli, con lo scopo di trovare gli ebrei nascosti,
quelli in transito dall’Europa Centrale e Orientale, rifocillarli e portarli in
terra di Palestina, come si nota dai documenti dell’ASUd, citati o riprodotti
in Appendice, vedi il Documento 2.
Maddalena Del Bianco Cotrozzi ha scritto che alcune ricerche
negli archivi londinesi, come l’Archivio del Governo Militare Alleato, gli headquarters e il Public Record Office, dimostrano che dal 1945 al 1947 le truppe
alleate e la Brigata ebraico-palestinese diedero “sostegno alla ricostruzione
delle Comunità ebraiche del nord-est (Udine e Gorizia, ma anche Trieste, Padova
e Venezia) dopo la fine del conflitto mondiale e della shoah, artefici
anch’essi del ritorno alla vita”. (pp.
96-97). In particolare è menzionata la tesi di laurea, discussa nell’anno
accademico 1996-1997, in Lingue e Letterature straniere di Michela Furlan, relatrice
la stessa Maddalena Del Bianco, col titolo: Truppe
alleate e brigata ebraico-palestinese. Interventi e ricostruzione delle
comunità ebraiche italiane del Nord-Est (1945-1947).
Gorizia – Truppe statunitensi del 350° Reggimento di Fanteria
della 88ª Divisione sfilano in parata nel maggio 1945. Molti di questi militari
sono di religione ebraica. Il giorno 30 aprile 1945 le truppe tedesche
abbandonarono Gorizia, che venne occupata, il 1º maggio, dal IX Korpus dell’esercito di liberazione
jugoslavo. L’occupazione titina terminò il 12 giugno, in seguito agli accordi tra
Tito e il generale Alexander, ma le deportazioni titine costarono la vita a un
numero imprecisato di civili italiani (quantificabile fra i 202 e i 665
individui), oltre ad alcune centinaia di militari italiani presenti nel
goriziano (635 vittime). Foto da Facebook, condivisa da Edi Bosich il 7
novembre 2016.
La stessa Del Bianco accenna alla presenza a Gorizia di
soldati ebrei americani, nel dopo guerra, dediti al sostegno e alla rinascita
della comunità ebraica locale. “Dopo la liberazione a Gorizia si insediò il
comando dell’88^ Divisione di fanteria degli USA ‘Blue Devils’ in cui
militavano molti soldati ebrei americani, assistiti dal cappellano militare
rabbino Nathan A. Barack che si adoperò per l’aiuto, il sostegno e la
riorganizzazione della vita dei 25 superstiti. La sinagoga venne restaurata e
riaperta al culto il 2 novembre 1945 e i soldati fecero tutto il possibile per
assistere la Comunità nella ripresa e per garantire sostegno morale a coloro
che avevano potuto salvarsi e avevano fatto ritorno per iniziare una lenta
ricostruzione della vita civile, religiosa e comunitaria” (p. 94).
Nota del questore di Udine al suo omologo di Genova su 40
ebrei da rintracciare in data 10 ottobre 1946. Tra l’altro il questore menziona
in Centro di Smistamento Profughi di Via Gorizia, anche se il numero di posti
riportato pare assai basso. Archivio di Stato di Udine (ASUd),
Questura di Udine, Categoria A 12, Stranieri, b 1, nota del 10/10/1946, ms.
Immagine riprodotta su concessione del Ministero dei beni delle attività
culturali e del turismo, Archivio di Stato di Udine. Tutti i diritti sono
riservati. L’immagine non può essere riproducibile, né scaricabile. Autorizzazione
dell’ASUd prot. N. 3014/28.13.07; e-mail del 15/11/2016.
La brigata ebraica è arrivata in Friuli con gli alleati anglo-americani,
provenendo dalla provincia di Ravenna, dove fu impegnata in eroici
combattimenti contro i nazisti. Al termine del conflitto fu trasferita in parte,
nell’estate 1945, in Belgio e Olanda, manifestando uno spirito di assistenza e
di aiuto ai correligionari. Ne avevano ben donde. Secondo i dati del Museo
Storico Ebraico di Amsterdam (Jood Historisch Museum), prima dell’occupazione
nazista nei Paesi Bassi vivevano 140 mila ebrei, dei quali ben 120 mila ad
Amsterdam. La Comunità sefardita era vivace, con 5 mila persone. Dopo la guerra
e la Shoah erano sopravvissuti circa 20 mila ebrei nei Paesi Bassi, dei quali
circa 15 mila ad Amsterdam, tra i quali
la componente portoghese israelitica era di 800 membri.
Dopo il mese di maggio 1945 nacque l’operazione “Bricha” (La
fuga), che utilizzerà gli uomini delle “huliyia” (squadre ebree di eliminazione dei
criminali nazisti) e la loro capacità di sgusciare magicamente attraverso le
frontiere degli stati europei, per trasportare, nonostante l’attenta vigilanza
degli inglesi che volevano impedirlo, migliaia di sopravvissuti alla Shoah fino
ai porti dell’Atlantico e del Mediterraneo e ad imbarcarli per Tel Aviv, verso
l’agognata “Terra Promessa”, ancora
sotto Mandato britannico.
Il 28 giugno 1945 il giornale «Libertà», in prima pagina,
pubblica la notizia della liberazione di 374 bambini ebrei di varie nazionalità
nel Campo di concentramento di Buchenwald. Portati a Basilea, restarono in
attesa di una destinazione permanente.
Nel 1946 si ha notizia che a Udine agiva una Sezione della
Comunità israelitica di Trieste. Tale organizzazione inviò alla stampa il
seguente comunicato riguardo al sequestro (o al furto) dei beni ebraici durante
il fascismo e durante l’occupazione nazista.
«Consta che talune persone detengano mobili o altri oggetti di
proprietà di israeliti che, durante la dominazione nazi-fascista, furono
costretti a fuggire o a nascondersi – si legge nel comunicato del 19
gennaio 1946, sul quotidiano «Libertà», p. 2 –. A termini del Decreto
luogotenenziale del 10 agosto 1945, n. 506 tali detentori sono obbligati a
denunciare il possesso delle realità sopraindicate. Poiché a tali disposizioni
di legge tali detentori non hanno ancora ottemperato si avverte che questa
Sezione provvederà a presentare denuncia all’Autorità giudiziaria verso quelle
persone che risultano avere acquistato nel periodo predetto ed anche dopo,
mobili ed altri oggetti provenienti da altre provincie: che risultano di
proprietà di israeliti».
Udine, impianti ferroviari visti da Via Capriva, 2016
Sulla stessa testata, il 1° febbraio 1946 si legge che il
governo britannico ha deciso di permettere l’immigrazione di 1.500 ebrei al
mese in Palestina. Ecco come si spiega il flusso di centinaia di ebrei al
valico di Coccau, Tarvisio, documentato in questa ricerca.
Nel processo contro Mario Cabai, segretario federale della
R.S.I. dal 19 settembre 1943 emergono alcuni dati controversi, come emerge dal
quotidiano di Udine «Libertà» del 28 giugno 1946. Nell’articolo
intitolato “Si è iniziato il match Cabai – Kitzmüller” il cronista riporta le
parole pronunciate in sua difesa dal fascista Cabai. Tra le altre, sostiene di
avere agevolato “i fratelli d’Allarm cui fornì falsi documenti” (p. 2 ). Forse
il Cabai si è confuso, forse è un refuso, forse il cronista ha riportato male
quel nominativo. Chi era bisognoso di documenti falsi, se non un ebreo o un
perseguitato politico? Allora potrebbe trattarsi del cognome ebraico veneziano
Sullam, presente a San Daniele del Friuli sin dal XVIII secolo, ma è solo
un’ipotesi. Di sicuro ci sono i tre anni di carcere comminati al fascista Cabai
dal tribunale di Udine, per i suoi interventi sui prigionieri nel carcere di
Via Spalato a Udine.
Di sicuro partono da
Pellestrina, un porto in provincia di Venezia, nel primo dopo guerra, tre navi cariche
di ebrei verso la Palestina. Come ha scritto Vettor Maria Corsetti su «Il
Gazzettino» del 15 marzo 2017, il carico totale dei sopravvissuti ai lager
nazisti salpati da Pellestrina, dal 1946 al 1948, è stato di 1.305 ebrei
disposti ad ogni cosa pur ai arrivare nella Terra promessa.
A 70 anni di distanza da quei
viaggi della speranza l’organizzazione Keren Hayesod Italia, in collaborazione
con la Comunità ebraica di Venezia ha inteso celebrare questa parte di storia
mai raccontata. La manifestazione del 26 marzo 2017 proprio a Pellestrina,
intende ricordare quel 5 novembre 1947, quando salpa la nave “Kadima”
(“Avanti”), con 794 ebrei a bordo, sfuggiti alle persecuzioni razziali, alle
deportazioni e ai campi di sterminio.
I sopravvissuti ebrei ai lager
entrano in Italia da Tarvisio, provincia di Udine – come si legge nell’articolo
di Vettor Maria Corsetti – a conferma di quanto scritto nella presente
indagine. In seguito c’è l’imbarco dal porto di Pellestrina. Lo stesso autore
riporta l’aiuto offerto ai fuggitivi dall’organizzazione clandestina “Bricha”.
Tali azioni di espatrio erano
gestite dalla Brigata ebraica e dall’Haganah, precisa Corsetti. Un ruolo
determinante è svolto da Ada Sereni, coordinatrice degli esodi ebraici dai
porti italiani verso Haifa. Corsetti conferma l’esistenza di un ufficio a
Milano, per instradare l’esodo dei sopravvissuti dell’Est Europa. Addirittura operava un’azienda
agricola a Magenta, in provincia di Milano, nella veste di luogo di accoglienza
e di formazione dei futuri lavoratori dei kibbutz. Per quanto concerne il
centro di accoglienza di ebrei a Milano si veda l’Appendice, documento 2, visto
all’Archivio di Stato di Udine (ASUd).
Come riferito dallo storico
Yehoshua Amishav nelle sue ricerche sulle partenze da Pellestrina, è emerso che
anche la settecentesca Villa Friedenberg, di Mestre, viene utilizzata dalla Bricha
come centro d’accoglienza degli ebrei in attesa d’imbarco. Quello stesso sito, scrive
ancora Corsetti, per ironia tragica della storia, fu utilizzato dai
nazifascisti quale luogo di detenzione provvisoria degli ebrei destinati ai
campi di sterminio di Hitler.
Il viaggio di Kadima fu
intercettato da un aereo inglese il 15 novembre 1947. Ciò obbligò la nave ad
attraccare ad Haifa, da dove i passeggeri furono portati nei campi
d’internamento di Cipro. Una sorte analoga spetta alle altre due navi salpate da
Pellestrina. La “Wingate”, partita il 14 marzo 1946, porta 238 persone, mentre
la “Lamed Hey”, salpata il 17 gennaio 1948, reca a bordo 273 ebrei. Nonostante
l’internamento e l’opposizione delle autorità del Mandato inglese sulla
Palestina, conclude Vettor Maria Corsetti, i sopravvissuti alla Shoah, partiti
da Pellestrina (Venezia), raggiungono più tardi le sponde anelate, andando a
costruire lo stato d’Israele.
Telegramma dalla Questura di Cremona, protocollato dall'omologo ufficio di Udine, il 31 maggio 1947, circa 146 ebrei intenzionati ad
imbarcarsi clandestini per la Palestina, Archivio di Stato di Udine
(ASUd), Questura di Udine, Categoria A
12, Stranieri, b 1, telegramma del 29/05/1947, dattiloscritto, timbrato e
manoscritto. Immagine riprodotta su concessione del Ministero dei beni delle
attività culturali e del turismo, Archivio di Stato di Udine. Tutti i diritti
sono riservati. L’immagine non può essere riproducibile, né scaricabile.
Autorizzazione dell’ASUd prot. N. 3014/28.13.07; e-mail del 15/11/2016.
Si segnala, infine, che nel 1948
tra i vari ebrei ritornati a Udine o usciti dalla clandestinità, in Via del
Gelso abitava a Ida Gentilli Sachs, residente nel capoluogo friulano già dal
1906, come ha scritto Valerio Marchi sul libro dedicato ai Sachs. In estate Ida
Gentilli Sachs incontrò il nipote Giorgio Algranati, laureato in Agraria, prima
che egli emigrasse per Israele, uno stato sorto appena due mesi prima, il 14
maggio (pp. 205-211). Lo stesso autore, nel
2016, riporta il fatto riguardante Oscar Luzzatto (1873-1964) che, nel 1945,
rientra a Udine dall’esilio in Svizzera, trovando l’amata abitazione e la sua
biblioteca di Via Paolo Sarpi devastata e saccheggiata, ma la voglia di
ricominciare è davvero forte (p. 172).
Come ha scritto,
nel 2000, Anna Foa, dunque, col Sionismo e, soprattutto, dopo la Shoah, l’idea
del pellegrinaggio religioso ebraico a Gerusalemme, durata per secoli, diviene
un fenomeno unico: il ritorno, il rientro, l’immigrazione.
Bozzetto pubblicitario della Cooperativa “Osoppo Friuli”,
stesso nome della Brigata partigiana attiva in Friuli e nella Venezia Giulia nel 1944-1945, dal quotidiano di Udine «Libertà», 22 aprile 1946, p 4.
22. I colori della Shoah, ricerche
scolastiche
Il brano seguente è stato composto dagli allievi di una
classe quinta dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore “Bonaldo Stringher”
di Udine, in riferimento ad una pittura eseguita da un’allieva della stesa
classe, dopo un’attività didattica ad hoc curata dalla professoressa Maria
Pacelli, insegnante di Storia.
Elena Sdrigotti, I
colori della Shoah, olio su tela, cm 50 x 40. Archivio dell’Associazione
Nazionale ex Deportati Politici (ANED), Roma
«Con questo quadro abbiamo voluto
rappresentare l’orrore delle leggi razziali, imposte nel 1938, che portarono a
morire nei lager sei milioni di ebrei. Nel 2014 abbiamo partecipato con un
quadro e il suo commento al concorso dell’Associazione Nazionale ex Deportati
nei campi di concentramento (ANED).
Ecco il commento. La
chiesa è il simbolo di una religione. Poi c’è il simbolo di un’altra religione
con la stella di David. I libri stanno a significare il divieto di
frequentazione della scuola pubblica in Italia da parte degli ebrei. In basso,
un campo di sterminio, con vestititi e tatuaggi, raffigurano il sacrificio di
vittime umane arse.
In verità possiamo
affermare che l’atroce persecuzione non fu solo per discriminare e sopprimere
innumerevoli ebrei, ma anche zingari, portatori di handicap, omosessuali,
malati di mente, considerati dai nazisti una “razza inferiore e negativa” da
dover estirpare ad ogni costo.
In alto a destra
abbiamo descritto la speranza di vita e la libertà.
Finalmente quei
terribili anni cessarono e i superstiti furono portati fuori dall’interminabile
tunnel della morte e del terrore, verso la liberazione nel giorno 27 gennaio
1945.
Abbiamo scelto i colori
come mezzo espressivo per stimolare la consapevolezza e la memoria dell’orrore
mano a mano che i testimoni vengono a mancare, per non farci dimenticare. Il
colore entra nell’anima e con questo noi vogliamo cercare di opporci a quanti
ancora, inverosimilmente, rinnegano la verità storica dell’Olocausto.
Autrice dell’opera:
allieva Sdrigotti Elena. Titolo: I colori della Shoah. Tecnica di pittura: olio
su tela, cm 50 x 40.
Colori usati: rosso,
arancione, nero, bianco e blu. Il rosso e l’arancione alludono al fuoco
distruttivo dei forni nei lager. Il nero simboleggia la morte e il lutto. Il
bianco reca messaggi di speranza e di positività.
Gruppo di studio sulla
Shoah, classe 5 ^ C Turistica, anno scolastico 2013-2014: allieve Bigaran
Jenny, Cervesato Veronica, Cervi Kelly Alexandra, Sdrigotti Elena.
Coordinamento a cura
della professoresse Maria Pacelli (Italiano e Storia). Maria Teresa Smeragliuolo
(Laboratorio di ricevimento). Networking: professor Elio Varutti (Economia e
Tecnica dell’Azienda Turistica). Ottobre 2014. Dirigente scolastico: Anna Maria
Zilli. Isis “B. Stringher”, Viale Monsignore Giuseppe Nogara, 33100 Udine,
Italia».
Un’altra indagine scolastica ha avuto dei risultati assai
originali. Ecco la vicenda di Nonno Bruno
internato in Germania, 1943-1945.
È la storia di un bisnonno di Udine venuta a galla martedì 27
gennaio 2015. È stato un Giorno della
Memoria particolare quello trascorso nella classe 1^ E enogastronomia, anno
scolastico 2014-2015, dell’Istituto “Bonaldo Stringher” di Udine. Mentre le
classi quinte dell'Istituto partecipavano ad una intensa Giornata della Memoria nell'Auditorium della scuola, con pubblico,
autorità e discendenti di deportati, in altre classi si svolgevano altri
piccoli eventi di grande significato morale.
Sotto la guida della professoressa Anna Ghersani Durini,
insegnante di Italiano e Storia, l’allievo Christian R., della classe 1^ E
enogastronomia ha mostrato i documenti, alcuni articoli di giornale e i cimeli
riguardanti l’internamento nel lager di Buchenwald del bisnonno: Bruno Riccato,
nato a Udine il 17 luglio 1923, cannoniere della Marina Militare Italiana. Così
la classe ha potuto vedere l’attestato e la Croce al Merito di Guerra, per
internamento in Germania, consegnati all’interessato il 5 luglio 1957, oltre al
distintivo che doveva portare sugli abiti durante la prigionia nei campi di
concentramento.
Nonno Bruno è stato prigioniero in Germania dal 9 settembre
1943 al 15 maggio 1945. Ha ricevuto poi la medaglia e l’attestato di Volontario
della Libertà “essendo stato deportato nei lager e avendo rifiutato la
liberazione per non servire l’invasore tedesco e la repubblica sociale durante
la resistenza”, consegnati il 19 marzo
1980 (Collezione famiglia Riccato, Udine).
11 marzo 1945, giorno della liberazione per Bruno Riccato,
con le truppe USA, che lo trattennero a lavorare fino al 4 maggio 1945, come
dal documento firmato dal cappellano del “45th Tank Battalion U. S. Army”
(Collezione famiglia Riccato, Udine).
Nonna Elvia sotto le
sgrinfie di Mengele.
Il paragrafo seguente è stato composto da Arianna Favaro, studentessa della
classe 5^A Tecnico per il turismo dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore
“B. Stringher” di Udine. Il prodotto culturale è stato sviluppato nell'anno
scolastico 2016-2017, con il coordinamento di Giancarlo Martina, insegnante di
Italiano e Storia, nonché referente del Laboratorio di Storia dello stesso
istituto, di cui Anna Maria Zilli è il dirigente scolastico.
«La mia bisnonna si chiamava Elvia Bergamasco ed era nata il
18 agosto 1927 a Manzano, in provincia di Udine. Dopo la morte del padre si
trasferì a Forlì dove visse con i suoi zii. Nel 1944 iniziò a lavorare a
Medeuzza, frazione di San Giovanni al Natisone, in un deposito di munizioni,
dove entrò a contatto con la Resistenza, collaborando inconsapevolmente con questa,
facendo la staffetta partigiana. Nell’estate del ’44, tradita da una spia,
venne arrestata nella polveriera in cui lavorava, da un Comando delle SS. Dopo
aver subito un “falso” processo venne prima incarcerata e successivamente
condannata ai lavori forzati nei lager nazisti di Mauthausen e Auschwitz.
Marchiata con il numero 88653, umiliata, seviziata e costretta a terribili
privazioni, dopo 18 mesi venne trasferita a Buchenwald ad assemblare la bomba
“V 2”. Liberata dai russi nel maggio del ’45, sfinita dalle fatiche e dalle
malattie, venne salvata a Praga da una crocerossina cecoslovacca. Nel 2004 ha
ricevuto l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.
Purtroppo la mia bisnonna si è spenta all’età di 88 anni, nel giorno del suo compleanno,
il 18 agosto 2015.
Dei tanti tremendi episodi che la mia bisnonna ha subito, due
mi sono rimasti particolarmente impressi. Il primo episodio è l’esperimento che
il “dottor” Mengele, detto l’angelo di Birkenau, fece su di lei. Un giorno,
durante una selezione, Mengele la scelse per fare un esperimento, il quale
prevedeva di provare una “pomata” sul corpo. Questa crema, veniva cambiata ogni
giorno con un colore differente per un totale di quattordici giorni, provocando
un bruciore lancinante. La pelle tornò come prima solo grazie alle cure della
crocerossina che salvò la mia bisnonna dopo la liberazione. Il secondo episodio
che mi ha colpito accaduto sempre ad Auschwitz è stato quando insieme ad altre
donne è dovuta rimanere in piedi, nuda al freddo del rigidissimo inverno
polacco per 12 ore consecutive dalle 6 del mattino fino alle 6 di sera, come
selezione per proseguire a Buchenwald. Secondo un medico di Udine, il dottor
Pulin, la mia bisnonna riuscì a sopravvivere solamente perché il suo corpo, si
era già “adattato” alle rigide temperature e alla vita del campo di
concentramento».
23. Memoriale da Buchenwald
di Erasmo Rosso, di Martignacco
Quello che segue è un inedito autentico. È emerso durante
alcune ricerche scolastiche all’Istituto “B. Stringher” di Udine, a cura del
Laboratorio di Storia, nell’anno scolastico 2011-2012. Si tratta di un quaderno
di dieci pagine scritte a mano sulla deportazione al Campo di concentramento di
Buchenwald. L’autore è Erasmo Rosso, nato a Martignacco, provincia di Udine, il
24 gennaio 1918 e deceduto nel 2009. Era detto “Min Paragjin”, per via dell’emigrazione
in Francia.
Il memoriale, scritto tra il 1980 e il 1990, appartiene alla
Collezione della famiglia Mauro Rosso di Martignacco. Si intitola “Risposta ai
fatti a me succeduti in campo di concentramento”, Martignacco (UD), 1980-1990,
cc. 10, ms. Come si deduce dal titolo, più che un diario, pur segnato in un
secondo momento rispetto ai fatti bellici, pare una serie di risposte numerate
ad una sorta di questionario scritto dai familiari per documentare l’accaduto.
La detenzione di Erasmo Rosso dura dal 20 settembre 1943,
quando è catturato dai tedeschi a Lika, “zona di morte”, in Jugoslavia, fino al
6 giugno 1945, data del rocambolesco rientro a casa. Fugge, infatti, da
Buchenwald, a guerra finita, con altri sette italiani in bicicletta, ma a
Bolzano arrivano solo in due: lui e il commilitone Antonio, detto Totò, di
Bisaccia, provincia di Avellino (cc. 1 e 8).
Erasmo Rosso è detenuto in vari campi di concentramento, come
“Hammerstein, verso il Mar Baltico” (Hammerstein – Schlochau, in Polonia). Ricorda
il “nono” campo di prigionia col nome di Zella Mehlis, dove fu obbligato al
lavoro per le armi “V1” e “V2” (c. 2). Poi “ridotto con botte agli estremi” fu
destinato a Buchenwald dove c’erano anche gli ebrei. Nel campo ricorda che ci
fossero 700-800 prigionieri, che diventavano fino a qualche migliaio. Ricorda poi
“fame, freddo e tante botte”. Fu picchiato col calcio del fucile “da giovani
delle SS”.
Poi aggiunge: “Dormivo a periodi in terra nella paglia, ma
anche in letto a sei posti però sulle tavole” (c. 3). Appena giunto a casa, in
Friuli, pesava 36 chilogrammi. Non fu riconosciuto dalla fidanzata, ma dalla
madre che chiamò in cortile i partenti e i vicini (c. 5).
Una pagina del Memoriale di Erasmo Rosso. Collezione famiglia Mauro Rosso, Martignacco, provincia di Udine,
Erasmo Rosso, “Min Paragjin”, Risposta ai
fatti a me succeduti in campo di concentramento, Martignacco (UD),
1980-1990, cc. 10, ms.
Nella pagina che si riproduce qui accanto è menzionato il
forno crematorio. Il testo contiene alcuni errori, com’è comprensibile. Min
Paragjin vede “resti umani distrutti” (c. 9). Si deduce che le uccisioni
avvengono con la scusa della pulizia e di sottoporre alle docce i prigionieri
contro il tifo petecchiale. In altra pagina scrive che c’era il “gas” (c. 5)
per eliminare le persone. In modo molto agitato precisa che: “Si moriva di
malattie e di fame ma non in campo di concentramento, ma ti mandavano al
macero, cioè forni a gas” (c. 5). Ha capito che le uccisioni di massa
avvenivano in luoghi separati dalle baracche di detenzione. Erano le camere a
gas, camuffate da docce per igiene.
24. Appendice – Documento 1
Sul finire del conflitto, dalla
metà di aprile 1945, iniziarono a transitare dal valico confinario di Tarvisio, a piedi e con vari mezzi di
fortuna, decine e decine di militari italiani sbandati, ex prigionieri e
lavoratori forzati (gli “schiavi di Hitler”), che per le prime necessità
andarono ad ingrossare le fila degli sfollati e profughi già presenti in Friuli
e a Udine. Alla fine di aprile ne passarono oltre 2.000. A maggio 14 mila e
negli altri mesi addirittura 484 mila, per un totale di oltre 500 mila tra
profughi e reduci rimpatriati, secondo le Lettere
di don Freschi all’arcivescovo Nogara e in base alla Relazione sull’attività del Campo n. 4 AMG-DP Centre Udine, del 1°
febbraio 1946. Tali materiali sono reperibili nell’Archivio Osoppo della
Resistenza in Friuli (AORF), Cartella T 1, f 7. Cc 11-12. Qualcuno è in fuga dai Campi
di concentramento nazisti, come Luigi Spezzotti.
Si riproduce qui di seguito il
testo di un documento che dimostra come l’aiuto ai rimpatriati fosse opera
spontanea della gente del posto, organizzata tramite le parrocchie. L’originale
sta nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine (ACAU), Carteggi Mons. Nogara, 1940-1945,
dattiloscritto.
Gli apparati dello stato
promettono o “stanno predisponendo il rapido passaggio dei connazionali”, come
si legge in un altro documento del 17 aprile 1945, ma chi paga la fattura delle
pantofole e di altro materiale è l’arcivescovo di Udine Mons. Giuseppe Nogara. Anche
questi documenti di quietanza sono negli stessi cartolari dell’ACAU.
«22.4.45
Posto di assistenza per
rimpatriati Moggio
1^ Relazione dall’8 al
21 aprile 1945
1. Numero dei rimpatriati ospitati: 437
2. Mezzi di trasporto
A – fino a Pontebba: il 90% con il treno –
parte solo fino a Tarvisio. Il 10% a piedi e a tratti con mezzi vari.
B – da Pontebba a Moggio il 50% con mezzi di
fortuna, auto. Il 50% a piedi.
C – da Moggio in giù il 40% con mezzi di
fortuna automezzi. Il 60% a piedi fino alla stazione Carnia.
3. Approvvigionamenti: alla alimentazione dei
ripatriati è stato provveduto esclusivamente con i generi alimentari offerti
spontaneamente dalla popolazione locale.
4. Sosta media di ciascun ospite: 12 ore.
5. Numero medio pasti per ciascun rimpatriato:
due.
6. Rimpatriati che hanno avuto bisogno
dell’assistenza sanitaria: uno per cento.
7. Capi di vestiario (di cui è risentita la
maggiore necessità e dei quali si è completamente sprovvisti): pantofole.
Per
conto del Comitato
f.to
ing. Bianchi
N.B. ho provveduto
immediatamente a ordinare 1000 paia di pantofole alla ditta Toniutti di
Fagagna. Esse saranno pronte entro 20 giorni. L.G.».
Udine, Via Pradamano verso nord, area dello scalo ferroviario dove passarono i treni carichi di ebrei
Appendice – Documento 2
Si riproduce qui sotto un’importante lettera – relazione del
prefetto di Udine, Renato Vittadini, del giorno 11 ottobre 1946. La massima
autorità della provincia è assai allarmata. Comunica ai suoi superiori del
Ministero dell’Interno i ripetuti spostamenti di svariate decine di ebrei
rumeni, polacchi, cechi e ungheresi dall’Austria in transito per Milano, con
l’intenzione di raggiungere la Palestina. Tali cifre potrebbero divenire
migliaia. Curiosa è la precisazione del movimento anche in uscita dall’Italia e
in entrata verso l’Austria. Parrebbe chiaro, con l’ottica attuale, che si
tratta di esponenti dell’organizzazione dedita al trasferimento di ebrei nella
Terra Promessa. Forse si tratta proprio di alcuni individui della Brigata
Palestinese, dato che è citato un autocarro per portare le persone, ma questa è
un’illazione personale.
Il Questore di Udine, il 15 ottobre 1946, riceve una lettera
del suo omologo di Milano, datata 10 ottobre 1946, n. di protocollo 00311053
Str., con oggetto “Ebrei rumeni, polacchi e cechi”. Ci sono tuttavia pure ebrei
austriaci o germanici, superstiti dallo sterminio. La Questura di Milano
precisa che “in questa Via Unione 5 esiste la Comunità Israelita di Milano, il
cui presidente è il comm. Mayer, cittadino italiano”. Detta Comunità si sta
interessando “anche di tutti gli ebrei stranieri che affluiscono in questa
città in attesa di una sistemazione e dell’emigrazione in altri Paesi. Per la
maggior parte trattasi di profughi, di ex internati per motivi razziali e
politici provenienti dai vari Campi di concentramento della Germania, e giunti
in Italia con i famosi convogli alla fine delle ostilità. Molti altri giunti in
seguito per allontanarsi dai territori occupati dai russi, moltissimi di questi
entrati in Italia evidentemente in maniera clandestina”.
La interessante lettera continua così, dando spiegazioni
molto chiare: “All’uopo la Comunità [Israelita] ha istituito i seguenti
servizi, i cui fondi vengono erogati dall’A.J.D.C. (American Joint Distribution
Committee): a) Organizzazione dei profughi; b) Ufficio palestinese; c) Mensa
dei profughi; d) Ambulatorio medico dell’A.J.D.C.”. Poi i profughi ebrei, così
assistiti, vengono inviati al Campo di raccolta di Milano, sito presso la
Scuola Cadorna, in Via Dolci 5. Giunti nei Campi di raccolta, come in quello di
Cremona, sono ulteriormente assistiti dall’U.N.R.R.A. e dall’A.J.D.C.
La sigla
U.N.R.R.A significa: “United Nations Relief and Rehabilitation Administration”.
Era un’organizzazione
delle Nazioni Unite, con sede a Washington, istituita il 9 novembre del 1943
per assistere economicamente e civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati
dalla seconda guerra mondiale. Fu sciolta il 3 dicembre 1947.
L’emigrazione ebraica è diretta in Palestina, ma pure nelle
Americhe del Nord e del Sud, secondo l’informativa della Questura di Milano. I
porti di imbarco non sono solo quelli italiani, Genova in primis, ma anche
della Francia.
I fogli citati e, quelli qui di seguito trascritti, stanno in
Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura di Udine, Categoria A 12, Stranieri,
b 1. [documento dattiloscritto 1946].
«Prefettura di Udine
[protocollo] N.
021575/Gab. P.S.
Addì 11 ottobre 1946
Oggetto: Ebrei – rumeni
– polacchi – cechi
Al Ministero
dell’Interno – Direzione Generale della Pubblica Sicurezza – Divisione Aff.
Gen. E Riservati – Roma
Per doverosa notizia
trascrivo il seguente rapporto pervenuto dall’Ufficio di P.S. della Frontiera
di Tarvisio:
“”” Nelle ultime
quattro settimane questo ufficio si è occupato di sessantacinque ebrei, nella
quasi totalità rumeni, intercettati in questa zona di frontiera sul lato Italia
e sul lato Austria.
Questa notte agenti del
mio ufficio e la guardia di Finanza, già da me verbalmente interessata, hanno
intercettato ventisette ebrei rumeni provenienti clandestinamente dall’Austria
per la via di Prati Colma e di Coccau.
Altri fermi sono stati
operati ieri sul lato Austria dalla Field Security Section Intelligence Service
di Arnoldstein.
È ormai accertata
l’esistenza di un’organizzazione ebraica internazionale che riversa l’Austria
[in Austria, n.d.r.] ebrei rumeni, polacchi, cechi e ungheresi, i quali tentano
ad ogni costo di calare sui porti italiani (donde dirigersi in Palestina) prima
che la sopravvenuta stagione autunnale ostacoli, con le nevicate, i transiti
per sentieri e mulattiere.
Questa organizzazione
pare sia in collegamento con un Comitato sedente in Milano, Via Unione n. 5;
gli ebrei rumeni fermati in transito, sui treni, da Agenti del mio ufficio,
mentre viaggiavano in direzione Austria, e quelli fermati in Austria dalla
F.S.S., mentre viaggiavano in direzione Italia, hanno sempre dichiarato di
provenire o di dirigersi a Milano, Via Unione n. 5. ./…
[foglio 2]
Secondo notizie
confidenziali non potute controllare i diciannove rumeni fermati questa notte
da agenti del mio ufficio erano attesi nella zona da un autocarro che li
avrebbe trasportati verso Milano.
È pressoché certo che
nelle due prossime settimane, se non sarà fatto ogni possibile sforzo,
passeranno per questa frontiera, ormai seriamente sfornita di posti fissi,
distaccamenti e nuclei mobili di perlustrazione e vigilanza, circa un migliaio
di ebrei rumeni, cechi e polacchi “””.
Assicuro di aver
impartito le opportune disposizioni ai dipendenti organi di Polizia per una
oculata vigilanza allo scopo di arginare tale infiltrazione clandestina di
ebrei.
Il Prefetto [Renato]
Vittadini»
----
Udine, Via Capriva incrocio con Via Romans, 2016.
25. Ringraziamenti e fonti
orali
Rivolgo i miei sinceri ringraziamenti al personale e alla
direzione delle seguenti biblioteche, archivi, musei ed istituti, dove ho
potuto effettuare le mie ricerche: Archivio della Curia Arcivescovile di Udine;
Archivio Municipale di Udine; Archivio di Stato di Udine; Archivio Osoppo della
Resistenza in Friuli, Udine; Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine; Biblioteca
del Seminario arcivescovile “Mons. Pietro Bertolla”, Udine; Biblioteca della
Società Filologica Friulana, Udine; Istituto Friulano per la Storia del
Movimento di Liberazione, Udine; Biblioteca Civica “Ariostea”, Ferrara; Biblioteca Civica “P.P. Pasolini”, Pasian di Prato,
provincia di Udine.
Desidero ringraziare sentitamente anche i prestatori di
documenti, fotografie, reperti e cimeli storici per lo sviluppo delle ricerche
e l’Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell'Età
Contemporanea di Pordenone. Ringrazio gli autori delle fotografie qui riprodotte.
Per i consigli bibliografici sono grato alla professoressa Maddalena Del Bianco, docente all’Ateneo di Udine.
Un amichevole grazie va anche a Tiziana Menotti e a Giorgio
Ganis, di Udine, attenti lettori delle prime bozze dello studio presente.
Per la collaborazione prestata un particolare ringraziamento va a Lauretta
Zamparo, figlia di Alfonso Zamparo “Liviano”, deportato e sopravvissuto a
Dachau. Per chiarimenti vari sono grato anche a Angelo Varutti di Olivo,
Agnulut di Chei da Mucule, San Vito di Fagagna, provincia di Udine, a Vittorina Olivieri di Udine e al
ragionier Mario Savino di Udine.
Sono
riconoscente a Sebastiano Pio Zucchiatti per il disegno di copertina del
presente saggio. Per l’attiva collaborazione alla ricerca ringrazio
l’architetto Franco Pischiutti di Udine e Nathalie Vedovotto.
Le testimonianze scolastiche qui raccolte sono frutto delle
attività didattiche e formative del Laboratorio
di Storia, presso l’Istituto Statale d’Istruzione Superiore "B.
Stringher", di Udine; sono quindi riconoscente ai professori di codesta
scuola pubblica, con in testa il Dirigente scolastico, dottoressa Anna Maria
Zilli, al professor Giancarlo Martina, referente del Laboratorio di Storia
stesso, alle professoresse Maria Pacelli, Elisabetta Marioni e Anna Ghersani
Durini.
Si ringraziano e si ricordano, infine, le seguenti persone, intervistate
a Udine, con taccuino, penna e macchina fotografica, a cura di Elio Varutti, se
non altrimenti specificato:
- Nino Almacolle, Udine 1940, intervista del 12 gennaio
2012.
- Giannino Angeli, Tavagnacco, provincia di Udine, 1935,
intervista telefonica del 14 ottobre 2016.
- Caterina Eleonora Bernardinis, Rina (Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova 1908 – Udine
2010), int. del 24 ottobre 1995.
- Bruno Ernesto Vincenzo Bonetti, Gorizia 1968, intervista del
18 dicembre 2016.
- Danila Braidotti, Nila, Fontanabona di Pagnacco
1928, ha vissuto a Udine, nella parrocchia di San Pio X, int. del 13 novembre
2016.
- Miranda Brussich vedova Conighi (Pola 1919 - Ferrara 2013), ha
vissuto a Fiume fino al 1946, int. del 21 agosto 2013 a Ferrara.
- Carmen Burelli, Udine 1936, int. del 20 aprile 2017.
- Sergio Burelli (Fagagna 1926 - Udine 2017), ha vissuto in altre
località del Friuli e, per lavoro, a Udine, int. del 12 ottobre 2016.
- Claudio Calligaris, Udine 1954, int. del 19 gennaio 2017.
- N. C., (Udine 1926 - 2015), visse a Fiume e a Udine, int. del
24 febbraio 1996 e del 15 novembre 2005.
- Ezio Cragnolini, Gemona del Friuli, provincia di Udine, 1955, int. del 28 novembre 2007.
- Anna Chiavon, Udine (1937-2003), int. del 5 gennaio 2003 a cura della professoressa Elisabetta Marioni.
- Alberto De Grandi, di origine trentina (1919-2003), int. del
2 agosto 1978 a Zara (Jugoslavia), nome di fantasia, poiché non ho potuto chiedere
il consenso al trattamento dei dati.
- Paola De
Wrachien, Udine 1940, int. del 9 maggio 2017.
- Chiara Dorini, Fiume 1945, int. del 18 dicembre 2016.
- Eva Ebner, Gorizia 1940, int. del 17 novembre 2016.
- Fabio Galimberti, Udine 1961, messaggio in Facebook del 24
gennaio 2017.
- Giorgio Ganis, Udine 1956, int. del 13 settembre 2016.
- Signora G., int. del 17 ottobre 2016.
- Luciano Gon, Udine 1953, nato e vissuto in
Baldasseria, in Via Pradamano, int. del 13 novembre 2016.
- Rosanna Lodolo 1941, int.
del 26 gennaio 2017.
- Teresa Novelli, Udine 1922, int. del 5 ottobre 2016, in
presenza della figlia Giulia Marioni.
- Petronio Olivieri, Ovaro, provincia di Udine 1929,
emigrato a Vancouver (Canada) nel 1957, int. per e-mail del 4 ottobre 2009.
- Alfredo Orzan (Mossa, in provincia di Gorizia, 1930 - Udine 2017), ha vissuto a San Lorenzo Isontino, studiò a Gorizia e si trasferì a Udine per lavoro, int. del 7 ottobre 2016.
- Alessandro Pirani, Tolmezzo, provincia di Udine, 1957 e vive a Udine, int. del 21 dicembre 2011.
- Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. dei giorni 8
e 13 dicembre 2016.
- Domenico Pittino, Tarcento, provincia di Udine, 1958,
informazioni a cura dell’architetto Franco Pischiutti del 13 dicembre 2016.
- Giorgio Romanello, Udine 1952, int. del 10 novembre 2016.
- Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.
- Giorgio Stella, Udine 1947, int. del 5 ottobre 2016.
- Aldo Tardivelli, Fiume, 20
settembre 1925, esule a Genova, int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-27
gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio, delegato
provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di
Arezzo.
- Egle Tomissich, Fiume 1931, int. del 18 dicembre 2016.
- Bianca Torre Bianchetta
(1929 - 2005), Turriaco, provincia di Gorizia, visualizzazione URL in
Internet del 21 settembre 2016.
- Paola Troiano, Udine, int. del 20 aprile 2017.
- Angelo Varutti di Giovanni Maria, Barbe Agnul di Zuan, San Vito di Fagagna, provincia di Udine (1915-2003),
int. del 10 settembre 1979 a San Vito di Fagagna.
- Lauretta Zamparo, Udine 1946, int. del 27 gennaio 2015.
26. Fonti archivistiche e
museali
- Archivio dell’Associazione Nazionale ex Deportati Politici (ANED), Roma, Quadro ad olio di Elena Sdrigotti di Udine,
intitolato I colori della Shoah,
concorso del 2014.
- Archivio della Curia Arcivescovile di Udine, Carteggi Monsignor Nogara, 1940-1945
- Archivio Municipale di Udine, Deliberazione del Commissario 26 settembre 1925. Deliberazione del
Podestà del 31 maggio 1940.
- Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli (AORF), Udine, Cartella T 1, f 7. Cc 11-12
[dattiloscritti 1946]. Cartella Z –
Fototeca, foto n. 71.
- Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura
di Udine, Categoria A 12, Stranieri, b 1. [documenti manoscritti e
dattiloscritti 1946 - 1947]
- Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura
di Udine, Categoria E 2, Vigilanza e controllo persone in transito, b 1.
[documenti manoscritti e dattiloscritti 1939].
27. Collezioni private
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- Collezione famiglia Riccato, Udine, documento dattiloscritto
e il libro: Marcello
Tomadini, Venti mesi fra i reticolati,
LX tavole con prefazioni di don Pasa e Guglielmo Cappelletti, Vicenza, Editrice
Società Anonima Tipografica, 1946.
- Collezione famiglia Mauro Rosso, Martignacco, provincia di Udine,
Erasmo Rosso, “Min Paragjin”, Risposta ai
fatti a me succeduti in campo di concentramento, Martignacco (UD),
1980-1990, cc. 10, ms.
- Collezione famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere,
ritagli di giornali, 2002-2014.
- Collezione famiglia Zamparo, Scorzè, provincia di Venezia,
biglietto manoscritto 1945, diari 1942-1945.
- Collezione personale dell’Autore, fotografia 1942.
28. Mappe topografiche
- Alpi Giulie
Occidentali. Tarvisiano, foglio 019, Carta topografica per escursionisti, Udine, Tabacco, 1989.
- Comune
di Udine, Istituto Geografico Militare (prima edizione 1882), particolare,
1928.
- Pianta della città di
Udine eseguita dalla Sezione Tecnica Municipale, Stabilimento Tipo – Litografico
Gustavo Percotto & Figlio, Udine, particolare, 1928.
- Udine, Pianta della città, Corpo dei Vigili Urbani, Azienda Municipale
dei Trasporti, 1980.
29. Filmografia
https://www.youtube.com/watch?v=vJhi3f4BbCY
30. Bibliografia di
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Carinzia Slovenia Friuli Venezia Giulia, Udine, Istituto Friulano per la
Storia del Movimento di Liberazione, 1991).
31. Sitologia di riferimento
- Sulla storia del partigiano
Luigi Barbarino, Matiònow,
di Resia si possono leggere due brani:
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Testo e networking di Elio
Varutti. Le fotografie, ove non altrimenti indicato, sono di Elio Varutti.
Udine, incrocio Via Monfalcone con Via Capriva, vicino allo scalo ferroviario da dove passarono i treni carichi di ebrei.