giovedì 29 giugno 2017

Riapre Plodarkelder, festa a Sappada

Il 30 giugno 2017 riapre la antica latteria di Sappada. È la Plodarkelder, che in tedesco sappadino vuol dire la “Cantina di Sappada”. 
Festa di inaugurazione del 29.6.2017. Fotografia di D&C

Ritorneranno così nei nostri piatti la sana produzione di stracchino, di caciotte erborinate e aromatizzate. Cibi gustosi di raro sapore. Poi ci sono la ricotta, il burro e i formaggi stagionati a latte crudo. Non da trascurare il celebre yogurt, noto per la sua delicatezza e per il suo forte gusto di latte.
Il negozio – laboratorio ha subito lavori di restauro ed ampliamento, con una saletta interna per le degustazioni del pubblico. Tutti gli interni sono in legno, con uno stile sappadino assai caratteristico, che trasmette molto calore familiare.
I salumi sono salati e speziati, seguendo le antiche ricette. Sono affumicati per la conservazione con legno di faggio e rami di ginepro, in una stanza detta “Selke” o la stanza per l’affumicatura.
La pancetta stesa e arrotolata, poi c’è la lonza, il carré. Che dire poi del salame, del cotechino (il muset furlan), la lingua, il lardo e il senkl. È un particolare speck il senkl, affumicato e stagionato per circa quattro mesi, viene poi aromatizzato con cumino e bacche di ginepro. È una specialità della casa. Da bere la birra artigianale a calice di produzione trevigiana: bionda o a doppio malto.
Come lavorano alla Plodarkelder? Ci mettono tradizione, rispetto per la natura e una grande passione. Le materie prime sono di elevata qualità. La pura e salubre aria di montagna e le vecchie cantine per la stagionatura consentono di produrre latticini e affettati con un profumo ed un sapore inimitabile. Se lo provate, lo vorrete ancora.
Mucche di Sappada. Fotografia di E. Varutti
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Redactional e networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti, in collaborazione con E. Varutti.
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Interno del negozio. Fotografia dal profilo di Solder Chalet Dolomiti in Facebook


Un altro scatto nel giorno dell'inaugurazione. Fotografia di Elio Varutti

Uno scorcio dell'interno rinnovato di Plodarkelder. Fotografia di Elio Varutti

mercoledì 28 giugno 2017

Apertura al Centro Profughi Giuliano Dalmati di Padriciano, museo a Trieste

L’Unione degli Istriani ha comunicato che il Museo di Padriciano sarà aperto sabato 1 luglio 2017, dalle ore 10 alle 13. È conosciuto anche come ex Campo profughi istriani e dalmati. Padriciano è una frazione del Comune di Trieste.

Si ricorda che si tratta di un Museo di Carattere Nazionale. È noto col nome di C.R.P. di Padriciano (Centro Raccolta Profughi). È l’unico allestimento espositivo in Italia di questo genere. È situato in un’area esclusiva che conserva inalterata la sua struttura originaria. Aperto nei primi anni Cinquanta, è stato dismesso verso il 1975.
Il Museo di Carattere Nazionale C.R.P. di Padriciano è, quindi, una meta obbligata per chi volesse conoscere o approfondire il dramma dell’esodo giuliano dalmata. In queste sale espositive il visitatore può farsi un’idea precisa e circostanziata della difficile accoglienza riservata agli esuli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia in fuga dalle persecuzioni della Jugoslavia di Tito.
All’ingresso dell’area museale si può notare una tabella multilingue: inglese, tedesco e sloveno. Il museo è una zona ad alto interesse culturale e turistico. Anche il sito web di questo museo è multilingue.

Scolaresca in visita al Museo del Campo Profughi di Padriciano nel 2011. «Il museo di Padriciano, tra i simboli dell’esodo giuliano-dalmata, è un luogo unico, in quanto tocca le corde dell’animo, infonde un impatto emotivo che altri monumenti non possono rappresentare». Dal sito web: Associazione Culturale “Cristian Pertan”, che si ringrazia per la diffusione e pubblicazione dell’immagine

Come nacque il museo
Nel 2004 in questi ambienti del Campo profughi fu allestita una mostra permanente dall’Unione degli Istriani sui fatti dell’esodo giuliano dalmata. Fu un esperimento riuscito. Il Museo di Carattere Nazionale C.R.P. di Padriciano è oggi una delle strutture più visitate nella provincia di Trieste. Costituisce una tappa fondamentale nell’ambito dei "viaggi della Memoria", che fanno del capoluogo giuliano un sito unico in Italia. Hanno già fatto visita qui numerose scolaresche, coi loro professori, gruppi di alpini dell’ANA ed altri gruppi legati all’associazionismo giuliano dalmata, come l'Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD).
Il comprensorio venne progettato quale installazione periferica per le forze armate angloamericane di stanza nel Territorio Libero di Trieste (1945-1954). Ben presto dismesso, venne prontamente riutilizzato per far fronte all’emergenza profughi, sempre più pressante a partire dagli anni ’50, con dei picchi nel 1954-55 (Esodo dalla Zona B, passata alla Jugoslavia). Fu una delle infrastrutture militari alleate che, come previsto dai protocolli connessi al passaggio della Zona A del Territorio Libero di Trieste all’Italia, venne destinata al ricovero ed all’assistenza dei profughi istriani che transitavano sul territorio per venire smistati nei 140 Centri Raccolta Profughi della penisola. Oltre cento mila di loro passarono per il Centro di Smistamento Profughi di Udine, che operò dal 1947 al 1960, nella parte meridionale del capoluogo friulano.

Una sala del Museo di Padriciano, ex Campo Profughi istriano dalmati

L’intera superficie del Centro di Padriciano, dismesso come già accennato nei primi anni ’70, è tuttora delimitata dalla recinzione originaria. Il campo profughi, pur essendo state demolite le baracche in legno modello "Pasotti", conserva inalterata la sua struttura originaria. Si tratta di uno dei pochissimi campi profughi del territorio nazionale che non abbiano subito modifiche o stravolgimenti dopo la cessazione del loro utilizzo.
Il campo era dotato di un ingresso principale situato nella zona centrale del complesso. L’entrata al campo era dotata di un varco a doppia cancellata, ove era situato anche il posto di controllo della Polizia Civile, annesso alle palazzine in muratura dell’amministrazione.

Bella cartolina degli anni '50 sul Campo Profughi di Padriciano. Si ringrazia per la pubblicazione e diffusione il sito web: a Trieste.eu


C’erano ben diciotto Centri Raccolta Profughi a Trieste nel dopo guerra. Ciò secondo i dati della Prefettura del 20 ottobre 1958, come riportato nel volume a cura di Piero Delbello, a pag. 116, col titolo: C.R.P. Centro Raccolta Profughi. Per una storia dei campi profughi istriani, fiumani e dalmati in Italia (1945/1970), edito dal Gruppo Giovani dell’Unione degli Istriani e Istituto Istriano-fiumano-dalmata, Trieste, 2004.

Come arrivarci
Il Museo C.R.P. di Padriciano è situato sulla strada provinciale che da Opicina porta a Basovizza. Per chi voglia recarvisi in automobile provenendo dalla città, conviene innanzitutto raggiungere il ciglione carsico lungo l’itinerario via Fabio Severo, strada per Opicina, via Nazionale, superare il quadrivio che conduce da un lato all’autostrada per Venezia e dall’altro al porto, continuare diritti e, giunti nel centro della frazione di Opicina, svoltare a destra in direzione Basovizza.
Provenendo invece dall’autostrada, dopo la barriera del Lisert si prosegue lungo il raccordo autostradale in direzione Trieste - Porto e Zona industriale, si evita il bivio per il valico di Fernetti che condurrebbe a Lubiana, si prosegue fino all’uscita di Padriciano. Arrivati sulla strada provinciale si prosegue a destra in direzione Basovizza e dopo circa 900 metri, passato l’abitato di Padriciano, si trova sulla sinistra l’entrata dell’ex campo profughi.
Con i mezzi pubblici il sito è comodamente raggiungibile con il bus n. 39, il cui capolinea si trova in piazza della Libertà (Stazione Centrale).
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Informazioni
www.padriciano.org è il sito dove potete prenotare una visita per il museo Centro Raccolta Profughi. Ci sono tutte le informazioni e potete anche lasciare un vostro ricordo. 
In alternativa vi potete rivolgere telefonicamente dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 12 e dalle 16.30 alle 18.30 o il sabato dalle 10 alle 12 al numero 040.636.098. Vale la pena visitarlo.
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Riferimenti bibliografici nel web
Per comporre questo articolo e per le immagini ci si è avvalsi del sito web del museo di Padriciano, che si ringrazia per la presente diffusione e pubblicazione in Internet, ove non altrimenti indicato. Lo stesso museo ha pure un profilo in Facebook con originali commenti, filmati e immagini.

Ex campo profughi di Padriciano, uno dei simboli dell’esodo”, «Il Piccolo», 5 gennaio 2015.

Il campo profughi di Padriciano, filmato su youtube, 2009.


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Redactional e networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti, in collaborazione con E. Varutti.

domenica 25 giugno 2017

L’arpista Chiara Rossi morta a Udine. Aveva suonato al Giorno del Ricordo

La professoressa Chiara Rossi è deceduta all’ospedale di Udine il 19 giugno 2017 a soli 27 anni. L’apprezzata arpista è stata colpita da un male poco tempo fa. La sua prematura scomparsa ha lasciato un profondo dolore in città e all’Istituto “Bearzi”, dove insegnava italiano e storia.

Udine - Chiara Rossi nel suo concerto con l'arpa al Giorno del Ricordo di Udine, 2017. Foto di E. Varutti

Il lutto della giovane arpista ha spezzato il cuore ai genitori, alla sorella Francesca, che è una violinista, al fratello Michele, al fidanzato Luca e a moti amici. Chiara era una giovane ricca di valori, dato che ha effettuato il servizio civile. Coltivava vari interessi culturali e faceva l’animatrice per i giovani. Appassionata di lettura, organizzava laboratori teatrali per ragazzi. Prima di ottenere la sua prima cattedra all’Istituto “Bearzi”, si era laureata in lettere all’Università di Udine, dopo il liceo classico “J. Stellini”. Ha svolto gli studi di arpa al conservatorio “J. Tomadini” di Udine. Faceva parte dell’associazione “Ventaglio d’arpe” e insegnava alla scuola di musica “Musicamia” di Udine, Remanzacco e Cividale. Era molto impegnata anche nelle attività della parrocchia di San Marco, che l’ha accompagnata per il suo ultimo mesto viaggio.

Chiara Rossi suona al matrimonio degli amici Laura e Marco, 12 settembre 2015 - Portogruaro. Fotografia dal profilo di Facebook

Sempre nella parrocchia di San Marco a Udine, lo scorso 11 febbraio 2017, Chiara Rossi si era esibita con l’arpa su invito dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, nell’ambito delle manifestazioni per il Giorno del Ricordo. L’auditorium ove si è svolta quella cerimonia religioso patriotica, in piazzale Chiavris, con le massime autorità cittadine, reca un nome come quello di Monsignore Leandro Comelli, molto legato alle vicende dell’esodo giuliano dalmata.
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Ecco il messaggio di cordoglio alla famiglia dell’arpista Chiara Rossi da parte di Bruna Zuccolin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine:
«Abbiamo avuto il piacere e l’onore di invitare Chiara Rossi a suonare la sua amata arpa in occasione delle celebrazioni ufficiali del Giorno del Ricordo a Udine. Con la magia del suono è riuscita a creare un’atmosfera speciale per un giorno speciale, riscuotendo notevole successo. A nome mio personale e di tutta l’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, invio la nostra sentita partecipazione per una perdita troppo grande.
Un abbraccio sincero.
Bruna Zuccolin

Chiara Rossi in concerto il 24 giugno 2016, presso la Sorgente del Gorgazzo, Polcenigo (PN). Fotografia dal profilo di Facebook
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Riferimenti nel web
- Cristian Rigo, “Ciao Chiara, la prof con l’arpa nel cuore”, «Messaggero Veneto», 20 giugno 2017.

- Paola Treppo, “Si ammala e muore in pochi mesi: addio Chiara, docente di 27 anni”, «Il Gazzettino», 20 giugno 2017.


domenica 18 giugno 2017

Prima messa al Villaggio Giuliano di Udine

C’è stata una cerimonia religiosa al Villaggio Giuliano di Via Casarsa a Udine. È stata una santa messa semplice, partecipata e di alto valore simbolico quella del 16 giugno 2017, alle ore 19.


È la prima volta che si celebra una funzione all’aperto vicino alla Madonna della Rinascita del Villaggio Giuliano, nella zona di Viale Venezia. L’icona è opera del 1952 dello scultore Domenico Mastroianni (Arpino, Frosinone 1876-Roma 1962). Si tratta di un bassorilievo in bronzo, intitolato appunto Madonna della Rinascita.
La cerimonia religiosa è stata animata da una rappresentanza del coro parrocchiale di San Rocco. Il gruppo corale è formato anche da alcuni residenti del Villaggio Giuliano. Si esibiscono sotto la direzione della cantante lirica Isabella Comand, del maestro d’organo Marco Turco e di Valentino Morellato. Alla messa all’aperto c’era poi la voce solista di Serena, abitante del Villaggio Giuliano. I chierichetti sono della nuova generazione discendenti di esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia.


Il sacerdote padre Juan Carlos Cerquera ha ringraziato per la magnifica accoglienza e la cura nel tenere il luogo sacro, come hanno raccontato i presenti. Ha aggiunto che è stato proprio bello celebrare una funzione cosi intensa, con oltre trenta persone. Ha affidato alla Santa Vergine tutte le intenzioni degli astanti. Don Juan Carlos le ha idealmente depositate nel calice e le ha offerte ai piedi della Madonnina.

Un altro parere di una signora presente. «Ecco una cosa bella che mi piace ricordare – ha detto Eugenia Pacco, con avi di Parenzo e di Dignano d’Istria – in questa funzione, alla quale ha partecipato anche gente estranea al Villaggio Giuliano, si è sentito certo il senso di appartenenza alla comunità istriana e dalmata, ma pure alla realtà parrocchiale. È una comunità grande che coinvolge ben quattro parrocchie: San Giuseppe, San Rocco, Cormor e Tempio Ossario; tutto ciò sta avvenendo grazie al nuovo sacerdote vincenziano don Juan Carlos Cerquera».

Alla cerimonia hanno partecipato pure alcuni soci dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine. Era presente anche il signor Alberto Nadbath, di Udine, col papà di Abbazia; è stato lui a pulire la scultura in bronzo, il cippo in pietra chiara e l'area ove sorge il luogo sacro del Villaggio Giuliano di Udine. 
Vedi:  Son mi a netar la Madonna del Villaggio Giuliano, Udine, 2017.

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Ringrazio Eugenia Pacco per le fotografie della cerimonia religiosa.

Domenico Mastroianni, Madonna della Rinascita, 1952. 
Fotografia di E. Varutti

sabato 17 giugno 2017

Presentato “Voci dal silenzio”, libro delle Candiloro sull’esodo dal Quarnaro

UDINE - È stato ricordato l’ingegnere Silvio Cattalini, nato a Zara nel 1927 e morto a Udine nel 2017, alla presentazione di un recente romanzo. Era lunedì 12 giugno 2017, quando lo scrivente ha illustrato al pubblico il libro di Elettra e Maria Serenella Candiloro, intitolato “Voci dal silenzio”. Edito a San Giuliano Terme, (PI), dalla casa editrice Dreambook nel 2016, il romanzo è sull’esodo da Fiume, nel Quarnaro e su un’intensa biografia familiare.
Federico Vicario, a sinistra, Maria Serenella e Elettra Candiloro con Elio Varutti. Fotografia di D&C

L’evento pubblico è stato organizzato dal Comitato Provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), in collaborazione con la Società Filologica Friulana. La presentazione si è tenuta presso la “Cjanive de Filologjiche” (La Cantina della Filologica), in Via Manin 18/a di Udine, alle ore 18.00.
Erano presenti le autrici. Il volume, oltre a una vicenda dell’esodo di italiani da Fiume (seconda guerra mondiale), contiene qualche termine in lingua friulana e una storia di emigrazione da Valeriano, vicino a Pordenone a Fiume, nel Golfo del Quarnaro, di fine Ottocento come terrazzai.
Ha fatto gli onori di casa il professor Federico Vicario, presidente della Società Filologica Friulana. Ha voluto salutare il folto pubblico in lingua friulana. Poi Varutti ha portato il saluto di Bruna Zuccolin, presidente del Comitato Provinciale di Udine dell’ANVGD. Varutti è intervenuto nella sua veste di vice presidente dell’ANVGD di Udine. Tra i presenti c’erano anche Bruna Travaglia, esule da Albona, Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria e Eda Flego, profuga da Pinguente ed altri fuoriusciti da Fiume, Istria e Dalmazia.
Una parte del pubblico alla Cjanive de Filologjiche per le sorelle Candiloro. Fotografia di Giorgio Gorlato

Che romanzo è?
Questo avvincente volume appartiene in pieno alla seconda generazione della letteratura dell’esodo. Quella che non rivendica autoreferenzialità, ma che espone in modo pacato le vicende, senza rancori bollenti. Il testo presenta vari spunti di auto-riflessione. È impostato su una serie di biografie descritte dal personaggio immaginario nei brani, ma che ha un riscontro diretto nella realtà del clan familiare delle Candiloro. Queste sorelle, che oggi vivono a Piombino con gli attuali legami familiari, vantano delle ascendenze, oltre che da Fiume, anche dal Friuli e dalla Sicilia.
È questo un tipo di scrittura venuto a galla dopo gli anni 2004-2007. Ossia dopo l’approvazione della legge sul Giorno del Ricordo (2004) e dopo il celebre discorso (2007) del presidente Giorgio Napolitano di denuncia del silenzio della storia sui fatti delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata dei 350 mila profughi italiani fuggiti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
Alcuni di loro, a questo proposito, rifiutano il verbo “fuggire”, ma la paura c’era. La gente spariva di sera. Venivano a prenderla in sette-otto in divisa. Caricavano gli italiani su un camion “per precisazioni”, dicevano i titini. Sparivano così, non si sapeva più nulla di loro. Più tardi si scoprirono le uccisioni nelle foibe. Ammutolirono in molti. Qualcuno cercò informazioni dalle autorità titine. Sparì pure lui o lei. 
Oggi gli esuli ci tengono a precisare che fu un’uscita autorizzata, dopo avere optato per l’Italia. Con documenti regolari, insomma, anche se aspettati per vari anni dagli uffici di Zagabria.
Elio Varutti legge un brano del libro delle sorelle Candiloro. Fotografia di D&C

Ma quanto gli è costata quella uscita? È proprio vero che fu un trasloco qualsiasi, oppure fu un autentico fuggifuggi dalle prevaricazioni titine, dalle violenze e dalla paura di finire ucciso nella foiba?
Sin dalla copertina, che riporta un’elegante illustrazione acquerellata di Sara Angiolini, c’è una citazione dell’esodo giuliano dalmata, con bambini, ragazze in gruppo e due donne che portano una cesta, nella fuga dalla Jugoslavia di Tito. Quell'immagine è ormai un'icona dell'esodo degli italiani dall'Istria col piroscafo Toscana.
Tutto è incentrato sulla vita a Fiume, nel Quarnaro, di una coppia di giovani che si sposano nel 1938. Poi arrivano i venti di guerra e lui parte per la Libia, essendo stato richiamato militare, lasciando la giovane sposa in attesa di una bambina.
Il libro è tutto con nomi di fantasia, ma si incardina sulla storia vera ed avvincente della famiglia delle autrici e dei loro avi. Le stesse scrittrici mostrano, per così dire, una certa dicotomia nell’appartenenza socio-territoriale. Cerco di spiegare meglio. La primogenita è nata a Fiume, mentre la secondogenita nasce a Udine, durante l’esilio dei genitori, che come capita alle genti dell’esodo d’Istria, Fiume e Dalmazia, li porta in varie parti d’Italia: Friuli, Sicilia e Toscana. Alla fin fine sono questi i luoghi dei nonni e degli studi universitari delle giovani degli anni 1950-1960.

Una parte del pubblico. In primo piano la signora Maria Lunazzi Mansi, di Fiume. Fotografia di D&C

La prima autrice è molto legata alla città mitteleuropea di Fiume italiana. Ambra (questo è lo pseudonimo) descrive il legame profondo dei fiumani con la città. C’è il significato profondo della perdita dello spirito fiumano, oltre ai beni materiali, come le case, i negozi, i magazzini, i cantieri e  le industrie. «Quello che è andato perduto – è scritto a pag. 112 del volume – quello che i fiumani rimpiangono di più, è lo spirito di una città che sentivano diversa, amica, calda ed accogliente, anche con chi non vi era nato, ma vi era giunto in un momento della sua vita. No, se non si è vissuti a Fiume, non si può capire».
La sorella nasce a Udine, con la famiglia in esilio. Giuditta (nella finzione del libro romanzo) si sente cittadina udinese. Lo scrive (alle pagine 182 e 211). La vita della famigliola fiumana nel capoluogo friulano si sviluppa in Baldasseria Bassa, dove le giovani ricordano i lavatoi sul canale Ledra. Le donne andavano a lavare i panni presso tali lavatoi. Ce n’erano diversi in città.
Il volume rivela la storia di un insegnante di ragioneria e tecnica commerciale, divenuto preside dell’Istituto Zanon, del Deganutti e poi del Marinoni di Udine. Con Ignazio Candiloro l’istituto autonomo dei geometri, staccatosi dallo Zanon nel 1961, sarà intitolato a “Gian Giacomo Marinoni”. La proposta di dedicare la nuova scuola per i geometri friulani a un friulano del Seicento giunge curiosamente da un siculo, che fece il militare a Pola, emigrò a Fiume per lavoro e finì esule tra Friuli, Sicilia e Toscana. Marinoni era un patrizio udinese al servizio dell’imperatore d’Austria, come matematico capo di corte.
Francesco, alias Ignazio Candiloro, è il protagonista principale del libro. Nel volume c’è tanta storia: l’amore nato a Fiume, la guerra in Libia, il campo di prigionieri italiani di Yol (India), i titini, le foibe, Caporetto, la questione di Fiume con D’Annunzio che girava per la città del Quarnaro col suo cavallo bianco. C'è tanto Friuli, si va da Pinzano a Valeriano, Ragogna, San Daniele, ai baracconi di Udine (luna park e ambulanti) e molto altro.
Maria Serenella Candiloro, Elio Varutti e Elettra Candiloro. Fotografia di Giorgio Gorlato


Dibattito e contributi dei presenti
Nel ricco dibattito che si è svolto è intervenuta Annalisa Vucusa, di padre zaratino, autrice di Sradicamenti. La Vucusa ha pure accennato all’esistenza di una sindrome dello sradicamento, o di una sorta di lacerazione identitaria per certi discendenti dell’esodo giuliano dalmata. «Non ci sentiamo legati a nessun luogo – ha detto la professoressa Vucusa – perché siamo stati strappati dalle nostre terre».
Secondo gli psicologi la sindrome da sradicamento si avvicina a quella da abbandono. In quest’ultima c’è la sofferenza per aver perso qualcuno o per certi debiti affettivi. Ne soffrono gli umani, ma non solo. C’è il senso della perdita del genitore. Si sta persi ed indifesi nell’universo. Con la sindrome da sradicamento c’è chi ha vissuto interiormente il senso di perdere la patria.
Elettra Candiloro rispondendo alle domande del pubblico ha spiegato perché non ha voluto e non vuole mettere più piede a Fiume. «La città che io conoscevo da bambina e dai racconti dei miei genitori non c’è più – ha concluso – oggi c’è Rijeka».
C’è stato poi un contributo della signora Maria Lunazzi Mansi, cresciuta a Fiume. «Ricordo il Ricovero Branchetta – ha detto rivolgendosi alle sorelle Candiloro – e poi le scuole medie Silvio Pellico, la mia maestra era Maria Elisa Fortino… ah, io abitavo in Via Fratelli Branchetta, ricordate anche voi le scuole Silvio Pellico?» Tale scuola è citata alle pagine 42 e 43 di un altro volume intitolato Ricordo di Fiume., edito dai Giuliani nel Mondo

Ci sono state alcune risposte, altre domande o contributi. Le Candiloro hanno autografato vari libri, fatto le dediche ai presenti che si sono fermati al termine dell’incontro per varie ciacole.

Fiume in una foto dei Primi '900 che curiosamente taglia l'aquila della Torre civica

Cenni bibliografici
- Elettra e Maria Serenella Candiloro, Voci dal silenzio, San Giuliano Terme (Pisa), Dreambook, 2016, euro 13, pagg. 226.
ISBN 978-8899830052
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Un cenno bibliografico merita pure Ignazio Candiloro, per i più appassionati della “Partita doppia” e contabilità:            
- Candiloro, Ignazio, Uomini, numeri e conti : (biografie e saggi), Roma, Palombi, 1975-1985.

La pubblicazione suddetta contiene i seguenti temi: Leonardo Fibonacci, matematico e computista. Antonio Zanon, economista friulano del Settecento. La figura di Fabio Besta nella storia della ragioneria. Luca Pacioli, matematico del secolo XV. Vita e opere di G.G. Marinoni, scienziato friulano del Settecento. La computisteria negli scritti dei matematici del XIII, XIV e XV secolo. La partita doppia ed il «Tractatus XI» di Luca Pacioli. La letteratura contabile del secolo XVI. La letteratura contabile del secolo XVII (parte prima). La letteratura contabile del secolo XVII (seconda parte). Si tratta di un estratto da: «Istruzione tecnica e professionale», 1975-1985.

martedì 13 giugno 2017

Sociologia dell’esodo giuliano dalmata, il corso all’UTE di Udine

Il 9 giugno 2017 si è svolta la presentazione del corso di Sociologia dell’esodo giuliano dalmata presso l’Università della Terza Età (UTE) di Udine. Il nuovo corso sarà tenuto dal professor Elio Varutti, laureato in Sociologia nel 1977 all’Università di Trento e specializzato in Storia (1998) e in Metodologia delle Lingue minoritarie all’Università di Udine (2006).

Il titolo dell’incontro verteva sulla tematica del “Perché insegnare il Giorno del Ricordo e l’esodo giuliano dalmata?”. È stata la professoressa Letizia Burtulo, presidente dell’UTE di Udine a presentare il nuovo corso nell’aula magna dell’UTE, posta in Viale Ungheria numero 18, al 2° piano. «Questo è un tema assai interessante e nuovo non solo per le aule dell’UTE – ha detto la Burtulo – poi bisogna pensare che stanno scomparendo i testimoni diretti del fenomeno, come nel caso dell’ingegnere Silvio Cattalini, nato a Zara e venuto a mancare nel 2017, dopo aver partecipato nella veste di presidente del Comitato provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), a varie iniziative per il Giorno del Ricordo e per la cultura e la storia dell’Istria e della Dalmazia nella nostra università».
Il corso di studi è una novità non solo in regione, ma molto probabilmente, pure a livello nazionale. Le lezioni si terranno dal 10 ottobre 2017 al 23 gennaio 2018 ogni martedì, dalle ore 16 alle 16,50 alla UTE di Udine. Il nuovo corso entra a far parte dell’offerta formativa dell’istituzione universitaria friulana per il primo semestre dell’anno accademico 2017-2018 per un totale di 15 ore di lezione.
La premessa è che la Sociologia è quella scienza che studia i fatti sociali considerati nelle loro caratteristiche costanti e nei loro processi. Allora l’attenzione sarà incentrata sullo studio dell’esodo giuliano dalmata, come fatto sociale nelle sue caratteristiche e nei suoi principali processi e insiemi di comportamenti. Verranno analizzati i suoi aspetti storici, geografici, linguistici, nonché i processi culturali prodotti nelle letterature dell’esodo d’Istria, Fiume e Dalmazia. Il corso sarà aperto ai contributi ed alle testimonianze degli esuli e dei loro discendenti, intervenuti in modo costruttivo sin dalla presentazione dello stesso evento.

C’è uno studio in campo sociologico sugli esuli istriano dalmati. È l’indagine sui profughi condotta dall’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia nel 2008. Le ultime generazioni dell’esodo giuliano dalmata – secondo tali dati – hanno solo una memoria familiare e desiderano conoscere quei fatti ancor di più oggi senza rancori, ma per orgoglio identitario, anche perché l’esodo non è più nascosto.
La programmazione didattica prevede una serie di 15 lezioni frontali e partecipate dai discenti sui contenuti elencati qui di seguito. È prevista l’utilizzazione di diapositive da vedere in Power Ponit mediante l’utilizzo del computer connesso a Internet, per poter vedere parti di alcuni filmati dal web.
Corso di Sociologia dell’esodo giuliano dalmata, diviso in 15 lezioni (preventivo).
1. Concetto di esodo degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia.
2. Appunti di storia e geografia della Venezia Giulia e Dalmazia.
3. L’esodo del 1920 in Dalmazia e da Fiume.
4. L’esodo del 1929 in Dalmazia. L’esodo del 1941 da Zara e Fiume.
5. L’esodo del 1943-1945. L’occupazione titina di Trieste di Gorizia.
6. Il periodo 1945-1954, il TLT e il Magazzino 18.
7. L’ultima fase 1954-1963.
8. L’accoglienza in Friuli.
9. Il Centro di Smistamento Profughi di Udine.
10. Preventorio Femminile “Venezia Giulia” e Preventorio Maschile “Dalmazia” di Sappada (BL).
11. I Centri Raccolta Profughi in Italia.
12. Quattro villaggi giuliani a Udine.
13. L’ANVGD di Udine.
14. Itinerario giuliano a Udine.
15. Il silenzio degli esuli istriani.



La scuola e l’ANVGD di Udine
Dal 18 al 22 settembre 1996 due allieve della sezione turistica dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “Bonaldo Stringher” di Udine, guidate dalla professoressa Nadia Tacus, docente di Economia Turistica, hanno partecipato, in veste di “ciceroni” ad un viaggio in Dalmazia, con una comitiva di esuli e con l’ingegnere Silvio Cattalini, presidente del Comitato Provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD). È la prima forma di collaborazione tra l’Istituto Stringher e l’ANVGD di Udine.
Dal 1997 Elio Varutti, docente di Economia aziendale allo Stringher, ha iniziato a raccogliere notizie da una fonte orale particolare dell’esodo e dai suoi parenti; è la signora Brussich Miranda, vedova Conighi (Pola 11 agosto 1919 – Ferrara 26 dicembre 2013).
Tra il 1998 e il 2004 sono state svolte allo Stringher alcune ricerche sull’esodo istriano dalmata in modo sporadico, affrontando argomenti di Storia e di Tradizioni Popolari, con le professoresse Enrichetta Del Bianco e Elisabetta Marioni, docenti di Italiano e Storia. Si sono attivate le prime ricerche sul Centro di Smistamento Profughi di Udine da parte di E. Varutti, in collaborazione con la Circoscrizione n. 4 – Udine sud del Comune di Udine.
È del 2005 la prima intervista strutturata ad una esule istriana, per una incredibile fuga in barca (dall’Istria alle Marche). La ricerca è stata condotta dall’allieva Monica C., a cura della professoressa Elisabetta Marioni, con la collaborazione di E. Varutti. Era l’anno scolastico 2004-2005. L’intervistata è Narcisa D. (Lussingrande, Pola 1928). In seguito ci siamo resi conto di aver raccolto le preziose testimonianze dei discendenti di Monsignor Giulio Vidulich (Lussinpiccolo 1927 – Percoto 2003).
Alla biblioteca di Codroipo (UD) il 10.02.2008, in presenza di 50 persone, con il professor Enrico Folisi, è stato presentato il libro di: Varutti Elio, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo 1945-2007, ANVGD, Comitato Provinciale di Udine, 2007.
Dal 2008 all’Istituto Stringher si è sviluppata un’attività didattica incentrata sul Giorno del Ricordo con la partecipazioni di alcune centinaia di studenti e qualche decina di professori.
All’ITI “A. Malignani” di Udine, nel mese di marzo 2008 è stato presentato il libro di Varutti edito nel 2007 a oltre 400 allievi e alcuni insegnanti, con Silvio Cattalini.
A Pordenone, il 20.11.2008 presso la sede della Società Filologica Friulana (SFF), per 40 soci, con Sergio Gentilini presentazione del libro di Varutti edito nel 2007.
Dal 2009 al 2012 allo Stringher si è sempre tenuto il Giorno del Ricordo con Silvio Cattalini, Giorgio Gorlato, Pietro Fontanini, Anna Maria Zilli, Elisabetta Marioni, Gianni Nocent e Giancarlo Martina.
A Udine, presso l’Istituto “C. Percoto”, il 13.02.2012, Giorno del Ricordo con S. Cattalini E. Varutti, per 60 allievi e i loro insegnanti.
Giorno del Ricordo all’Istituto “B. Stringher” il 09.02.2013 per oltre 200 allievi e insegnanti, viale Monsignor Nogara, col sindaco Furio Honsell, E. Varutti e S. Cattalini, inaugurata la Mostra Giorno del Ricordo, 2.a edizione.
Il sindaco di Udine, F. Honsell, ha presenziato al Giorno del Ricordo allo Stringher nel 2014 con i professori Tiziana Ellero, Elio Varutti, Elisabetta Marioni, Gianni Nocent e Giancarlo Martina.
A Udine, scuola media I grado Uccellis, aula magna, 19-20.03.2014, Giorno del Ricordo, con Maria Letizia Burtulo, Dirigente scolastico, professoresse Manuela Beltramini, Maria Senis, Fulvia Bursic (da Umago) ed altri 12 insegnanti, Silvio Cattalini ANVGD, Giorgio Gorlato, E. Varutti, per 85 studenti.
Nel 2015 all’Istituto Stringher di Udine per il Giorno del Ricordo c’erano, oltre a Silvio Cattalini, il presidente della Provincia, Pietro Fontanini, Mauro Tonino, Giancarlo Martina e Elio Varutti. Poi la professoressa E. Marioni e Anna Maria Zilli, dirigente scolastico dello Stringher. Presentazione del volume “Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960”, edito dall’Istituto Stringher, Udine, 2015, scritto da Roberto Bruno, Elisabetta Marioni, Giancarlo Martina e Elio Varutti.
A Udine, Istituto Stringher, 6.02.2016, Giorno del Ricordo, con Anna Maria Zilli, Dirigente scolastico, Francesca Musto, assessore alla Cultura della Provincia, Furio Honsell, sindaco di Udine, Gloria Allegretto, vice prefetto di Udine e Silvio Cattalini, presidente ANVGD di Udine, Auditorium, E. Varutti per il pubblico (22 persone) e le classi quinte della scuola (200 allievi e 19 insegnanti).
Nel complesso E. Varutti ha partecipato ad oltre 70 eventi sul tema dell’esodo giuliano dalmata, coinvolgendo oltre 5 mila persone, tra le quali oltre 3 mila e 300 studenti e insegnanti di 13 scuole in Friuli Venezia Giulia e in Veneto. Sono state interessate oltre 20 istituzioni come Comuni, parrocchie, musei e biblioteche.

Bibliografia essenziale

- Gasparini A., Del Zotto M., Pocecco A., Sterpini M., Esuli nel mondo. Ricordi, valori, futuro per le generazioni di esuli dell’Istria-Dalmazia-Quarnero, Gorizia, ISIG, ANVGD, 2008.

- Gasparini A., Del Zotto M., Pocecco A., Sterpini M., Esuli in Italia. Ricordi, valori, futuro per le generazioni di esuli dell’Istria-Dalmazia-Quarnero, Gorizia, ISIG, ANVGD, 2008.

venerdì 9 giugno 2017

Esodo e Giorno del Ricordo, un libro di Maria Luisa Bressani



Fin dalle prime righe di questo volume fa una bella mostra una cartolina di Trieste italiana, riprodotta pure in copertina.
 Trieste, Libreria Ubik, presentazione del libro di Maria Luisa Bressani, al microfono; è il 24 maggio 2017

L’autrice custodisce il cimelio sin dal 26 ottobre 1954, quando Trieste viene riannessa all’Italia, dopo la fallimentare esperienza del Territorio Libero di Trieste (1945-1954). E, riguardo a quella data, aggiunge questa nota personale e familiare: «quando con i miei genitori e mio fratello Ferruccio, arrivati da Genova, in piazza dell’Unità attendemmo le navi italiane».
Già così si capisce che è un volume sull’esodo giuliano dalmata, scritto dalla viva voce di una che l’esodo della sua famiglia fino a Genova l’ha vissuto quotidianamente, essendo nata a Trieste nel 1942. Il testo è miscellaneo. È un insieme di tanti racconti, tante testimonianze. Raccoglie vari articoli che la giornalista Maria Luisa Bressani ha scritto su «Il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» ed altri giornali.
 
Da destra Bruna Zuccolin, Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo, Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.

Bressani è poi autrice di vari libri, vincendo alcuni premi letterari. Salta subito agli occhi la tecnica espositiva usata per questa produzione. Non c’è solo il racconto della fuga dalle terre perse e tutto quello che si è (o non si è) raccontato in famiglia. Qui ci sono delle inusuali riflessioni sul rapporto tra la Shoah e l’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
L’autrice chiosa e commenta i suoi articoli pubblicati sulla stampa nazionale. Aggiunge poi degli inediti. Molti di questi pezzi sono scritti col cuore. Il lettore precisino noterà alcune ripetizioni e dei concetti esposti poche pagine addietro, ma lo scrive la Bressani stessa che non ha voluto modificare o tagliare certe parti dei testi pubblicati. Molti originali interventi sono sulla data del Giorno del Ricordo, nata per legge dal 2004, ma attiva in molte parti d’Italia già da qualche tempo prima.
L’autrice compie numerose incursioni cronachistiche nei fatti e scrittori del Novecento e anche in quelli del Terzo Millennio: Piazza Tienanmen, terrorismo islamico, Giampaolo Pansa, papa Wojtyla. Ma non scorda di rintuzzare i bolsi negazionisti degli eccidi nelle foibe.

 
Maria Luisa Bressani

Il volume è corredato da una serie di fotografie dell’epoca e di qualche ritaglio di giornale. Contiene paragrafi stampati a colore rosso (per evidenziare e per dare maggio risalto).
Come mai la famiglia Bressani va via da Trieste? È uno strano esodo avvenuto in treno nel 1948 da Via dello Scoglio. Il motivo è che il clima cittadino, nel dopoguerra, non era dei più favorevoli. Ecco qualche brano (tratto da pag. 10) per capire meglio la situazione.
«Trieste allora non era solo questa festa [della birreria Dreher]: quando per il 4 novembre i miei esponevano il Tricolore, con un fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma sabaudo, scendevano gli slavi dal Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un donnone slavo quando mia madre in bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie del tram cadde, le gridò: “Crodiga de un’italiana!” che sta per la cotenna del maiale».

Durante l’esodo il fratello della Bressani, Ferruccio cantava a fior di labbra: «No ghe esisti un altro paradiso più splendido de ti, Trieste mia».
Il volume gode del patrocinio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine e dell’Associazione Giuliani nel Mondo.
L’interessane volume di Maria Luisa Bressani è stato presentato a Trieste, con una folta partecipazione di pubblico il giorno di mercoledì 24 maggio 2017, alle ore 18, presso la libreria Ubik, in Galleria Tergesteo - Piazza della Borsa 15. Alla presentazione ha parlato Bruna Zuccolin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato provinciale di Udine.
L’intervento dotto è stato diretto dal professor Giuseppe Benelli, dell’Università di Genova e presidente dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G. Capellini” di La Spezia. Erano presenti anche Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo e Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.
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Le fotografie sono di proprietà di Fabiana Burco, ove non altrimenti scritto.
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Maria Luisa Bressani, Alla mia Trieste e ai profughi giuliano-dalmati, Tricase (LE), Youcanprint, 2017, pagg. 174, euro 18, con fotografie in bianco e nero e a colori.

ISBN 978-88-92642-45-4
 
La copertina e, sotto, una pagina del volume
Il segnalibro col logo dell'ANVGD - Comitato Provinciale di Udine che ha dato il patrocinio alla originale presentazione nella libreria Ubik di Trieste
 
Ecco l'interessante e lungo intervento di presentazione del professor Giuseppe Benelli.

La cartolina della copertina col tricolore, con due vedute di Trieste e sotto la scritta «Saluti da Trieste italiana», ricorda il 26 ottobre 1954, quando le truppe italiane entrarono a Trieste. È una data importante perché segna per l’Italia la fine della seconda guerra mondiale, nove anni dopo che si era conclusa sui campi di battaglia. In quel giorno il generale Winterton sale sulla nave da guerra su cui si era già imbarcato l’ultimo contingente di truppe inglesi, mentre il generale Edmondo De Renzi entra nella città. Trieste esce così definitivamente dalla guerra. «Eravamo tornati ogni anno come in pellegrinaggio – scrive Maria Luisa Bressani - e alla vigilia del 4 novembre ‘54, ritorno di Trieste all’Italia, nell’unica stanza d’albergo dove dormimmo tutti e quattro, mio padre andò avanti e indietro tutta la notte. Il giorno dopo i bersaglieri in corsa tra la folla scaldavano come il sole. E quel 5% di sloveni che temevano ripercussioni simili a ciò che loro avevano fatto, dovettero ricredersi: non gli fu torto un capello».

        Poche città italiane, tra la metà dell’Ottocento e la metà del secolo successivo, hanno sviluppato una civiltà della portata di quella di Trieste. Questo luogo di confine, abitato in parte da italiani e in parte da popolazioni affluite da varie parti del nostro continente, ha espresso opere poetiche, letterarie, artistiche di eccezionale qualità. Per l’autrice Trieste è «città-simbolo di tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco- Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana, S. Michele Anglica­na, la Sinagoga di S. Francesco. E oltre alla città vecchia, ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro. La dominano la Cattedrale e il Castello di San Giusto martire, per la sua festa coperto di vite rossa. Nel bianco Carso quando la vite ver­gine rosseggia si dice: “È il sangue dei nostri martiri”. La domina il Santuario del Grisa dove ho trovato un dépliant con il testamento dell’Arcivescovo Antonio Santin, testimone di due guerre mondiali: “Ho assistito allo strazio della mia povera terra e delle nostre buone popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice sprofondato nelle viscere della terra... Quello che tutti ci unisce e ci fa ricchi è l’amore”».

La catena della memoria è la trama che consente all’uomo identità e progettualità. La memoria è ricordo, un ri-accordo che dalla dispersione genera unità, e nell’unità rintraccia quell’identità che per la ragione occidentale definisce la storia nazionale. Condizione che obbliga a fare i conti col passato, a riparare ai torti subiti dalle vittime, a onorare la loro memoria e organizzarne la commemorazione. Dopo quel 1954, quando la vicenda triestina è di fatto conclusa, su tutta la complessa e delicata questione del confine nord-orientale cala il silenzio generalizzato. Trieste e i giuliani non servono al confronto politico interno e neppure a quello internazionale. Tuttavia la storia nazionale è da tempo il campo di battaglia più affollato nelle polemiche culturali italiane, almeno a partire dal dibattito sull’eredità di Renzo De Felice, quando il termine «revisionista» diventa di volta in volta una bandiera da sventolare o un’accusa da cui difendersi. Ma non si sono solo incrociate le armi: anzi in parallelo con una guerra combattuta tra libri, prese di posizioni pubbliche e qualche anatema, il modo di scrivere storia è cambiato molto, si è allargato, ha investito altri campi che tradizionalmente venivano ignorati. Nasce l’esigenza di giungere una storia condivisa del passato, nella consapevolezza che «condividere» non significa né assolvere, né confondere i progetti e i valori per i quali nel 1940-45 si era combattuto. La storia è per sua natura revisionista, sia perché ha il dovere di verificare la veridicità dei fatti, sottraendoli alla versione dei vincitori, sia perché deve prendere posizione pubblica contro l’invadenza della politica.

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Maria Luisa Bressani, nata a Trieste, ha preso la Maturità al Liceo classico D’Oria di Genova. Laurea con 110 e lode, medaglia d'argento e «proposta di richiesta del diritto di pubblicazione della tesi» sull’Aristeia omerica e virgiliana da parte del relatore, l’insigne grecista Enrico Turolla. Diplomata con il massimo dei voti alla Scuola Superiore  delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e diplomata, sempre con il massimo dei voti, alla Scuola di Specializzazione in Giornalismo della stessa università. Ha lavorato per «il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» (pagine della cultura), il «Settimanale cattolico» diocesano di Genova. Ha scritto diversi saggi per «Archivum Bobiense», rivista prestigiosa fondata da Michele Tosi. Poi sotto la direzione di Flavio Nuvolone, docente di Patristica a Friburgo, ha collaborato con diversi saggi da I mulini di Valtrebbia a Forni e pane, e studi su artisti tra cui Italo Londei e  Alberto Nobile, che allestì il primo Museo dell’Abbazia di Bobbio con Gianluigi Olmi ed Enrico Mandelli.
I libri pubblicati: Begonza («ovvero della donna due volte gonza», con etimologia da lei inventata); Scrivere o ricamare: scrittrici  italiane del Novecento; Lettere d'amore e di guerra, libro tratto dalle mille lettere dei genitori. Nel 2015 Nel tempo, raccolta di racconti con riflessioni su alcuni temi cari all’autrice. Dal «perché credere» all’indagine sulla condizione femminile, al dramma dell’aborto e al valore intangibile della vita, dalla ribellione della giovinezza al mistero dell’arte, allo splendore del mondo su cui camminiamo, fino al dramma della Giustizia che prima ti condanna a morte civile e poi ti riabilita perché «il fatto non sussiste». Tra i tanti premi ricordiamo il Candoni-TeatroOrazero, Sìlarus, Bontempelli, Scrittori per la scuola, Premio Pieve di Santo Stefano e il premio UCSI Liguria per il Giubileo 2000 (articolo su San Colombano comparso sul «Giorno»). Sposata da più di 50 anni, ha tre figli e sei nipoti.
Ho conosciuto Maria Luisa Bressani nel 2006 in occasione dell’uscita del suo libro, Lettere d’amore e di guerra. L’epistolario dell’ufficiale Edgardo Bressani all’amata Ida, con la battaglia di Tunisia e la prigionia a Saida (1934-1945), Lint editoriale, San Dorligo della Valle (Trieste). La storia d’amore tra Edgardo Bressani e Ida Ragaglia, i protagonisti di questo libro tratto dalle lettere raccolte e spiegate dalla figlia Maria Luisa. Un’appassionante “microstoria” familiare, segnata dall’esperienza della prigionia in un campo francese in Algeria, che restituisce in uno stile immediato, giornalistico, l’umanità e il vissuto di un paese in guerra. Forte autenticità, ricostruzione obiettiva, debito affettuoso. È suo padre che l’ha spinta involontariamente a fare la giornalista; un uomo coinvolto ingiustamente in un processo, ma assolto perché innocente e perché il fatto non sussiste. «Il mio giornalismo – scrive Maria Luisa Bressani – è nato da una questione di mala giustizia (in un primo tempo) e per tenere la penna pulita, per non fare come quei tre giornalisti dei quaranta articoli in prima pagina e della notizia d’assoluzione all’interno in poche righe».
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In questo libro Alla “mia” Trieste e ai profughi giuliano – dalmati Maria Luisa Bressani racconta di vite negate, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, scampoli di vita e di morte, che per pudore l’esule arrivato dall’Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiude nel dolore. In questo modo una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. L’esule dei paesi comunisti non è mai stato troppo gradito e le sue scelte giudicate con sospetto. Il partito comunista jugoslavo era impegnato a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli esuli che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Per avere la dimensione dell’esodo, prima della seconda guerra mondiale in Istria gli italiani erano dall’80 al 95%, in Dalmazia Zara era italiana al 95% e a Spalato e Ragusa vi­vevano floride “colonie” di italiani discendenti dai veneti che le abi­tavano dai tempi della Repubblica Marinara. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d’acqua e di latte da dare ai bambini. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva “il Migliore”, che il confine italiano fosse sull’Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia.
Nel marzo 2004 viene istituita la «Giornata del ricordo» per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l’esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant’anni per incominciare a restituire un po’ di verità alla storia e chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani. Nei suoi articoli per le Giornate del Ricordo Maria Luisa Bressani ospita solo testimoni del tempo. Contro ogni barbarie riporta voci autorevoli su cosa conclude una guerra, su scempi diplomatici riguardo le migrazioni, sui tanti perché di una memoria negata. Scrive nell’articolo L ’Odissea dimenticata.
Mezzo secolo di colpevole silenzio: «Tra il ’45 e il ’46 i comunisti slavi uccisero oltre diecimila persone, ma nessuno ne parlò. Sono trecentocinquantamila i profughi giuliano-dalmati che abbandonarono terra e case, affrontando la povertà per non rinunciare ad essere italiani. L’esodo ebbe due fasi: la prima dopo l’8 settembre 1943 per sfuggire all’emergenza degli infoibamenti, la seconda nel dopoguerra e in conseguenza del Trattato di Pace del ’47: gli esuli furono più del 60% degli abitanti di quella che era stata la Venezia Giulia e che comprendeva Gorizia, Trieste, Pola, Zara».
Giulio Vignoli, titolare all’Università di Genova della cattedra di Diritto delle Co­munità europee, scrive in Gli italiani dimenticati (Giuffré, Milano, 2000): «In Istria nel biennio 45/46 scomparvero più di diecimila per­sone e di esse non fu più trovata traccia tranne i cadaveri di alcune centinaia ricuperati dalle foibe. Di questo genocidio, di questa barba­rie, delle torture e delle efferatezze compiute ben poco si seppe e si sa in Italia. La Sinistra, che tanta voce in capitolo e tanto controllo dell’informazione ebbe ed ha in Italia, evitò di citare delitti compiuti da forze politiche ad essa ideologicamente affini...». Da ricordare ancora l’esodo silenzioso da Trieste, conseguenza del terrore dei quaranta giorni di occupazione titina e del cli­ma conflittuale creatosi con gli slavi fatti infiltrare nel territorio. «Poi la marginalità della città nel tessuto industriale italiano durante gli 11 anni di Territorio Libero, ma in regime di amministrazione straniera, che spinse tanti triestini a cercar lavoro altrove. In 2.100 emigrarono in Australia con il piroscafo Castel Verde nella primavera ‘54 quan­do ancora Trieste non era tornata italiana».
        L’autrice descrive Zara. perla d’italianità, capoluogo storico della Dalmazia e unica città dalmata annessa al Regno d’Italia dopo la prima guerra mondia­le. «Zara della storia romana, vene­ta e italiana, ebbe sei Accademie, la prima, degli Animosi, fondata nel 1562 e l’ultima, L’Economica-Agraria, nel 1793; ebbe la Biblio­teca Paravia con 66.571 volumi e l’Archivio di Stato con 18.887 vo­lumi. A Zara, dal 1912 al 1945 era attiva una sezione della Società Dante Alighieri che è stata ricostituita nel 1995».
Viene bombardata pesantemente dagli angloamericani, sulla falsa indi­cazione dei titini di obbiettivi militari, per distruggere l’unico centro rimasto a maggioranza italiana. «Subì 60 incursioni aeree per cui già nel ’42 la parte storica della città era in macerie, come è documenta­to in Vennero dal cielo, 185 fotografie di Zara distrutta, 1943-44, a cura di Oddone Talpo e Sergio Brcic. In Dalmazia. Una cronaca per la storia '1943-44) (Roma, 1994) Talpo ha raccolto le testimonianze delle efferatezze dei partigiani slavo-comunisti dopo l’ingresso in città il 31 ottobre 1944 e la mattanza di 372 persone, nominativa­mente ricordate: ricordare non è per rinfocolare odi o riacuire dolore di chi non ha smesso di piangere i propri morti, ma per riprendere in futuro il passato di civile convivenza».
Famose le sue distillerie. «Bisogna far giustizia - commenta Riccardo Vlahov la cui famiglia prima della guerra aveva la fabbrica dell’Amaro Zara e cento operai -. Far giustizia su silenzio e omertà di menzogne riguardo l’esodo, perché un establishment politico consegnò una città e una popolazio­ne italiana ad una terra straniera. Nella nostra famiglia eravamo anti­fascisti e lo mettevamo in pratica nelle assunzioni degli operai aggi­rando filtri imposti dal regime, ma ciò non servì a proteggere mio padre Ramiro. Per potersene andare libero con la famiglia nel ’44 gli fu estorta la donazione delle macerie dalla fabbrica. Il nostro amaro era forte e secco, con poteri medicinali, e la ricetta era stata conse­gnata al mio bisnonno dal monastero per cui era fornitore di droghe speziali. Ho una foto del 1920 in cui se ne vede la pubblicità su una casa di New York».
        Stefano Zecchi, filosofo e romanziere, pubblica nel 2010 Quando ci batteva forte il cuore (Mondadori), libro che ci ricorda le ripercussioni della tragedia dell’esodo e ci narra un’«italiana universalità». «Zecchi, - scrive l’autrice - nato a Pola, fu abbandonato dalla madre entrata nella lotta clandestina dopo la Pace di Parigi, 10 febbraio 1947, che consegnò l’Istria alla Jugoslavia. Da un volantino del tempo: “Una banda criminale di malviventi, appartenente ad un CLN clandestino con sede a Pola, sta svolgendo attività di spionaggio e sabotaggio contro il potere popolare e la nuova Jugoslavia”. Tra i ri­cercati anche la sua mamma, la maestra Nives Parenti. Fu allora che il padre, artigiano di calzature, fuggì con lui per raggiungere l’Italia. Scrive Zecchi: “Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi. Mia madre è stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal fil di ferro, legata insieme ad altri sette sventurati...Non so neppure dove è sepolta”». Zecchi, dopo la  morte del padre, tornò a Pirano da don Egidio, il sacerdote che li aveva aiutati nella fuga a Trieste. «Da lui ebbe una lettera, lasciata dal padre per Nives, che non aveva potuto consegnarle. Una gran lettera d’amore. Zecchi non perdonò mai la mamma di averlo lasciato sce­gliendo la clandestinità. Al sacerdote che ne elogia il coraggio e l’amore dei genitori risponde e sembra Piccolo Mondo Antico: “Discutevano in continuazione, litigavano e sempre per la politica”. Don Egidio: “La politica li ha divisi, sono stati sfortunati, li ha separati prima la guerra, poi la pace”».
        Con grande coinvolgimento emotivo Maria Luisa Bressani entra nell’animo degli intervistati, li fa parlare di cose lontane e pur così tremendamente vicine. Il cuore dell’esule continua ad essere segnato dal dolore dei campi di accoglienza, fatti di sguardi mesti, occhi lacrimosi, voci balbettanti. Ciò che le testimonianze propongono con la forza amara dell’esperienza vissuta sono raccontate con estrema delicatezza e sofferenza condivisa. Nelle loro partenze non c’era la prospettiva di un cambiamento o la ricerca di un nuovo inizio, ma la consapevolezza di un andarsene senza ritorno e della rottura di una tradizione. Anna Maria Crasti, esule da Orsera, conclude la sua testimonianza nel 2013 su Anita Quarantotto, martire di Vergarolla: «Hai rimpianti? Sono passati sessantasei anni, eppure per noi Istriani, Fiumani, Dalmati non è cambiato quasi nulla. Spesso siamo considerati sempre e comunque fascisti... troppo (inutilmente italiani). Chiediamo solida­rietà, non compassione. Chiediamo di non dire Vrsar (Orsera) - Porec (Parenzo) - Rijeka (Fiume) - Zadar (Zara), ma di chiamarle co­me le hanno chiamata sempre non solo i Veneziani, ma gli Austriaci (Impero Asburgico), i Francesi (Napoleone) e tutti quelli che ci han­no difeso o dominato perché quello da sempre era il loro nome. Chiediamo troppo che alcune associazioni della Resistenza non defi­niscano “la commemorazione dei caduti delle foibe una pericolosa attività di agitazione revanscista?”. È troppo se chiediamo che un morto nelle foibe, istriano e quindi italiano, sia considerato uguale ad un morto in un lager nazista? Il dolore di un’istriana, madre, moglie, figlia d’infoibato non è eguale a quello di una madre, moglie, figlia di un ebreo, zingaro, prete, omosessuale comunista... morti in un lager nazista?». Sono i destini incrociati di una esperienza tragica, dove la guerra prosegue dentro la pace, e rispetto alla quale la storia ha ancora tanto da scrivere.
        Maria Luisa Bressani annota: «Amo il libro che ha storia, memoria e un po’ di sé per chi legge. Per lui - il lettore-amico! - finisco con un po’ di me». Nata a Trieste, dove vi ha vissuto solo due anni, dal 1946 al ‘48, ha struggenti ricordi legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. «Il vento che soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un salutista, ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le strade facevamo “catena” con gli altri: per mano perché “insieme si può”. Il vento per me ha il senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad indipendenza».
                                                  Giuseppe Benelli



Un cimelio da una casa di esuli fiumani; bandierina ricordo del 26 ottobre 1954 a Trieste. Collezione E. Conighi, Ferrara