Dal 1943 i deportati ebrei e i militari italiani imprigionati
nei vagoni merci dai tedeschi lanciavano dei foglietti di carta con i loro dati
da inviare ai parenti. Ciò poteva accadere solo incontrando persone di buona
volontà che assistevano alla deportazione nella stazione ferroviaria di
partenza o in quelle di transito, come in quella di Udine o di altri luoghi del
Friuli. Talvolta ha collaborato pure la CRI di Udine. Donne e bambine raccoglievano
i biglietti e scrivevano alle famiglie per dare loro notizie.
Vostro figlio
Pietro Guerra è transitato per Udine diretto in Germania. Comincia così questo bigliettino trascritto da mani
gentili a Udine il 14 ottobre 1943. Reca anche il timbro della Croce Rossa
Italiana, Comitato Provinciale di Udine, segno che detto ente si occupava di
tali comunicazioni. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.
Il saggio presente si allaccia ad uno precedente, opera dello
scrivente, col titolo “Ebrei a Udine sud e dintorni, 1939-1948. Deportazione in Germania e rientri”, on-line dal giorno 11 novembre 2016, con aggiornamenti del
2017. L’idea di tale indagine è nata nell’estate del 2016, nella parrocchia di
San Pio X, che fa parte di Udine sud. Il gruppo di ricerca è formato dalla
studiosa Tiziana Menotti, dall’architetto Giorgio Ganis, dal parroco don Paolo
Scapin e dallo scrivente. Il progetto prevede incontri pubblici sul tema della
Shoah da effettuarsi nel Giorno della
Memoria oltre alla visita sui luoghi dell’Olocausto a Udine sud. Si è
scoperto che nella stazione e nell’area dello scalo ferroviario di Via Buttrio
sostarono i vagoni bestiame carichi di ebrei, per lo più italiani e ashkenaziti,
oltre ad altri prigionieri dei nazisti.
C’è un luogo citato dalla crocerossina Rina Bernardinis nel
suo romanzo intitolato Nel mio autunno
ricordo, dove erano fermi i vagoni colmi di prigionieri. È proprio a Udine
sud, nell’area dello scalo ferroviario, tra Via Buttrio, Via Pradamano e Via
Monfalcone. Lì, nella zona di Baldasseria, stazionarono i treni merci
provenienti dalla Risiera di San Sabba o dal Carcere triestino del Coroneo, per
il trasporto di ebrei e di altri reclusi dei nazisti.
Desidero avvalermi di alcune testimonianze per ricordare quel
periodo. La signora Paola De Wrachien, di Udine, ha raccontato: “Ero anche io
tra quelle bambine che in stazione a Udine cercavano di dare un po’ di pane, di
acqua e cibo ai deportati dei tedeschi”. Poi, signora, ricorda qualcosa
d’altro? “Mi ricordo che i treni erano fermi all’altezza del Dopolavoro
ferroviario, in Via Cernaia 2 – ha aggiunto la De Wrachien – e penso che
c’erano tante persone, non so se parenti o semplici udinesi, che davano delle
cose per aiutare i prigionieri, compresi gli ebrei e prendevano i biglietti
lanciati dai vagoni”. Lei è andata da bambina solo in stazione nel 1944-1945,
oppure anche su altri binari? “No, non solo in stazione, perché poi i tedeschi
hanno spostato quei vagoni merci carichi di gente proprio verso Baldasseria –
ha concluso la signora De Wrachien – dato che in stazione c’era troppa
confusione, ricordo tanti bigliettini gettati dai deportati e raccolti da noi
bambini, che poi le donne grandi li utilizzavano per scrivere qualche
informazione alle famiglie di quei poveretti”. Ho già proposto in un mio saggio
nel web, nel 2016-2017, la dichiarazione della signora De Wrachien, ma mi
pareva importante il suo ricordo in riferimento alla zona di interesse: Udine
sud.
Giovanna Roiatti ha raccontato nel 2018 che sua mamma di nome
“Annamaria Rojatti aveva quattordici anni nel 1945 e ha presente ancor oggi di
essere andata con una zia a dar da mangiare a quelli dentro ai vagoni e si
ricorda di un intero vagone in transito pieno di patate rubato in pochi minuti,
furto compiuto da alcune donne del quartiere ai tedeschi, mia mamma abitava al
tempo in via Magenta, proprio dietro la stazione. Se ne andò con il grembiule
pieno di patate. Si ricorda dei bombardamenti a Udine che la fecero sfollare a
Laipacco da parenti; erano tempi così”.
Si riporta un altro racconto sull’aiuto dato ai prigionieri
stipati nei carri bestiame. “Mia mamma era una ragazzina che abitava in Via
Napoli, a Udine – ha comunicato Fabio Galimberti, di Martignacco – diverse volte
ha portato, a suo rischio, di nascosto delle patate che tirava contro le
piccole finestrelle dei vagoni. E molte volte ha raccolto i bigliettini che
cadevano da queste aperture per portarli a un sacerdote. Si ricorda ancora bene
quegli avvenimenti alla stazione di Udine”.
Si è saputo che i treni dei trasporti di ebrei e altri
deportati sostavano anche allo Scalo Sacca in via delle Ferriere, sempre nella
zona di Udine sud, citato da Claudio Calligaris nella sua testimonianza del
2017, già pubblicata nel web.
La Cjase dai
Palestinês. È l’edificio al centro, con antenna
parabolica sul terrazzo, veniva detto “La Casa dei Palestinesi” dalla gente di
Feletto Umberto, in via dei Martiri, 88. Qui, nel 1945 alloggiavano sia i
militi della Brigata ebraica, che gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio
in procinto di emigrare per Israele. Foto del 2018.
Agli incontri pubblici del 26 e del 28 gennaio 2018, organizzati
dal Gruppo culturale “Alfredo Orzan”, della Parrocchia di San Pio X, a Udine erano
presenti anche due ragazze del 1945,
che recarono aiuto ai deportati di allora nelle stazioni di Udine e di Artegna.
Si tratta della parrocchiana di San Pio X Fernanda Revelant, 90 anni, e Iris
Bolzicco. Hanno raccontato che raccoglievano i biglietti dei deportati, per
scrivere alle loro famiglie sul loro passaggio a Udine, diretti in Germania e
davano loro un po’ di acqua, un po’ di cibo, un abito pulito, rischiando perché
le sentinelle tedesche colpivano col calcio del fucile.
Nella periferia udinese, nel Comune di Tavagnacco, a Feletto
Umberto, a guerra conclusa secondo un’altra fonte orale già menzionata nel 2016-2017,
“c’erano degli ebrei che noi di Feletto chiamavamo i Palestinesi”. È Giannino
Angeli che racconta e prosegue così: “Stavano nella casa dove nel 1953 andò ad
abitare la mia famiglia, in Via dei Martiri 88”. La strada è stata così intitolata, perché i nazisti in fuga,
il 30 aprile 1945, qui trucidarono tre componenti della famiglia di Ovidio
Feruglio, come si nota dalla lapide apposta e come ha scritto Giannino Angeli
nel 1994, alle pagine 24 e 103.
Nel 1945-1947 tale abitazione era affittata ad una famiglia
siciliana e “ai piani superiori furono alloggiati questi ebrei, detti
Palestinesi, erano in divisa militare inglese, ma non so se fossero della
Brigata Ebraica, inquadrata nell’Ottava Armata britannica, che pattugliò
Tarvisio nel 1945, mi ricordo di non averli mai visti in paese con le armi, non
so se fossero ebrei salvati dai campi di detenzione italiani perché, a
differenza dei soldati britannici, sempre impeccabili, loro, i Palestinesi
erano, come dire, male in arnese, un po’ emaciati. Si fermarono a Feletto per
alcuni mesi, fino a tutto il 1945, poi non sono stati più visti in giro”.
A questo punto si precisa che il Cimitero militare angloamericano di Udine si trova, più precisamente a Adegliacco, in comune di Tavagnacco,
proprio vicino alla Cjase dai Palestinês (Casa dei
Palestinesi).
La Brigata Ebraica, passata per Udine e Tarvisio, opera in Austria
alla fine del conflitto. Agisce in tutta la Carinzia, dal Tirolo orientale
(Lienz) a Vienna, anche con gruppi autonomi dell’Operazione Nakam (vendetta),
come ha scritto Marina Gersony, nel 2015. Erano dei veri e propri cacciatori di criminali nazisti. La cittadina di Tarvisio, in provincia
di Udine, ad un certo punto diventa un luogo di transito di migliaia di ebrei
che fuggivano da ogni angolo d’Europa, per raggiungere il Mediterraneo e poi la
Palestina, secondo i documenti dal 1946 in poi dell’Archivio di Stato di Udine
(ASUd), Questura di Udine, Categoria A
12, Stranieri, b 1.
Lapide posta nel 1975 a Feletto
Umberto in Via dei Martiri, in ricordo della strage della famiglia di Ovidio
Feruglio; tre persone fucilate dai nazisti in fuga. Foto del 2018.
Guerra e dopo guerra
tra ebrei sopravvissuti e esuli giuliano dalmati
“Come faccio a sentirmi un profugo se la mia famiglia mi
portò via che ero bambino e non ho alcun ricordo di Fiume”. Ha esordito così la
testimonianza del pittore e scultore Michele Piva, che ho già citato nel 2015
in un libro con più autori. Il suo, forse, fu un esodo vissuto di riflesso. Sicuramente
un riflesso è il senso di sradicamento che si portano dentro molti esuli
giuliano dalmati fuggiti dalle pressioni titine del dopo guerra, come mi ha
raccontato Annalisa Vucusa. Era nato nel 1931 a Fiume Michele Piva, allora
Regno d’Italia. Studiò poi a Roma, Milano e Venezia. La sua espressione
artistica è sempre stata indirizzata a forme di impegno civile, come per chi ha
subito determinati fatti storici quali la Shoah. Fu così nella rassegna
intitolata “Lager” in esposizione ad Aquileia nel 1970 e poi a Udine, in sala
Aiace. La mostra girò in varie parti d’Italia e a Zurigo, in Svizzera, per
essere riproposta, con aggiornamenti, nel Giorno della Memoria il 27 gennaio 2013 a Udine, in Palazzo Morpurgo, con un rilevante
successo.
Si sa che c’erano ebrei a Zara e a Spalato, che cercavano di
salvarsi dalle leggi razziali del 1938. Alcuni di loro si mescolarono ai
profughi “Molti esuli giuliano dalmati hanno preferito il silenzio e hanno
anche scelto di non tornare mai più a rivedere le terre perdute – ha aggiunto
la Vucusa – mi si permetta un riferimento personale: mio zio Severino non
rimise più piede a Zara e non penso neppure Gisella, la mamma del nostro
Silvano, alias di Silvio Cattalini, presidente del Comitato di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) fino al 2017. Mio padre, Riccardo
Vucusa, invece volle tornare nella sua città, appena possibile, nel 1960. Io
avevo 11 anni. Allora ricordo intensamente la pesantezza e la paura nel passare
il confine della Cortina di ferro: i ”graniciari” consultarono un libro. Erano
le guardie confinarie serbe. Papà diceva il libro
nero. Essi volevano vedere se mio padre era compromesso in qualche modo.
Quando arrivammo a Zara, dopo aver percorso la strada costiera in un lungo
viaggio di 6-7 ore, vidi mio padre piangere: Zara non era più lei”.
Depliant degli eventi per il Giorno della Memoria 2018, per l'organizzazione del Gruppo culturale "Alfredo Orzan" della Parrocchia di San Pio X, Udine
Quanti sono gli ebrei di Fiume confinati dai nazisti verso i
lager? Da Fiume vennero deportati dai tedeschi 258 ebrei, secondo quanto ha
scritto Walzl nel 1987. Dai campi di concentramento ritornarono vivi in 22. La
città portuale del Quarnaro, nel 1931, contava 53.896 abitanti e gli ebrei nel
1903 erano oltre 2.600.
I dati di Walzl sugli internati da Fiume, secondo Curci,
vanno aggiornati così: gli ebrei residenti nel 1940, secondo la prefettura,
erano 1.105. Quelli rastrellati e deportati dai tedeschi ammontano a 243
persone, delle quali solo 19 sopravvissero (p. 120). Si aggiunga che il
monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981, è
dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città
del Golfo del Quarnaro. Come a dire che i dati degli storici non sempre
coincidono, ma siamo sull’ordine di 240-275 ebrei fiumani imprigionati e
deportati nei campi di sterminio.
Il 28 giugno 1945 il giornale «Libertà» di Udine, in prima
pagina, pubblica la notizia della liberazione di 374 bambini ebrei di varie
nazionalità nel Campo di concentramento di Buchenwald. Portati a Basilea,
restarono essi in attesa di una destinazione permanente. Anche Basilea, in
Svizzera ai confini con la Germania e l’Alsazia (vicino alle città di Colmar e
Strasburgo), è dunque un punto di accoglienza degli scampati alla Shoah. Altri 800 ragazzi superstiti della Shoah sono salvati dal
militare ebreo palestinese Moshe Zeiri. Egli, appartenente al Genio britannico, al termine
della campagna d’Italia dalla Puglia fino al Nord, li riunisce a Selvino, in provincia
di Bergamo, per preparare l’emigrazione nel nascente Stato d’Israele. Ciò secondo
il racconto di Sergio Luzzatto nel libro intitolato “I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele”, Einaudi, Torino, commentato da Pierluigi
Battista sul «Corriere della Sera» del 16
gennaio 2018.
Cartolina di Sussa (Sussak), area portuale jugoslava confinante con la Fiume italiana; Sussak viene annessa all'Italia dal 1941-1943. Immagine da Internet.
Le testimonianze sugli
ebrei di Fiume
Una fonte di ricordi fiumani sulla convivenza interreligiosa
nella località del Quarnaro ha riportato i seguenti fatti. È la signora Fabiola
Laura Modesto Paulon, nata a Fiume nel 1928 ed esule a Udine, che ha fornito
una testimonianza interessante su detto tema.
“Fiume era una città ricca, multietnica e tollerante fino
all’inizio della seconda guerra mondiale – ha detto Fabiola Modesto – pensi che
l’80 per cento dei commercianti era di religione ebraica, le mie compagne di
scuola erano cattoliche, turche, ebree e protestanti, ma la nostra educazione
si basava sulla convivenza e il rispetto reciproco. Fiume era una città europea
e d’estate durante le vacanze per fare i bagni andavamo in vaporetto a Laurana,
Abbazia, dove la famiglia affittava un appartamento”.
Non è l’unica persona che ricordi la pacifica convivenza con
compagni di scuola di altre fedi religiose, come risulta dal racconto di
Miranda Brussich, nata a Pola e vissuta a Fiume. “Gò fato le scole elementari a
Pola fin in classe terza – ha detto la signora Miranda – dopo per la classe
quarta iero a Fiume, col fredo del 1929 e iero ospite de Zia Tina Zanetti e Zio
Miko Dokmanovic, che iera rapresentante de una fabrica de aceto e gaveva
negozio de commestibili. Dunque a Fiume iera ragazze ebree mie compagne de
classe che all’ora de religion le andava via. Mi andavo d’acordo con tutte
lori. Iera la maestra Elisabetta Lazarus, che de famiglia i gaeva cantieri
navali a Sussak, in territorio slavo. Iera una bona maestra con tutte noi. Mia
mamma Giovanna Elisa Zanetti me diseva che la maestra gà sempre ragion! Me
ricordo che alla scola comerciale iera una Lilli Hand ebrea, dopo iera la
Vigevano e la Sinigaglia. Fiume era una città aperta, più de Pola alle altre
religioni. Gavevo 12 o 13 anni e gavevo per amiche queste ragazze ebree o altre
protestanti”.
Ricorda altre vicende di ebrei di Fiume o di Pola? “Il laboratorio
di sartoria delle sorelle Zanetti di Pola, attivo anche a Fiume – ha aggiunto
la signora Brussich – aveva tra i suoi clienti la moglie del dottor Marcello Labor,
di Pola che iera ebreo. Sua moglie iera invalida e stava in carrozzella. Gaveva
due fioi: Livio e Giuliana. Lori xe stadi convertidi col contributo del vescovo
Monsignor Antonio Santin, diventado dopo, nel 1938, vescovo di Trieste e
Capodistria. Più tardi il medico Labor, diventado vedovo, el se gà fato prete e
el fio politico e sindacalista cattolico”.
Biglietto scritto il 9 settembre 1943 da un certo Gigi da
Zone (località sia di Brescia che di Lucca) “Prima di partire per ignota
destinazione”. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.
Dalle ricerche di Silvia Cuttin effettuate nell’Archivio Storico
di Fiume, riprendo una parte dell’elenco degli ebrei di Fiume schedati dalle
autorità fasciste nel novembre 1943 con indicazione delle loro proprietà
personali. Ad esse, infatti, erano molto interessati i nazisti, perché le volevano
sequestrare, per rivenderle, trasformandole in soldi e oro. La piccola lista
che si ricopia va da numero 25 al numero 28. Spiegazioni dell’autore in
parentesi riquadrate. Vedi nel web: Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato, Documenti storici, 2012.
“25) Engel Adalberto di Massimiliano, nato a Beckescaba [Békéscsaba è una città che si trova nel Sud-est
dell'Ungheria] il 26.1.1897. Internato a Campagna [provincia di Salerno] il 13
luglio 1940 prosciolto il 17.4.43 e avviato a S. Benedetto del Tronto [Ascoli
Piceno].
26) Epstein Felice, di Leopoldo n. a Brno il
17.1.1895, già qui abitante in Viale Grossich 5. Allontanatosi da qui, orsono 5
anni per ignota destinazione. Non consta che qui abbia lasciato beni di sorta.
27) Fischer Alessandro fu Maurizio, nato a
Cappella il 30.5.1873. trasferitosi a Sussa [grafia italiana per: Sussak, in
territorio croato fino all’invasione e annessione italiana, 1941-1943] da circa
tre anni. Non consta che qui abbia beni di sorta.
28) Fischer Ottone. Trasferitosi da circa tre
anni a Sussa. Non consta che qui abbia lasciato beni di sorta.”
Con la promulgazione delle Leggi Razziali del 1938 gli ebrei di
Fiume perdono il lavoro e gli studenti non devono più frequentare le scuole “ariane”.
Rodolfo Decleva descrive in un suo libro la scomparsa di un suo compagno di
scuola. Vedi: Qualsiasi sacrificio! Da
Fiume ramingo per l’Italia. “Il compagno di classe Czelch sparì dal suo
banco per qualche nuova residenza segreta – riporta Decleva – nessun commento
da parte della nostra Signorina Maestra, probabilmente in osservanza delle
disposizioni superiori, malgrado che nella nostra città da sempre ci fosse
stata una numerosa colonia di ebrei con la quale si conviveva a prescindere dai
sentimenti religiosi. Immagino che analogo silenzio avvenne anche nel 1924
quando la città venne annessa all’Italia e tanti ungheresi e croati preferirono
l’esilio alla nostra Amministrazione”.
Fiume - Lo scolaro ebreo Czelch è il primo seduto a sinistra. Dal libro "Qualsiasi sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia” Genova, s.e., 2014 di
Rodolfo Decleva. La classe è la Terza Elementare della scuola "Daniele Manin". Seduto sulla panca al centro, con il
fiocco, è Rodolfo Decleva
Un ebreo particolare:
Marcello Loewy
Marcello Labor, nato a Trieste l’8 luglio 1890 e deceduto il 29 settembre 1954, fu medico,
marito esemplare e padre di famiglia. Come ha scritto Gianpiero Pettiti, nel
web, Marcello Labor, nato Marcello Loewy, nella parte finale della sua vita
rimase vedovo e fu ordinato sacerdote. Divenne rettore del Seminario diocesano
e parroco della Cattedrale di San Giusto a Trieste. È stato dichiarato
Venerabile con decreto pontificio del 5 giugno 2015. Ciò in base al sito web “Venerabile Marcello Labor Sacerdote”.
Figlio di un ricco banchiere ebraico di origine ungherese e di una
donna triestina, egli è un mix di agiatezza, cosmopolitismo e vivacità
culturale, abbinato a radici ebraiche mai smentite, perché, diceva: “resterò
sempre ebreo”.
La sua vocazione letteraria, destinata ad accompagnarlo per tutta
la vita, è coltivata al liceo triestino e in un gruppo di compagni. Tra i tanti
basta citare Scipio Slataper e Giani Stuparich. Egli cambia il suo cognome
originario, Loewy, con quello di Labor,
per affermare la sua italianità, in un ambiente di chiara impronta
filogermanica. Sposa ad inizio 1912 con rito ebraico Elsa Reiss e poi la prima
guerra mondiale lo porta a Lubiana, dove a fine 1914 riceve il battesimo
insieme alla moglie, per un voto che questa ha fatto alla Madonna: forse la
preparazione è un po’ affrettata, sicuramente la conversione è più conseguenza
del voto che frutto di convinzione.
Nel dopo guerra Labor si guadagna la fama di medico dei poveri,
che a Pola cura gratuitamente e con dedizione, in coerenza con le idee
socialiste, per le quali dimostra aperta simpatia. Questi sono però anche gli
anni del suo arricchimento culturale e scientifico, con le sue appassionate ricerche
per la cura della tubercolosi e in campo geriatrico.
Nel 1929 la svolta, con la graduale riscoperta insieme alla moglie
della fede che hanno ricevuto in dono, con il suo entusiasmo nell’apostolato
attivo dell’Azione Cattolica e con la sua appassionata adesione all’impegno
caritativo della San Vincenzo. Di pari passo inizia il calvario della moglie,
culminato nell’amputazione di una gamba, nel quale l’uomo di scienza sperimenta
i limiti della medicina, non sempre in grado di ridonare sanità e speranza di
vita.
Ordinato sacerdote, nel 1940 comincia col dirigere il seminario di
Capodistria, da cui, dopo l’8 settembre 1943, lo strappano le leggi razziali:
in quanto ebreo va in esilio a Fossalta di Portogruaro, in provincia di
Venezia. Va a fare il cappellano comune, incantando tutti con la sua semplice
amabilità. Ritorna a Capodistria a guerra terminata, riprendendo il posto che
aveva lasciato due anni prima, ma la sua franchezza nel predicare lo pone
subito in antitesi con gli uomini di Tito: arrestato il 13 agosto 1947,
processato, condannato ad un anno di reclusione, viene poi rilasciato il 30
dicembre dello stesso anno. Il vescovo gli affida la direzione spirituale dei
seminaristi a Gorizia, poi lo manda parroco della cattedrale triestina di San
Giusto.
Basilea, rosone con stella di David ripreso dal chiostro della cattedrale,
2018. Si ricorda che Basilea, dal mese di giugno 1945 è uno snodo per il
trasporto di centinaia di minorenni ebrei sopravvissuti ai Campi di sterminio,
come quello di Buchenwald.
Altre interviste da Fiume
Presento ora al lettore un racconto di Aldo Tardivelli, nato a
Fiume nel 1925 ed esule a Genova. Ho già comunicato questa testimonianza nel
web, ma la riprendo poiché è assai significativa. Scritto nel 2006, il testo
originale si basa anche sui ricordi di sua moglie, Graziella Superina, deceduta
nel 2011. “La comunità ebraica fiumana – ha scritto Aldo Tardivelli – diventata
da secoli ormai parte integrante della cittadinanza poteva abitare in ogni
luogo. Si dedicarono al commercio, all’artigianato, aprirono negozi
d’abbigliamento, mobilio, tappeti e articoli per l’arredamento della casa. Sono
stati i primi commercianti che hanno agevolato i cittadini ad acquistare
ratealmente le merci, con un contratto basato sulla reciproca fiducia”.
Il ricordo di Graziella Superina in Tardivelli inizia così: “Avevo
tante amiche ebree che frequentavano la stessa classe della scuola elementare Dante Alighieri. Una fra queste, Elena,
compagna di banco e di giochi. Il più delle volte, durante la sosta delle
lezioni nell’ora della ricreazione mi offriva una parte della sua merenda, che
era un po’ più sostanziosa della mia. Le lezioni in classe procedevano regolarmente
fino l’ora della religione cattolica, quando la mia (povera) amica doveva
uscire dalla classe e attendere, in solitudine, nel corridoio la fine della
lezione”.
Passiamo ad ascoltare un’altra fonte orale. “A Fiume alcune
compagne di classe di mia sorella Adriana erano ebree – ha raccontato Egle
Tomissich il 5 dicembre 2017 – loro durante la seconda guerra mondiale si
rifugiarono in certi paesi del Friuli, scampando alle retate naziste”.
E poi cosa successe? “Dopo la guerra ritornarono a Fiume, fino al
1948 – spiega la signora Tomissich – ma i nuovi governanti non vogliono gli
ebrei, perché li ritengono grandi capitalisti, ma erano solo negozianti, così
so che loro sono emigrati in Israele”.
Ricorda qualcosa d’altro, signora Tomissich? “So che un ebreo di
Fiume si salvò dai tedeschi, perché fu ospite in un convento friulano –
aggiunge la testimone – mi ricordo questi nomi di persone che si erano nascoste:
Magda ebrea, penso Berger di cognome, ela xe tornada a Fiume”. In effetti
nell’elenco degli allievi diplomati nel 1948 al Liceo scientifico di Fiume di
Via Giovanni De Ciotta, oggi Via Erazm Barčić 6, compaiono sia Adriana
Tomissich che Magda Berger. Vedi il sito web della “Srednja talijanska škola Rijeka – Scuola media superiore italiana di Fiume”.
“Dopo iera Friedrick Vortmann e un certo Sacks – ha continuato la
Tomissich – me ricordo ben de un de lori perché, nel 1948, me gà passado la
scarlattina”. Mi può dire altri nomi di ebrei di Fiume che si può ricordare? “Me
ricordo l’ebreo Weisz che aveva a Fiume un negozio di fiori – ha concluso la
signora – e anche iera Moravetz, ebrei con negozio di cioccolata, articoli da
regalo, eh, là c’era roba di lusso”.
Michele Piva, Menorah, dalla mostra “Lager”, Udine,
2013
La conferma delle pressioni fino all’espulsione o
dell’eliminazione a Fiume dei commercianti facoltosi da parte dei titini, in
quanto “capitalisti e nemici di classe” viene dall’autore di un memoriale sui
fatti di quel tempo di nome Iti Mini. Fossero essi ebrei o non ebrei, secondo
la teoria titina, bisognava togliere di mezzo quei ricchi bottegai, soprattutto
perché erano italiani.
“Sono nato a Fiume il 19 agosto 1921. – ha scritto Iti Mini –
Vivevo con i miei e con mio nonno materno che, dopo la morte della nonna aveva
abbandonato l’attività di un negozio di abiti con sartoria annessa. A casa mia
si parlava soltanto dialetto fiumano”. Scoppiata la seconda guerra mondiale,
Iti Mini è candidato per l’esame all’Accademia di Livorno ed ammesso al corso
di “Armi navali gruppo T (siluri, torpedini e bombe di profondità)”. Alla fine
del corso è inviato all’Arsenale di Taranto, quale appartenente a un corpo
tecnico e nel 1943 vede arrendersi la flotta italiana di Badoglio e arrivare
quella degli angloamericani.
“A metà maggio 1945, dopo due mesi passati solo a seguire
qualche lezione, partii [da Taranto] con mezzi di fortuna, cioè treni e camion
verso Padova per cui potei finalmente rivedere i miei che mi sconsigliarono
caldamente di tornare a Fiume occupata dai titini (…). Conobbi a Padova le
novità di Fiume occupata dalle bande di Tito interessate alla pulizia etnica.
Furono per primi uccisi tutti gli anti-Dannunziani e antifascisti – fautori di ‘Fiume città libera’ come sotto
l’Ungheria – (perché politicamente i più pericolosi), per secondi i fascisti e
i capi che non erano riusciti a fuggire. Venne poi la sorte dei più ricchi o
considerati tali, uccisi o imprigionati”. Tra di loro molti erano ebrei
rientrati a Fiume dalla fine del conflitto.
Una certa signora Ida Occelli scrive il 23 settembre 1943
di aver “visto partire vostro figlio da Tarvisio per la Germania…”. Estratto
da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.
Sui commercianti Moravetz
di Fiume
Riguardo ai commercianti di fiori Weisz, citati dalla signora
Egle Tomissich, non si sono trovate notizie precise, se non quelle di numerose
famiglie con quel cognome impegnate in vari rami del commercio nel Golfo del
Quarnaro, ma non nel comparto della rivendita floreale.
Si sono trovate, invece, nel web alcune collimazioni con le
affermazioni di Egle Tomissich riguardo ai negozianti Moravetz e alla fuga
degli ebrei di Fiume in Friuli negli anni 1930-1944 per salvarsi dalla
prigionia tedesca, come emerge dal saggio di Federico Falk su “Le comunità
israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali”. Vedi il sito web: Federico
Falk (a cura di), “Ebrei a Fiume e Abbazia”.
La famiglia Moravetz è a Fiume dal 1893 – descrive Falk – in
Corso Vittorio Emanuele III al civico numero 14. Il capofamiglia è Carlo fu
Giuseppe e fu Caterina Stedri, nato a Rataje (Serbia, poi Jugoslavia) il 13
agosto 1859. In effetti egli era commerciante al minuto di generi alimentari e
titolare del negozio di delicatezze in corso Vittorio Emanuele III, come
ricordato da Egle Tomissich. Carlo Moravetz ha cittadinanza cecoslovacca. Il
cognome originario in grafia cecoslovacca era: “Moravec”. Risulta coniugato con
Filippina Schmolka fu Carlo e fu Elisabetta, nata a Iglau (Impero Austro-Ungarico,
poi Cecoslovacchia) il 28 marzo 1873, casalinga. A Fiume dal 16 marzo 1896.
Carlo e Filippina Moravetz ebbero due figli: Emilio e Ada.
I coniugi e negozianti Moravetz – spiega Falk – vennero
arrestati a Fiume dai tedeschi. Detenuti alla Risiera di San Sabba e poi deportati
da Trieste ad Auschwitz. Decedettero ambedue durante il trasporto nel treno piombato.
Cartolina di Sequals dei primi del Novecento. Foto da Internet
Ancora secondo le ricerche di Falk, descriviamo ora Emilio di
Carlo e di Filippina Schmolka, nato a Fiume il 25 gennaio 1897, capofamiglia, commerciante
al minuto di generi alimentari, sito in Corso Vittorio Emanuele III, 14. Emilio
Moravetz gode della cittadinanza italiana per concessione del 18 maggio 1933.
Coniugato con Margherita (Grete) Holländer fu Adolfo e di Gisella Fröhlich,
nata a Fiume il 30 novembre 1903, casalinga, coadiuvante il marito ed il
suocero nell’azienda commerciale di delicatezze alimentari. I coniugi Emilio e
Margherita Moravetz ebbero due figli: Pietro (Peter), nato a Fiume il 1° giugno
1927, studente, e Francesco, nato a Fiume il 3 luglio 1932, scolaro. La
famiglia di Emilio Moravetz abbandonò Fiume nel febbraio del 1944 e trovò
rifugio a Sequals nei pressi di Spilimbergo, all’epoca in provincia di Udine,
ora provincia di Pordenone. Alla fine della guerra la famiglia trovò adeguata
sistemazione a Modena dove la signora Margherita è deceduta il 4 ottobre 2004
ed è stata sepolta nel cimitero israelitico di quella città. Pietro Moravetz
emigrò negli USA ove risiede – aggiunge Falk – mentre Francesco Moravetz
risiede in provincia di Como.
Passiamo a vedere ad un’altra famiglia ebrea di Fiume. Sono i
Moravetz Müller, di Viale A. Grossich 7. C’è Ada di Carlo e di Filippina
Schmolka, nata a Fiume il 18 maggio 1900, casalinga. Già coniugata con Roberto
Müller, dal quale poi ha divorziato. Cittadinanza apolide, già austriaca. È a
Fiume dal 3 maggio 1935. Conviveva con la figlia Renata Müller di Roberto e di Ada
Moravetz, nata a Vienna (Austria) il 24 febbraio 1929, scolara. Madre e figlia
abbandonano Fiume per sfuggire alle deportazioni naziste e trovano rifugio a
Sequals, nei pressi di Spilimbergo (oggi provincia di Pordenone). Anche questo
dato fornito da Falk coincide con la fonte orale della Tomissich. Dopo la
guerra emigrano negli USA, dove Ada Moravetz è deceduta nel 1995, mentre la
figlia risiede tuttora nel New Jersey.
Si prende ora in esame il nucleo familiare dei Moravetz
abitanti in Via Fratelli Bandiera, 2 a Fiume nei primi decenni del Novecento,
in base alla ricerca di Falk. Ci sono Giulio di Enrico e di Berta Zimmer, nato
a Heinwichs (Austria) il 23 giugno 1892. Egli è capofamiglia, agente di
commercio e impiegato in un’azienda di commercio all’ingrosso di pellami. Si
trova a Fiume dal 9 febbraio 1928. È di cittadinanza cecoslovacca è si è coniugato
con Rodolfina Tandler fu Davide e fu Paolina Weinrot, nata a Holleschau (Austria)
l’8 aprile 1890, casalinga. Rodolfina è a Fiume dal 9 febbraio 1928. Giulio e
Rodolfina Moravetz avevano una figlia di nome Giuditta, nata a Vienna (Austria)
il 5 gennaio 1919, casalinga. È a Fiume dal 9 febbraio 1928, coniugata con Tibi
Fischl e, rimasta vedova, risiedeva a Milano. Giulio e Rodolfina Moravetz
vennero internati dai fascisti a Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, il 18
settembre 1942. Vennero poi trasferiti a L’Aquila il 22 gennaio 1943 e il 21
agosto 1944 si trovavano a Roma.
Udine, Scalo ferroviario Sacca
in uno scatto delle truppe austriache d’invasione, 1918. Si ringrazia per la diffusione della fotografia Alessandro Rizzi di Udine.
Sacks, negozianti di
Fiume
In via Donatello, 19 a Fiume c’era l’azienda di “generi
misti” dei Sacks, come ha scritto Falk. In effetti Carlo Sacks fu Davide e fu Giovanna
(di cui non si sa il cognome), nato a Grödig (Austria) il 30 gennaio 1875,
capofamiglia, è agente di commercio all’ingrosso di generi alimentari. Si trova
a Fiume dal 1895 ed ha la cittadinanza italiana per concessione del 5 novembre 1931.
È coniugato con Giuseppina Popper fu Marco e fu Federica (cognome non noto),
nata a Pezen (forse: Pezinok, in area slovacca dei Piccoli Carpazi dell’Impero
Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia) il 16 novembre 1881, casalinga. Giuseppina
è a Fiume dal 1903. I coniugi Carlo e Giuseppina Sacks hanno due figlie: Anna
(detta Anny) nata a Fiume ed ivi deceduta nel 1930; e Federica (detta Fritzi)
nata a Fiume il 15 giugno 1911, di condizione casalinga. È cittadinanza
italiana per concessione del 19 febbraio 1931 ed è coniugata con Poldi Ledetsch.
Dopo la seconda guerra mondiale risiedeva a Genova, dove è deceduta e colà è
sepolta.
Alcuni ebrei di Fiume, tra il 1943 e i primi mesi del 1944,
trovano rifugio in Veneto, come la famiglia Falk che a marzo del 1944, per evitare
la deportazione ad opera dei nazisti, abbandona la città quarnerina e trova un
rifugio in provincia di Venezia. Vedi in Internet il saggio citato “Ebrei a Fiume e Abbazia”, a cura di Federico Falk.
Si può poi ricordare, infine, che tra Ottocento e
Novecento si è fatto apprezzare in Friuli, tra i paesi di Gonars e San Daniele,
il medico ebreo Ettore Sachs, come ha scoperto Valerio Marchi in un suo bel libro
del 2008.
Rastrellamento di ebrei
di Fiume 1943
Ecco il pensiero di Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20
settembre 1925 ed esule a Genova. La sua testimonianza si basa su di un testo
scritto del 2006, su una serie di telefonate e di messaggi di posta elettronica
del mese di gennaio 2017 con lo scrivente.
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Nel silenzio della notte – ha riferito Aldo Tardivelli,
assieme ai racconti della moglie Graziella Superina – udivamo i passi ferrati
delle truppe speciali Waffen SS che,
con rastrellamenti casa per casa catturavano i nostri concittadini. Riconobbi
immediatamente le uniformi delle Waffen
SS e le parole di comando che scandivano: “Alles raus”, tutti fuori.
Oppure: “Schnell, schnell”, avanti, avanti a quel glorioso equipaggio di
prigionieri ebrei, uomini, donne, vecchi e bambini erano colpiti dai calci dei
fucili sulla schiena, mentre uscivano dalle loro abitazioni e scendendo di
corsa nella strada, portando con sé i loro miseri bagagli. Lungo la strada i
soldati tedeschi avevano al guinzaglio dei grossi cani che ogni tanto
lanciavano un latrato in mezzo a quella colonna di disperati, furono percossi
in modo brutale facendoli entrare a spintoni su dei carri merci adibiti al
carico del bestiame, li contavano e quando il carro era pieno lo chiudevano
come se dentro ci fossero dei sacchi invece che degli esseri umani... i beni di
tutti e di coloro che non erano riusciti a fuggire furono confiscati.
Con rapidità! I loro nomi, molto conosciuti da tutti, si
diffusero di bocca in bocca per tutta la città: “Dio mio, Dio mio, ma cosa
fanno ai quei poveri Ebrei – diceva la gente di Fiume – ma cosa possono aver
fatto di brutto quelle persone che conoscevo come brava gente, Va bene sono
ebrei e che è di male? A Fiume gli Ebrei erano da sempre!”
Eravamo stupiti, costernati, avendo saputo che anche il
mobiliere dal quale mio padre aveva acquistato, anni prima, i mobili della sala
da pranzo, “la Bella Ebrea” che aveva il più fornito negozio di mercerie della
città, nei pressi della stazione Principe, tutta gente bene educata, gentile,
era stato obbligato con la famiglia a salire nei vagoni ferroviari, nel posto degli animali.
Dove conducevano i tedeschi quella povera gente? All’alba i
nostri concittadini sarebbero spariti per sempre! Lo venimmo a sapere alla fine
della guerra. Erano stati avviati alla morte nel Campo di sterminio di Aushwitz,
di Dachau ed altri luoghi di eliminazione.
Con l’invasione nazista dell’Europa, i Campi di
concentramento si affollarono di prigionieri di varie nazionalità. Fra i
reclusi c’era anche una moltitudine d’ebrei fiumani e l’inizio di un doloroso
cammino verso i campi della morte! Una persecuzione, la più orribile dei
crimini commessi nel corso della storia umana durante la Seconda Guerra
Mondiale.
Quelli che avranno la fortuna di tornare a casa cercheranno
invano di ritrovare i luoghi che un tempo erano famigliari, vedere che la loro
Sinagoga non esisteva più, perché era stata distrutta dai nazisti il 25 Gennaio 1944, subito dopo la
loro cattura. La cosa più terribile sarà di non riuscire a ricordare bene il
significato della vita trascorsa, ma appena le circostanze in cui si è svolta.
Tenteranno penosamente di raccontare soltanto particolari sconnessi della vita,
e tutto confuso nel ricordare quel che è già svanito nella memoria. È stato
come un popolo di “larve umane” che furono costrette a vivere come bestie
braccate. Essi non potranno tornare più
come prima.
Colmar, curiosa insegna di una birreria con la stella di
David, 2018. Colmar è vicina a Basilea, dove dal 1945 vengono trasferiti
centinaia di
minorenni ebrei sopravvissuti ai Campi di sterminio, come quello di Buchenwald.
Purtroppo, e con sicurezza, temo, che fra gli ebrei scomparsi
per sempre, ci sarà stata, certamente, anche l’amica Elena. Sarà andata ad
infoltire l’elenco, incredibilmente lungo, di altre migliaia d’infelici della
nostra città, a trovare la morte. Un martirio più cruento della storia, che
ancora oggi, nell’anno 2006, si ha il dovere di ricordare. Con amarezza.
I nostri padri,
compilatori di codici, per giudicare alla fine del conflitto, non avevano
neppure lontanamente immaginato che in Germania sarebbero un giorno avvenute
stragi in massa e si sarebbe fatto del genocidio un’istituzione!
Solo recentemente, ma sono passati tanti anni dalla fine
della guerra, si è scoperto l’italiano commissario Giovanni Palatucci, nato ad
Avellino il 31 maggio 1909, funzionario di polizia che da 1939 al 1944, a
Fiume, riuscì a salvare migliaia di ebrei, ed altre etnie in transito nella
Città, destinati ai campi di sterminio nella Germania nazista. Pur potendosi
mettere in salvo, Palatucci continuò la sua missione fino all’arresto e alla
deportazione nel “Campo di stermino di Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945.
Fin qui ho riportato il racconto di Aldo Tardivelli, basato
sui ricordi della moglie Graziella Superina e del babbo Tulio Tardivelli, tutti
di Fiume.
Dopo una serie di continui colpi d’artiglieria sulla città di
Fiume, il 3 maggio 1945, entrano in città i partigiani titini e l’Esercito di Liberazione Popolare Jugoslavo, dando inizio alle prime eliminazioni di
italiani del posto, con lo scopo di annettere Fiume alla Jugoslavia. Il cruento
scopo è stato raggiunto. Giunse nella città del Quarnaro, da Trieste, anche un
reparto della Brigata Ebraica, con l’obiettivo di trovare gli ebrei fiumani
nascostisi in Friuli, in Veneto e rientrati a Fiume, oppure aiutare gli ebrei
sfollati colà dalla Croazia degli ustascia, rifocillarli e portarli in terra di
Palestina.
Accadde proprio così alla ragazza Liliana Schmidt, nata a
Fiume il 7 ottobre 1929. Intervistata dopo la guerra, la Schmidt ricorda in
particolare un soldato della Brigata Palestinese (la definisce proprio così:
“Palestinese”, come la gente di Feletto Umberto riguardo alla Cjase dai Palestinês), che la
accompagna a Firenze in cerca di parenti. Ciò secondo quanto riportato da Luigi Raimondi Cominesi in
un suo libro del 1996.
Dice il biglietto scritto a Piedicolle, in provincia di Perugia: “Sono
prigioniero sto bene sono in partenza per la Germania. Saluti. Piedicolle
9.9.43”. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.
Secondo certe testimonianze il concentramento degli ebrei di
Fiume avviene, nel 1944, presso la Scuola “Cesare Battisti” di Toretta. “Li
portavano in questa scuola alla chetichella a bordo di vetture per non dare
nell’occhio – ha riferito Antonio Nini Sardi – vedevamo molta gente alle finestre
della scuola e le milizie tedesche che facevano la guardia, poi li hanno
caricati sui camion militari e li hanno portati alla stazione ferroviaria dove
li hanno fatti salire sui carri bestiame.
Continua così il racconto di Antonio Sardi: "Io frequentavo l’Oratorio della
Chiesa di Plasse San Nicolò e lì vicino passa la ferrovia, per giorni vedevo
passare questi convogli e dai piccoli finestrini con sbarre e ferro spinato si
vedevano la facce di quella povera gente, ero un muleto (ragazzo) ma son rimasto molto
impresionado e impietosido, xe stada una bruta storia”.
Il Campo di
concentramento fascista di Arbe, 1942-1943
In base a quanto ha scritto Loris Palmerini nel suo articolo
“Quegli ebrei deportati dall’Istria in nome della razza italiana” è ben
documentato il campo di concentramento di Arbe, isola oggi chiamata Rab, in
Croazia. L’isola è occupata dalle truppe fasciste nel 1941 ed annessa il 18
maggio al Regno d’Italia. Ad Arbe 10.564 persone furono internate dai fascisti,
tra di essi ci sono 1.027 ebrei; pochi gli italiani, molti di essi sono invece
croati o di altre nazionalità. Come per i deportati dissidenti croati e
sloveni, anche fra gli ebrei molti erano i bambini. Se ne contano 287. Secondo
Palmerini “i fini del campo erano lo sterminio e la deportazione e non la
sicurezza pubblica”. Lo stesso autore conclude: “Ad Arbe i prigionieri stavano
in vecchie tende marcescenti, senza riparo dal freddo, frustati, pieni di
pidocchi e cimici, allora dobbiamo ricordarci anche di quelli che furono
perseguitati perché diversi nella Venezia orientale, ed erano cittadini
italiani del Regno”.
Gli storici, tuttavia, non sono concordi e forniscono cifre
differenti. Per altri studiosi il Campo di concentramento di slavi a Arbe
conteneva 21 mila internati a dicembre 1942. Secondo Marina Cattaruzza (pag.
214 del suo L’Italia e il confine
orientale) ed altri esperti gli ebrei in fuga dalla Croazia degli ustascia
e rinchiusi a Arbe dai fascisti ammontano a 3.500-4.000 individui a novembre
1942. C’è discordanza persino sui morti di tale campo di concentramento: si va
dai 1400-1500 defunti secondo gran parte degli storici ai 3500 o, addirittura,
ai 4500 decessi per malattie contagiose e denutrizione.
Uno tra i primi studiosi a descrivere il campo di
concentramento di Arbe è stato Franc Potočnik, con
il suo “Il campo di sterminio fascista: l’isola di Rab”, edito a Torino
dall’ANPI nel 1979.
Una immagine del Campo di
concentramento fascista per civili sloveni e croati di Arbe (Rab) del 1942. Foto da
Internet.
Sabotaggio alla
ferrovia di Tarcento nel 1943
Passano per Udine molti dei convogli di ebrei imprigionati
dai nazisti e partiti dalla Risiera di San Sabba e da Pola in direzione di
Auschwitz. La linea ferroviaria Udine - Tarvisio è sottoposta a dei sabotaggi
da una delle prime bande di partigiani attivi in Italia, come ha scritto Bruno
Bonetti, alle pag. 46-48 del suo “Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di
Udine”. A Tarcento, sulla fascia collinare del Friuli, sin dal 17 settembre
1943 si è attivata una formazione partigiana autonoma. È comandata da Carlo, nome di battaglia di Tarcisio
Cecutto di Vergnacco, nato nel 1922. Il suo braccio destro è il capitano Gianni, alias Giovanni Buttolo,
nato a Resia nel 1919, ma residente da tempo a Tarcento.
La banda partigiana è nota col nome di “Gruppo Friuli” oppure
come “Banda della Bernadia”. Dal toponimo montano, nelle Prealpi Giulie, ove
trovava riparo dopo le azioni di guerriglia sui treni contro i tedeschi. Orgogliosamente
autonoma, la “Banda della Bernadia”, rifiuta tramite il comandante Carlo, di unificare il proprio
contingente di circa cento uomini, al battaglione “Garibaldi”, di ispirazione
socialista e comunista.
Il comandante Carlo
ed il suo vice, il capitano Gianni,
vengono arrestati dai repubblichini tra il mese di novembre e dicembre 1943 e
finiscono impiccati a Nimis il 29 febbraio 1944.
Si menziona questo gruppo partigiano perché si dedica alle
azioni di sabotaggio sulla ferrovia di Tarcento, mettendo in crisi oltre che il
trasporto civile e militare tedesco d’invasione, anche i primi convogli di
ebrei deportati dalla Risiera di San Sabba, a Trieste fino al Campo di sterminio di Auschwitz. Altri sabotaggi furono condotti sulla linea ferroviaria da Udine per Tarvisio. Si accenna a quello effettuato il 1° dicembre 1944 dai partigiani in località Santa Fosca, nel comune di Tavagnacco, come ha scritto Angeli.
Vale la pena accennare che nel 1944 vengono arrestati quattro
ebrei di Udine dalle Waffen SS,
secondo Pietro Ioly Zorattini. Si tratta del barone Elio Morpurgo (1858-1944),
prelevato ultraottantenne e ammalato in ospedale il 26 marzo 1944 e deportato
alla Risiera di San Sabba il successivo 29 marzo, per poi finire di vivere in Austria,
dove morì di stenti tra i suoi carcerieri. Il demente Gino Jona è arrestato dai
tedeschi nel manicomio di Udine. Poi ci sono altri tre ebrei imprigionati.
Leone Jona, arrestato il 9 gennaio 1944, essendo egli partigiano della Brigata
Osoppo Friuli, viene deportato ad Auschwitz il 2 settembre 1944. Poi c’è
Roberto Jona, arrestato il 12 marzo 1944 e deportato ad Auschwitz. Infine si ha
notizia di un ebreo nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il quale viene
arrestato a Udine; il suo nome è Leone Modena, fu deportato a Dachau e come
tutti i sopravvissuti di quel lager venne liberato dall’esercito degli Stati
Uniti d’America il 29 aprile 1945. Fin qui secondo i dati di Pietro Ioly Zorattini,
del 2002.
Valerio Marchi ha analizzato la figura di Elio Morpurgo in
vari elaborati. Nel 2016 ha scritto che sin da giovane Morpurgo entrò nel
consiglio comunale nel 1885, divenendo assessore alle Finanze. Dal 1889 al 1895
fu il primo sindaco ebreo eletto in Italia, poi sottosegretario alle Poste e
all’Industria tra il 1906 e il 1919, fino a divenire senatore del Regno nel
1920. Sarebbe il caso di dedicare a Elio Morpurgo una “pietra d’inciampo”, da
collocarsi, per esempio, davanti a Palazzo Morpurgo, in via Savorgnana. La
proposta è venuta dal Gruppo culturale “Alfredo Orzan” della Parrocchia di San
Pio X di Udine.
I ricercatori del presente elaborato, assieme ad altri
parrocchiani ed associazioni, il 28 novembre 2017 hanno fondato a Udine il
Gruppo culturale “Alfredo Orzan”, per ricordare il parrocchiano e beneamato
maestro elementare Alfredo Orzan (1930-2017). Tale gruppo ha in programma
l’organizzazione di eventi culturali, come mostre di fotografia, d’arte, nonché
spettacoli teatrali con particolare riferimento alla Parrocchia di San Pio X di
Udine. È dedicato al maestro Orzan, considerato il “cantore” di Baldasseria.
Referente del gruppo è Elio Varutti e la segretaria è Tiziana Menotti.
Altra immagine
della Casa dei Palestinesi al n. 88 di Via dei Martiri a Feletto Umberto,
frazione di Tavagnacco. Foto del 2018.
Ebrei a Tarcento,
testimonianza di Mario Simeoni
È un racconto su fatti storici “visti con i miei occhi”, come
ha detto Mario Simeoni, di Tarcento. A ripensarci ne esce ancora sconvolto, perché
ha visto uccidere un prigioniero alla stazione, ma ha voluto parlarmene lo
stesso. Non lo ha fatto pubblicamente, ma in forma riservata. L’occasione è
stata il 27 gennaio 2018 per il Giorno
della Memoria, presso la Biblioteca di Tarcento, dove il sottoscritto è
stato relatore sul tema della “Shoah dongje les cumieres di Baldassarie.
Deportazione e campi di concentramento. Luoghi e storie 1943-1945”, assieme
all’architetto Giorgio Ganis, che ha trattato de “Gli ebrei a Udine e in
Friuli. Sinagoghe, ghetti e cimiteri”.
Ecco il suo racconto. Nell’inverno 1943-1944, in Italia,
tutti gli ebrei vengono rastrellati ed internati nei campi di concentramento
dai nazifascisti. Vengono trasportati con i treni merci, nei vagoni bestiame.
Le porte sono sigillate e vengono lasciate aperte solo alcune finestrelle con
le sbarre, per il ricambio dell’aria. A questo punto c’è il dato molto
interessante secondo cui “per il transito non ordinario del treno, il
capostazione veniva informato dalle autorità tedesche tanto tempo prima, egli
così riusciva con il passa parola ad informare in tempo coloro che erano
interessati al passaggio; sempre il responsabile del transito trovava la
motivazione per fermare i convogli che sempre transitavano al pomeriggio”.
I ferrovieri diffondevano, dunque, la notizia del passaggio
di un treno di deportati. Così accade a Tarcento, ma è chiaro che avveniva lo
stesso fatto nelle altre stazioni. “Moltissimi tarcentini – ha scritto Simeoni
– accorrevano per dare solidarietà e quant’altro ai prigionieri. Quando in
lontananza si vede arrivare il treno proveniente da Udine instradato al 1°
binario e, naturalmente il capo stazione lo ferma, tanta, tanta gente aiuta i
deportati ed ero anch’io lì in attesa”.
Come si comportavano i reclusi? “Quando il treno si ferma – è
la spiegazione di Mario Simeoni – ricordo che dai vagoni bestiame si sentono le
grida, urla e pianti”. C’è chi chiede aiuto. C’è chi sbraccia dalle alte
finestre del vagone. “Chi riusciva, gettava bigliettini con il loro nome e
indirizzo – aggiunge il prezioso testimone – per farli raccogliere e informare
così i loro familiari. In tal modo potevano sapere che il loro parente era
transitato per Tarcento, in modo che potessero ipotizzare la direzione del
convoglio. Ricordo che la signora Giorgina Volpe coniugata con Remo Giavitto
portava anche da mangiare che riusciva a far entrare nel vagone merci da
qualche spiraglio”.
Quante volte si verifica la scena appena descritta? “Proprio
questo era il motivo della nostra presenza in stazione: dare qualche aiuto – ha
detto Simeoni – non c’è stato solo quel treno, ma tanti e in giornate diverse,
comunque il capo stazione avvertiva sempre la popolazione”.
C’è stato qualche tentativo di fuga da parte dei prigionieri?
“Non ho visto, ma ho sentito dire che il cooperatore del pievano, don Celso
Gloazzo, ha visto un prigioniero che è riuscito a scappare dal convoglio,
allora lui si è levato la tunica e ha coperto il prigioniero, facendogliela
indossare, che così si è salvato”.
Signor Mario Simeoni ricorda qualche altro gesto? “C’è un
altro episodio, che però non è andato a buon fine – risponde il testimone – un
prigioniero riuscito ad evadere dal treno è stato visto, aveva già guadagnato
terreno, ma le sentinelle di scorta gli hanno sparato a vista. È caduto a
terra. Senza che ci vedessero le sentinelle, gli è stato dato soccorso. Per
qualcuno era morto. Per altri non lo era. Allora dove lo portiamo? Hanno preso
la decisione di portarlo in cimitero nella stanza mortuaria. Al centro aveva il
ripiano di marmo e, così vestito, è stato appoggiato. Sono stati avvertiti tre
medici locali, per diagnosticarne la morte, ma per la paura degli invasori
nazisti, non lo hanno visitato. La cella, dopo il terremoto del 1976, è stata
ricostruita ed ora è la Cappella del cimitero”.
Com’è finita la storia di quella evasione? “È stato visto,
quella sera, da tanti civili – ha concluso Simeoni – ognuno esprimeva la
propria incertezza e, per avere un responso certo, sulle sue palpebre chiuse,
qualcuno gli ha messo delle monete metalliche, in modo che se fossero cadute
avrebbe significato che aveva mosso gli occhi e, quindi, non era morto. Anch’io
sono stato a vederlo, non ho avuto paura, ma mio fratello Sergio durante la
notte se lo è sognato ed ha iniziato a gridare”.
Ha qualcos’altro da raccontare? “Sì, nel 2017 ho letto il
libro di Bruna Sibille Sizia, intitolato Lo
stagno delle rane – ha concluso Mario Simeoni – l’autrice riporta a pag. 16
quanto segue. Lo scampato dal treno era un aviatore di Reggio Emilia, portato
nella cella mortuaria del cimitero con un referto del dottor Jacopo Bonfadini
stilato in questi termini: arresto cardiaco. Ma le donne di preghiera attorno a
lui si accorsero che respirava ancor e aveva una ferita fresca al fianco, anche
se il sangue non usciva più. Cercarono inutilmente di rianimarlo, ma il medico
fu costretto a cambiare il referto scrivendo: deceduto per ferita di arma da
fuoco”.
I coniugi Mistruzzi,
Giusti delle Nazioni
Ci sono alcune figure poco note o del tutto sconosciute
riguardo all’aiuto prestato agli ebrei nel 1943-1945. Si tratta dello scultore
e incisore Aurelio Mistruzzi e di sua moglie. Mistruzzi è nato a Villaorba di
Basiliano il 7 febbraio del 1880 e muore a Roma nel 1960. Sua moglie è Melanie Yaiteles,
nata a Vienna nel 1886 e morta a Roma nel 1977. Essi sono compresi tra i Giusti
delle Nazioni nel Museo Yad Vashem di Gerusalemme per aver aiutato gli ebrei perseguitati a Roma.
A fare questa eccezionale scoperta è stata la professoressa
Gabriella Bucco, che ha pubblicato un interessante articolo su «La Vita Cattolica» del 22 gennaio 2015, col
titolo “La storia di Aurelio Mistruzzi, l’unico artista friulano tra i Giusti
delle Nazioni nel Museo di Gerusalemme”.
Anzi Aurelio Mistruzzi – ha spiegato Gabriella Bucco – è
l’unico artista friulano tra i 610 giusti italiani, ricordati nel museo
israeliano, istituito nel 1953 per commemorare le vittime dell’Olocausto, cui
si affiancò dal 1963 una sezione che ricorda i non ebrei che aiutarono i
perseguitati. I loro nomi, segnalati dai beneficiati e sottoposti a severe verifiche,
sono iscritti sul muro del giardino dei giusti sulla Collina del ricordo.
Ferrara, Menorah stilizzata sulla facciata del
Museo Nazionale
dell’Ebraismo italiano e della Shoah. Foto del 2017.
La professoressa Bucco, oltre al citato e meritorio articolo
su «La Vita Cattolica», ci ha
trasmesso un memoriale sui coniugi Mistruzzi, che sarà utilizzato qui di
seguito per dare ancor più informazioni sul singolare caso di ebrei di Fiume
salvati da un friulano in quel di Roma.
Il celebre scultore e
medaglista friulano Aurelio Mistruzzi, visse a Roma, dove si era trasferito nel
1908 e aveva frequentato la Scuola dell’Arte della Medaglia, settore dove
eccelse tanto che nel 1932 fu nominato incisore ad perpetuum della Santa Sede. Fu anche rinomato scultore, in
Friuli sue sono le statue del Palazzo del Comune di Udine e numerosi monumenti
ai Caduti, come quelli di Cividale e di Pordenone. Fu amico dell’architetto
Raimondo D’Aronco e di tutti gli artisti e gli intellettuali locali, la
famiglia donò alla Provincia di Udine una collezione di medaglie, bozzetti,
opere in gesso, tuttora conservata nei Civici Musei udinesi, come ha scritto
Gabriella Bucco.
Aurelio Mistruzzi conobbe al Circolo artistico internazionale
di Roma, Melania Yaiteles, di famiglia ebraica viennese, che lavorava per la Mercedez
Benz. Fu amore a prima vista e i due si sposarono nel 1913, tra mille
difficoltà date le tensioni tra l’Austria e l’Italia, che avrebbero portato di
lì a poco allo scoppio della prima guerra mondiale. Ebbero quattro figli:
Adriana, Diego, morto nel 1940 nell’affondamento di un sommergibile nel mare
della Libia, Lea e Fabiana. Vissero a Roma in un villino con annesso
laboratorio, sulla cui porta figurava la targhetta con la scritta incisore
della Santa Sede, che avrebbe rappresentato una labile difesa nei tempi bui della
seconda guerra mondiale. Già nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali in
Italia e l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, Mistruzzi si era reso conto
che i tempi si facevano difficili. I parenti della moglie a Vienna si erano
visti confiscare tutti i beni; sarebbero poi stati tutti deportati. La cognata
Henriette era riuscita a salire su un treno per Roma senza un centesimo, tanto
che il viaggio, grazie alla benevola tolleranza dei ferrovieri italiani, era
stato pagato dallo stesso Mistruzzi all’arrivo a Roma.
Melanie Yaiteles. Ringrazio per la diffusione della
fotografia Gabriella Bucco di Udine.
Continua così il racconto di Gabriella Bucco. Nonostante la
morte del figlio Diego, decorato al valore militare, nel 1941 l’autorità
fascista intimò a Mistruzzi di consegnare anche la radio in quanto la sua
famiglia era mista. Lo scultore riuscì ad evitarlo e commentò con un ‘Disgraziati!’
l’accaduto. Durante la guerra fu in contatto con padre Anton Weber, che per
conto del Vaticano aveva organizzato una rete per aiutare gli ebrei e anche con
don Pio Paschini, rettore dell’Ateneo Lateranense, dove spesso la figlia lo
accompagnava. Iniziò così con la moglie Melania un’attività clandestina per
dare ospitalità agli ebrei e procurare loro documenti d’identità, mettendo al
servizio dell’umanità la sua abilità nell’arte incisoria. Lo testimonia una
lettera che Vittorio Orefice, inviò da Padova nel 1960 dopo aver appreso la
morte dello scultore dove si legge «Io lo ricorderò sempre come il mio
salvatore per suo merito infatti mi era riuscito di ottenere quella carta di
identità che, posso ben dire, mi ha consentito di tornare a vivere una nuova
vita, come era necessario in quei tempi tanto tristi. E con me quanti sono
stati da lui salvati! E sempre tacendo e con quella modestia esemplare quanto bene ha fatto il
professore in quei tempi…».
Come mai il friulano Mistruzzi è tra i Giusti delle Nazioni
nel Museo di Gerusalemme? La risposta ce la fornisce la stessa professoressa
Bucco. È stata Lea Polgar, un’altra beneficiata dai coniugi Mistruzzi, ad
intraprendere, inizialmente all’insaputa di tutti, l’istanza per il
riconoscimento di Aurelio Mistruzzi e Melania Yaiteles a Giusti delle Nazioni.
Adesso si descrivono i legami di Mistruzzi con la gente ebrea
di Fiume. Anche la sua storia, quella di Lea Polgar, che si intreccia con
quella della famiglia Mistruzzi, merita di essere raccontata, ha scritto
Gabriella Bucco. Il suo nome – Lea – ricorderà al lettore, quello di una delle
figlie di Mistruzzi, che la madre Eva Grünwald Polgar aveva conosciuto a Roma
quando vi era recata da Fiume per portare a casa Mistruzzi dei dolcetti alla
moda viennese. Eva Grünwald era infatti una lontana parente di Melania Yaiteles,
la moglie viennese dello scultore, e aveva sposato a Fiume l’avvocato Francesco
Polgar (Fiume 21.09.1900), figlio del commerciante all’ingrosso di cereali
Giuseppe, stabilitosi a Fiume dal 1896, e di Serena Lichtenstein. Francesco
Polgar aveva studiato giurisprudenza a Padova e a Bologna dove si era laureato
nel 1922 con una tesi che comparava le leggi matrimoniali vigenti a Fiume, che
fu annessa all’Italia nel 1924, con quelle dello stato italiano. Tra la
famiglia Polgar e quella dei Mistruzzi si instaurarono dei rapporti di amicizia
e quando nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali l’avvocato non poté più
esercitare la famiglia Polgar decise di emigrare a Roma, dove Francesco divenne
segretario dell’Unione delle Comunità Israelitiche.
Lea Polgar. Fotografia dal sito web Szombat Online, che si ringrazia per la gentile diffusione e pubblicazione.
Oltre a Lea Polgar (Fiume 1933), erano nati altri due figli:
Tommaso (Fiume, 1934) e Gianni e nel 1943 tutta la famiglia si dovette
nascondere per evitare la deportazione. La famiglia Mistruzzi cercò di aiutarli
nei periodi di grande ristrettezze, ma quando i tedeschi occuparono Roma
nascosero per un mese Lea nel villino di via Carso. Come ricorda la signora
Polgar fu lo stesso Aurelio a indicare alla bambina un nascondiglio nello
studio da dove non sarebbe dovuta uscire se non chiamata dallo stesso scultore.
Mistruzzi si adoperò per distrarla durante le giornate, quando non poteva
avvicinarsi alle finestre altrimenti sarebbe stata vista da possibili spie dei
fascisti. Nel frattempo in casa Mistruzzi la figlia Adriana aveva avuto un
bambino ed Eva Grünwald Polgar ritenne troppo pericoloso lasciare la
figlioletta Lea nella dimora dei suoi benefattori. Con rammarico della piccola
Lea furono scelti altri nascondigli nei conventi romani e anche grazie ai
Mistruzzi, la famiglia Polgar riuscì a salvarsi dalla deportazione.
Anche Giorgio Polgar, fratello di Francesco, titolare di un’azienda
di commercio di generi coloniali, con la sua famiglia nel 1943 si rifugiò a
Perugia e poi a Roma. Sorte tragica ebbero invece i membri della famiglia che
rimasero a Fiume, che nel 1943 fu incorporata al Terzo Reich: Serena
Lichtenstein insieme al figlio Emerico (detto Imre), a sua moglie Caterina
Fischl e al nipote Mario Claudio (Budapest 1935 – Auschwitz 1944) dapprima si
rifugiarono fuori città, ma poi vi rientrarono e furono arrestati dai tedeschi
il 12 febbraio 1944. Detenuti nella Risiera di San Sabba furono deportati ad
Auschwitz e qui uccisi, come altri 275 ebrei fiumani. Tale dato sta nel Monumento
inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981; esso è dedicato
ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del
Quarnaro.
Lea Polgar, la cui amicizia con Lea Mistruzzi non è mai
venuta meno, iniziò la pratica per conferire
ad Aurelio e Melania Yaiteles Mistruzzi il titolo di Giusti delle
Nazioni, riconoscimento accordato il 28 settembre 2007, come ha documentato
Gabriella Bucco. Così recita la motivazione: «Nella sessione del 7 settembre
2007, la commissione per la designazione dei Giusti, stabilita presso lo Yad
Vashem, gli eroi dell’Olocausto e l’autorità che ricorda i martiri, sulla base
delle prove presentate ha deciso di onorare Aurelio Mistruzzi e Melania
Yaiteles, che, durante il periodo dell’Olocausto, rischiarono la loro vita per
salvare gli ebrei perseguitati. La commissione perciò ha accordato loro la
medaglia di Giusti fra le Nazioni. Il loro nome sarà inciso per sempre sul muro
d’onore nel giardino dei giusti allo Yad Vashem di Gerusalemme. - Gerusalemme,
Israele 28 novembre 2007».
Eva Grünwald Polgar. Foto da
Internet sul sito Ebrei di Fiume e Abbazia, che si ringrazia per la diffusione e pubblicazione.
La Dachau di Zoran
Music al Revoltella di Trieste 2018
Dal 27 gennaio al 2 aprile 2018, il Museo Civico Revoltella di Trieste espone al pubblico una serie inedita di 24 disegni che Zoran Music
realizzò nel
1945, mentre era rinchiuso a Dachau. L’esposizione, intitolata ”Zoran Music. Occhi vetrificati”, è promossa dal Comune di Trieste, Assessorato
alla Cultura e curata da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del servizio Musei
e Biblioteche. Zoran Music, considerato uno dei più grandi artisti
internazionali e del Nordest, è nato a Bukovica, oggi Slovenia, vicino a Gorizia, nel 1909, sotto la Defonta (ex Impero asburgico) ed è morto a Venezia nel 2005.
Per chi non lo sapesse è da dire che Trieste era già nota
quale porto di transito e di partenza per la Palestina da parte di emigranti
ebrei polacchi e russi sin dal 1908, come ha scritto Marco Bencich. In quel
periodo fu costituito un Comitato d’aiuto per emigranti ebrei. La Casa degli
Emigranti fu inaugurata nel 1923, divenendo una delle strutture più moderne in
Italia, riconfermando Trieste quale “Porta di Sion” (p. 228).
La sede della Comunità ebraica è in Via del Monte, come
scrive Livio Sirovich (p.14). È in quell’edificio triestino che viene data
assistenza a decine di migliaia di ebrei del Centro Europa: tedeschi,
austriaci, boemi, polacchi, ungheresi, lituani, ucraini, croati ed altri
(p.15). Essi vengono imbarcati per la Palestina o per le Americhe; ecco perché
Trieste per tutte queste comunità ebraiche è l’accesso alla salvezza, o Porta di Sion, sempre secondo Sirovich
(p.110).
Tra il 1933 e il 1940, secondo Fabio Amodeo e Mario J.
Cereghino, sono 121.391 gli israeliti partiti da Trieste in nave verso la
Palestina; sono essi in gran parte dell’Europa centro-orientale (p. 10).
In ogni caso i profughi germanici accolti in Italia sono poco
meno di 18 mila, in prevalenza ebrei, dei quali almeno 5.000 provenienti
dall’Austria. A partire dal 1933 gli esuli di lingua tedesca sono quasi mezzo
milione e 135 mila gli austriaci, dopo l’Anschluss del 1938, come hanno scritto
Köstner e Voigt (p. 13).
Come mai Trieste diviene dagli inizi del Novecento la Porta di Sion per l’emigrazione verso la
Palestina con cifre così imponenti? La spiegazione viene fornita da Silvia
Cuttin. Uno dei motivi, se non quello principale, è che la compagnia di
navigazione del Lloyd Triestino attrezza le sue navi con uno spazio per il
culto (la sinagoga) e con la cucina kasher. Allora tutti gli ebrei polacchi,
ungheresi e tedeschi che si imbarcavano dapprima a Odessa spostano il loro
luogo di partenza a Trieste. Tra il 1920 e il 1943 partono dal porto giuliano
150 mila ebrei su navi dai nomi attraenti – scrive la Cuttin – come: Jerusalem,
Galilea, Tel Aviv (p. 335, nota IV).
Silvia Cuttin aggiunge un dato assai interessante nel suo
“romanzo-saggio” del 2012. Accade, infatti, che nel 1937 un centinaio di
giovani ebrei liberati dal Campo di lavoro di Dachau, attivo, come si sa dal
1933 per dissidenti politici antinazisti, transitino per Fiume (p. 65). Essi furono
ospitati per un po’ di tempo in un albergo di Abbazia e poi nei magazzini del
porto franco fiumano, con l’aiuto della Comunità ebraica locale. Con tutta
probabilità essi passarono per le stazioni di Tarvisio, Udine, Gorizia e Trieste.
Con tutto ciò si vuol dire che pure le stazioni minori di Gemona, Tarcento e
Manzano, nel 1937, vedono il passaggio di questi ragazzi ebrei fuoriusciti dal
lager di Dachau, già in possesso del visto delle autorità britanniche per
emigrare in Palestina, ma senza la nave.
I profughi in fuga dall’Europa orientale – aggiunge la Cuttin
a p. 333, nota III – e di passaggio da Fiume, portavano con sé i racconti di
violenti episodi di antisemitismo e di pogrom. Gli ebrei italiani di Fiume non
fanno tesoro di quelle notizie tragiche, inclusa quella del Campo di lavoro di
Dachau, da cui provenivano quei cento ragazzi ebrei tedeschi in condizioni
penose. Nel 1938 il re e Mussolini firmano le Leggi Razziali e per gli ebrei
italiani di Fiume, di Trieste e del resto del Regno inizia un brutto capitolo.
Uno dei significativi disegni di Music appena ritrovati
dal professor Franco Cecotti tra le carte dell’Archivio dell’ANPI e in mostra a
Trieste al Revoltella dal 27 gennaio 2018.
Martino Goldstein, da
Fiume a Birkenau
Ora riporto un caso descritto da Silvia Cuttin nel suo libro
intitolato Ci sarebbe bastato. È
passato per la stazione di Udine anche Martino Goldstein, imprigionato dai tedeschi, nel suo
trasporto per il Campo di sterminio di Birkenau, vicino a Auschwitz, a sud
ovest di Cracovia. La sua famiglia aveva italianizzato il cognome in Godelli.
Egli era nato a Petrosani (Petrozsèny) nel 1922, nella Transilvania ungherese
da poco assegnata alla Romania. Dal 1928 egli viveva con la famiglia a Fiume. Il
25 gennaio 1944 è torturato nella sede della ex Distilleria Wortmann, a Sussak (pp.
179-181).
Dopo l’arresto, Martino passa una notte alla Risiera di San
Sabba, nel camerone al primo piano, con partigiani, donne e pochi ebrei. Caricato
sui vagoni bestiame sui binari presso Barcola, assieme a delle donne croate, slovene
e bosniache legate alla resistenza, è guardato a vista dai carabinieri. Poi i
tre vagoni con quel carico umano partono per il Campo di concentramento nazista.
A bordo c’è pure la famiglia Wertzler di Fiume. In altri vagoni sono stati stipati
gli anziani rastrellati alla Pia Casa Genilomo, ospizio della Comunità Ebraica
di Trieste (pp. 184-185).
Anche Martino Goldstein scrive un bigliettino per la famiglia
e lo lancia dal finestrino, sperando che alcune mani amiche facessero pervenire
le notizie alla sua famiglia. Il 2 febbraio 1944 arriva ad Auschwitz-Birkenau e
trova un Kapo di Capodistria. Più tardi
è inserito nel Kanadakommando, ossia
una sorta di magazzino dove gli addetti, tutti prigionieri, sotto il controllo
di poche Waffen SS, raccolgono i beni
personali dei deportati. “Avevamo il compito di gestire in maniera ordinata l’arrivo
dei treni” – Cuttin riporta così il racconto di Martino Goldstein, che si salva
(p. 211). Nel 1954 Martino emigra in Israele. Nel 1961, durante il processo Eichmann, gerarca delle Waffen SS, Martino
Godelli-Goldstein, pur chiamato, non ce la fa a testimoniare. Solo dopo quel
fatto comincia a raccontare la sua incredibile esperienza di deportato ebreo di
Fiume. Muore il 4 novembre 2014 a Nezer Sereni, in Israele.
Rodolfo Ehrlich. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza
Zio Rudi di Ugovizza,
dalla Wehrmacht alla prigione della Brigata Ebraica
La storia che sto per riportare ora sembra incredibile. Me l’ha
riferita Franco Rassati, di Ugovizza, frazione di Malborghetto Valbruna. Quando si narra che la provincia di
Udine, dal settembre 1943 appartiene al Terzo Reich, non ti credono. È storia,
ma non ti vogliono dar retta. Si chiama Zona di Operazioni del Litorale Adriatico, in tedesco Adriatisches
Küstenland. È comandata dal Supremo Commissario Rainer, che nominò dei “deutsche
Berater”, ossia dei consiglieri amministrativi dei prefetti italiani.
In certe zone dell’alta montagna, in provincia di Udine, dove
essere mistilingui è considerato oggi una ricchezza culturale, negli anni 1938-1939
pone i cittadini dinnanzi a dilemmi vitali. Con le cosiddette opzioni per il
Terzo Reich, i cittadini italiani di Tarvisio, Pontebba e Malborghetto
Valbruna, nella Val Canale, o Kanaltal, possono
optare per la Grande Germania, abbandonando l’Italia di Mussolini. Al nonno di
Franco Rassati piaceva l’Austria, così gli propongono un luogo che egli visitò, ma ritenne di non accettare. Molti altri valligiani optano. Alcuni di loro li spostano
dalla natia Ugovizza a un villaggio della Carinzia svuotato degli slovenofoni
in gran fretta. Il luogo del trasferimento è un po’ desolato. Quando entrano
nella casa assegnata, trovano ancora la minestra sul fuoco, segno che gli slovenofoni
erano stati cacciati senza ritegno. Delusi, ritornano a
Ugovizza, fregandosene di Hitler.
Documento d'identità del brigadiere Sante Rassati, 1944. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza
Le autorità naziste, tuttavia, non perdono tempo. “Nel 1944 –
racconta Franco Rassati – arruolano mio zio, che di nome fa Rodolfo Ehrlich,
nato a Ugovizza nel 1924 e deceduto nel 2004, solo che lo destinano al fronte
russo e finisce tra Finlandia e Norvegia, con temperature di 20-30° sotto zero”.
È duro resistere a quello stato di cose. Qualche camerata sceglie il suicidio,
sparandosi in bocca. Lo zio Rodolfo Ehrlich riesce a tornare a casa nel 1945,
ma viene arrestato dai militari della Brigata Ebraica, di pattuglia a Tarvisio.
Così catturato viene portato al Campo di concentramento di Rimini. Riesce a
venirne fuori anche da lì, poi i racconti sulla Finlandia diventano pane
quotidiano nelle osterie dell’ameno paesino di montagna.
Dal testo nel web di Elvio Pederzolli, intitolato Campi di concentramento in Italia, si
legge a p. 31 che “a Rimini / Miramare, fino al 1946, viene istituito dagli alleati il PW 370, con i
complementari campi di: Aeroporto, Belluria (due campi, n.11 e n. 14), Cervia, Cesenatico,
Forlì, Igea Marina e Polesella”.
Anche il padre di Franco Rassati che di nome fa Sante Rassati,
nato a Socchieve il 1° novembre 1903, è inquadrato col grado di brigadiere
nella Milizia per la Difesa Territoriale, Battaglione confinario di Tolmezzo,
al comando del Maggiore Odorico Rieppi. Nei suoi documenti d’identità, bilingui
(italiano e tedesco) è stampato che “appartiene al supremo Capo delle SS”, con
tanto di timbro con svastica e aquila nazi. L’Italia della RSI comincia a San Michele al Tagliamento.
Facciata anteriore della tessera di riconoscimento del brigadiere Sante Rassati, 1944. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza
Fonti archivistiche
Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura di Udine, Categoria A 12, Stranieri, b 1.
Fonti orali
Per la cortese disponibilità dimostrata, desidero ringraziare
e ricordare le seguenti persone da me intervistate a Udine con taccuino, penna
e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.
1) Giannino Angeli, Tavagnacco, provincia di Udine, 1935,
intervista telefonica del 14 ottobre 2016 e del 5 gennaio 2018.
2) Caterina Eleonora Bernardinis, Rina (Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova 1908 – Udine
2010), int. del 24 ottobre 1995.
3) Iris Bolzicco, comunicazione del 26 e 28 gennaio
2018.
4) Miranda Brussich, vedova Conighi (Pola, 11 agosto 1919 –
Ferrara 26 dicembre 2013), esule da Fiume nel 1946, int. a Ferrara del 3 giugno
2002, del 24 aprile 2008 e del 21 agosto 2013.
5) Claudio Calligaris, Udine 1954, int. del 19 gennaio 2017.
6) Rodolfo Decleva, Fiume 1929, messaggio in Facebook del 27.1.2018 nel gruppo “Un Fiume di Fiumani”.
7) Paola De Wrachien, Udine 1940, int. del 9 maggio 2017.
8) Fabio Galimberti, Udine 1961, messaggio in Facebook del 24
gennaio 2017.
9) Fernanda Revelant, Udine 1928, comunicazione del 26 e 28
gennaio 2018.
10) Fabiola Modesto Paulon, Fiume 1928, int. del 5 e del 13
aprile 2016.
11) Franco Rassati, Ugovizza, 1948, int. del 23 e del 30 gennaio
2018.
12) Giovanna Roiatti, Udine 1955, messaggio del 15 gennaio 2018, sui ricordi della madre Annamaria Rojatti, Udine 1931.
13) Antonio Nini Sardi, Fiume 1931, messaggio in Facebook,
del 27.1.2018, nel gruppo “Un
Fiume di Fiumani”. Sardi è presidente dell’ANVGD di Novara.
14) Mario Simeoni, Tarcento 1935, int. del 27 gennaio 2018 a
Tarcento (UD).
15) Aldo Tardivelli, Fiume 1925, esule a Genova, int. telefonica
e per e-mail nel periodo 20-27 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio
Ausilio, dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD)
di Arezzo.
16) Egle Tomissich, Fiume 1931, int. del 5 e del 19 dicembre
2017.
17) Annalisa Vucusa, Vimodrone (MI), 1949, con papà di Zara, int.
del 7 marzo 2015.
Udine, Scalo ferroviario di Via
Pradamano - Via Buttrio (zona di Baldasseria), guardando a nord. In questo scalo merci, nel 1944-1945
sostavano i vagoni carichi di deportati e di ebrei provenienti dalla Risiera di
San Sabba, in attesa di essere attaccati ai convogli per l'Austria e per Auschwitz. Foto del 2016.
Bibliografia, fonti
originali e ringraziamenti
Sono riconoscente alla professoressa udinese Anna Ghersani
Durini, nata a Monza con mamma di Fiume, per avermi messo a disposizione, nel
mese di dicembre 2015, la Autobiografia con fatti di Fiume dello zio Iti Mini,
col consenso dei familiari alla diffusione. Molti ringraziamenti devo poi alla
professoressa Gabriella Bucco per avermi comunicato i dati ed altri documenti
sulla storia da valorizzare e diffondere dei Coniugi Mistruzzi Jaiteles
dichiarati Giusti delle Nazioni a Gerusalemme nel 2007. Sono grato all'architetto Giorgio Ganis per la collaborazione nella ricerca delle immagini del presente saggio.
Ringrazio poi il personale e la direzione delle seguenti
biblioteche, archivi, musei ed istituti, dove ho potuto effettuare le mie
ricerche: Archivio di Stato di Udine; Archivio Osoppo della Resistenza in
Friuli, Udine; Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine; Biblioteca del Seminario
arcivescovile “Mons. Pietro Bertolla”, Udine; Biblioteca della Società
Filologica Friulana, Udine; Istituto Friulano per la Storia del Movimento di
Liberazione, Udine; Biblioteca Civica “E. Buiese”, Martignacco, provincia di
Udine.
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2015, pp. 2.
- Iti Mini, Autobiografia,
Moggio, provincia di Lecco, 1994, dattil., pp. 4, Collezione famiglia Mini,
Milano.
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dalla biografia [sui treni di deportati a Tarcento, 1943-1945], 2018,
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- Aldo Tardivelli, Un’amica
ebrea, testo videoscritto in formato Word, 2006, p. 1-5.
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1987 (traduzione italiana: Gli ebrei
sotto la dominazione nazista. Carinzia Slovenia Friuli Venezia Giulia,
Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 1991).
Un altro dei significativi disegni di Zoran Music appena ritrovati dal professor Franco Cecotti tra le carte dell’Archivio dell’ANPI e in mostra a Trieste al Museo Revoltella dal 27 gennaio 2018.
Filmografia
Sitologia