Ecco un tragico racconto scritto da Dino Radolovich, nato a Marzana (Pola) nel 1947 e dimorante al Crp di Laterina (AR) dal 1957 al 1960, poi in quello di Tortona (AL) prima di approdare a Seriate (BG). Lo ringraziamo per questo originale brano di grande umanità. È la dimostrazione pratica dell’integrazione dei profughi giuliano dalmati nell’ambiente aretino degli anni ’50, che li spinge a tentare di salvare un giovane autoctono annegato nell’Arno. Non è la prima volta che un giuliano dalmata si tuffa nelle acque del fiume per salvare dall’annegamento un aretino. Teresa Arrigucci, classe 1919, di Laterina nel 2004 ha ricordato di essere stata salvata da “una slava profuga” nell’Arno, dov’era caduta, con la figlia, rischiando di affogare dopo il cedimento di una passerella; vedi pag. 24 di Mentre l’Arno scorreva, edito dal Comune di Laterina, in Bibliografia. Mi è capitato di parlare con la bambina salvata in quel frangente. Si chiama Silvana Rossi, poi maestra pure lei e amica degli esuli di Zara. “La donna che ci ha salvato dall’affogamento – ha detto la maestra Rossi – si chiamava Gigliola, poi da Laterina emigrò a Genova; ci si telefonava e me la ricorderò sempre”. Vedi: La patria perduta, p. 58.
Dino Radolovich è autore di: Senza patria, Parma, Helios edizioni,
2021, disponibile nel web. È un libro che tratta le vicissitudini personali e
di migliaia di famiglie istriane divenute profughe quando, nel 1947, l'Istria
(oggi regione della Croazia) passò dal Regno d'Italia alla Jugoslavia di Tito,
oltre a descrivere la vita tribolata nei Campi profughi. Dino Radolovich, nei
contatti intrapresi per la presente diffusione nel blog, mi ha comunicato di
essere transitato per il Centro smistamento profughi di Udine, da dove passano
oltre 100mila esuli, dal 1945 al 1960.
Le fotografie del Crp di Laterina sono di
Dino Radolovich (ANVGD di Bergamo). Quelle della lapide di Antonio Chini,
ricercata nel 2015 da Claudio Ausilio Manlio Giadrossich e Claudio Picchioni,
nipote di Egidio Rocchi, esule di Rovigno, sono dell’ANVGD di Arezzo. (a cura di Elio Varutti).
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Noi ragazzi del C.R.P. di Laterina non ci si
annoiava mai: eravamo talmente tanti che qualche passatempo lo si trovava
sempre, specialmente nel periodo estivo. Ma non eravamo mai tutti insieme, si
formavano sempre dei gruppetti spontanei a seconda di ciò che qualcuno di noi
proponeva di fare. Questo, però, succedeva solo qualche giorno dopo l’inizio
delle vacanze scolastiche, quando ci si rendeva conto che non c’erano più i
compiti da fare.
Si cominciava sempre col gioco a carte, il
solito sette-e-mezzo, per vincere i giornalini che ogni giocatore metteva in
palio. Il posto prescelto era, per lo più, lo spazio antistante la baracca 21
che sino alla fine dell’anno scolastico 1956-1957 era occupata dalla maestra
Pasqua Benvegnù Sponza e la sua famiglia. Dinanzi all’abitazione c’era una
stretta aiuola e qualche pianta che ci forniva una giusta ombra, e per di più
la baracca si trovava in una zona centrale del campo e quindi ben visibile a
tutti gli interessati.
Con l’avanzare delle belle giornate nei
gruppi avveniva un’ulteriore suddivisione: c’erano quelli che andavano a fare
le prime nuotate nell’Arno mentre altri preferivano dedicarsi alla pesca e
portare, trionfanti, alle mamme le proprie prede infilate in un rametto di
ginestra. Al pomeriggio e fino all’ora di cena ci si dedicava al gioco del
pallone, ma non sempre sul campo centrale (bello grande, pianeggiante e con le
porte vere) ma sul praticello di fianco alla nostra chiesetta perché il “vero”
campo se lo accaparravano i giovanotti che si dovevano allenare per le sfide
contro le squadre dei paesi vicini.
Solamente al campicello mi accorgevo che al
nostro Centro, oltre a noi maschietti, c’erano pure le femminucce che facevano
dei giochi che a noi non interessavano per niente. Per la verità me n’ero
accorto benissimo che in classe c’erano pure loro, ma una volta fuori dalla
scuola è come se sparissero, perché elettrizzato dalle nuove compagnie e dai
nuovi passatempi non mi rendevo minimamente conto che ci fossero anche loro.
L’inizio delle vacanze dell’anno 1958, però,
non sono riuscito a godermele completamente perché, avendo voluto frequentare
le scuole medie, all’esame d’ammissione sostenuto ad Arezzo ero stato rimandato
a settembre. E sì che per essere ben preparato avevo cominciato a ricevere
lezioni private già prima dell’inizio del terzo trimestre.
Io ero l’unico profugo con queste “grandi”
mire di studio, però avevo scoperto subito che ero sì l’unico profugo ma non
l’unico del Centro con queste intenzioni. Nella mia classe, infatti, c’era un
altro ragazzo di quinta che vedevo piuttosto isolato, alla mia sinistra, in
fondo al tavolaccio che ci serviva da banco, e che parlava l’italiano bene come
la nostra maestra. Diceva le doppie proprio come bisognava pronunciarle, solo
alcune parole che iniziavano con la lettera “C” le pronunciava come fossero
delle “H”, ma la maestra sembrava non badarci. Questo ragazzo si chiamava
Antonio, era un tipo tranquillo, non ha mai giocato a carte con noi, abitava
dietro alla chiesa nella baracca 18 e si univa al nostro gruppo solo quando
giocavamo a pallone nel campetto che confinava col suo alloggio. Mi ricordo
che, come sentiva i nostri schiamazzi, usciva di casa e dopo un minuto veniva
fuori anche la sua mamma tenendo per mano una bambinetta.
Antonio Chini, immagine dalla lapide. Fotografia di Claudio Ausilio del 2015
Mai avrei pensato che questo coetaneo e
compagno di classe sarebbe diventato presto uno dei miei più affiatati amici,
nemmeno quando, una sera, mio padre mi disse che per andare alle medie avrei
dovuto esprimermi in italiano puro e non in dialetto triestino e che per questa
ragione aveva contattato un maestro di Laterina. E fu sempre quella sera che mi
riferì, oltretutto, che sarei andato assieme ad Antonio che era (lo seppi
proprio allora) il figlio del magazziniere signor Chini, toscano purosangue,
responsabile del magazzino da cui uscivano e rientravano i materiali necessari
ai profughi: brande, coperte, stoviglie, sedie e tavoli (se ce n’erano). Era
proprio il periodo in cui mio padre dava una mano in quel magazzino ed era
diventato amico e braccio destro del responsabile così come io divenni subito
amico del figlio.
Da quel momento io e Antonio divenimmo
inseparabili. Andavamo e tornavamo sempre assieme dal maestro Carlo Staderini
che abitava in una bella casa subito sotto il paese, di fianco alla strada che
scende verso la via Aretina e appena poco prima delle scuole elementari.
Ricordo che oltre a noi due c’erano altri due ragazzi con questo problema delle
lezioni supplementari: uno, di nome Giorgio, disse di essere figlio del
guardiano della centrale elettrica, il secondo era un nipote del maestro Carlo
e si chiamava Egisto. Era la prima volta che sentivo il nome Giorgio e mi
piaceva come suono; il nome Egisto, invece, mi dava un senso di severità e mi
sembrava adatto a persone importanti e non a un ragazzo.
Loro tre mi sembrarono molto più preparati di
me, lo confidai ad Antonio subito il primo giorno che stavamo tornando a casa e
lui m’incoraggiò dicendomi che ce l’avrei fatta di sicuro anch’io. E mi
confidò, in quello stesso giorno, che lui avrebbe voluto diventare un sacerdote
e per questo motivo, per frequentare il seminario, doveva andare alle medie.
Sia all’andata che al ritorno facevamo lo
stesso percorso: usavamo un viottolo, lastricato con ciottoli di fiume, che a
pochi metri dall’uscita del campo profughi saliva quasi dritto verso Laterina
sbucando vicino a un pianoro che i ragazzi del paese adoperavano come campo da
gioco. Mi ricordo che delle volte si fermavano in quello spiazzo anche dei
piccoli circhi e delle giostre. Io e Antonio ci andammo un paio di volte: una
volta al circo e l’altra alle giostre. Queste ultime ci divertirono di più
perché facemmo tanti “giri premio” vinti afferrando un pupazzetto che veniva
appeso in alto sopra il giro che compivano i sedili. Antonio stava sul
seggiolino dietro al mio e al momento opportuno mi dava una bella spinta e io,
distendendomi, riuscivo a prenderlo.
Mi è rimasto però sul gozzo una melagrana che non riuscimmo a gustarci. La pianta di melograno era cresciuta nella siepe del viottolo che percorrevamo ogni giorno e quel frutto l’abbiamo visto crescere e maturare. Se non che, rimanda oggi rimanda domani per coglierlo alla maturazione giusta, successe che qualcuno ci precedette e se lo gustò al posto nostro. Ci guardammo sconsolati e ci promettemmo che la prossima volta non avremmo più fatto un errore simile.
Purtroppo, quella promessa non servì a molto
perché alla fine di quell’anno scolastico (1957-1958) avvenne un fatto che
nessuno di noi due avrebbe minimamente immaginato: era estate piena, era una
calda domenica d’agosto e praticamente tutti gli ospiti del nostro Centro erano
a rinfrescarsi sulle sponde dell’Arno. Io, mio fratello e altri amici
sguazzavamo nel fiume andando un po’ di qua e un po’ di là, senza un posto
fisso. A un certo punto vedemmo, nella zona dei pioppi, un’agitazione strana:
persone che s’incrociavano tra loro, confabulavano e poi correvano verso il
Campo, altre che dal Campo correvano verso i pioppi.
Cos’era successo nella zona dei pioppi? Ci
chiedemmo preoccupati e curiosi.
Quel giorno erano andati a prendere il fresco
all’ombra di quegli alberi anche i miei genitori; decisi allora di raggiungerli
per chiedere cosa stesse succedendo. Arrivato là, tra la sponda destra
dell’Arno e i filari dei pioppi vidi subito i miei genitori che schiacciavano
la schiena di un bambino, poi lo rivoltavano e gli schiacciavano il petto, lo
mettevano a gambe in su e lo battevano ancora sul petto e sulle spalle. Mi feci
spazio tra la gente e raggiunsi i miei: stavano cercando di salvare il mio
amico Antonio. Non mi servì chiedere cosa fosse successo, era ben chiaro: era
annegato.
I commenti della gente erano i più svariati:
probabilmente aveva appena mangiato, forse aveva battuto la testa, avrà trovato
della corrente più fredda, magari era il cuore… Dopo un po’ arrivò anche il
dottor Fiore, il medico del Campo; fece distendere il bambino all’ombra, gli
controllò le pupille, guardò i miei (supponendo che fosse il loro figlio) posò
la mano sulla spalla del mio papà e disse scuotendo la testa: “Non c’è più
niente da fare”. Guardando la gente radunata intorno, allargò le braccia come
per scusarsi e se ne andò facendo lo slalom tra i presenti rimasti tutti
scioccati.
Il dottore aveva senz’altro ragione, lui
aveva studiato, sapeva se c’erano ancora speranze o meno, ma mio padre, memore
forse della sua esperienza di quando si era bruciato da soldato e del
comportamento dei medici in quell’occasione, non si arrese. E nemmeno mia
madre. No! Non potevano rinunciare così; forse il dottore si era sbagliato,
forse si poteva ancora risvegliare quel corpicino inanimato che adesso, coi
muscoli rilassati e non rispondenti agli stimoli, mi sembrava più piccolo di
come era in realtà.
Fecero di tutto per farlo tornare a
respirare: gli chiudevano il naso e gli soffiavano in bocca, gli schiacciavano
ritmicamente il petto, gli muovevano contemporaneamente le braccia e le gambe,
lo mettevano con la pancia per terra e premevano sulla schiena, con le gambe
per aria e davano delle pacche sul sedere come ai neonati in sala parto. Erano
sudati e stravolti, e ansimavano.
Sapevo che mio padre aveva letto libri e
aveva imparato tante cose, ma mia madre non la immaginavo così esperta
nell’eseguire tutte quelle azioni in perfetta sincronia col papà.
A un certo punto due dei presenti, con gli occhi lucidi, s’avvicinarono a mio padre e gli appoggiarono, con grande rispetto, una mano sulla spalla dicendo: «Radolovich, xe tuto inutile. Lassèmolo ai sui» [Radolovich, è tutto inutile. Lasciamolo ai suoi (genitori)]. Dov’erano i suoi, per la verità, non lo so. Forse erano lì accanto ma io non li vidi, forse avevano fiducia nei miei e non osavano intervenire.
In mezz’ora, non so come, la notizia si sparse per tutto il Campo e oltre; vidi arrivare tante persone da Laterina e fra queste anche il nostro maestro Carlo Staderini con la sua Lambretta azzurro chiaro. Ma non ho proprio presenti i genitori di Antonio. Il funerale si svolse nella loro città, ad Arezzo.
Quando trent’anni anni dopo ritornai a vedere il nostro Campo, volli arrivare sino all’Arno e naturalmente sino ai pioppi. Le sponde del fiume mi sembrarono melmose e l’acqua torbida; non c’era più il boschetto ordinato dei pioppi e non avrei saputo riconoscere neanche il punto dov’era successa la disgrazia se non fosse stato per una piccola lapide di marmo, con la foto il nome e cognome, messa dalla famiglia di Antonio per ricordare il figlio agli amici del Campo che cercarono di salvarlo.
La piccola lapide era abbandonata e quasi
coperta dai rovi, dall’erba alta e dalle zolle dei campi arati.
Nessuno più la vede, nessuno più ricorda
l’accaduto. Forse solo noi del Campo che, quando possiamo e per non dimenticare,
almeno una volta siamo tornati in seguito a rivedere il nostro primo impatto
con la terra d’Italia.
Dino Radolovich
Cenni
bibliografici e di sitologia
- Comune di
Laterina, Scuola Primaria di Laterina, Istituto Comprensivo “F. Mochi” di
Levane, Mentre l’Arno scorreva. Memorie
orali sull’Arno e i suoi affluenti raccolte nel territorio di Laterina,
Arezzo, 2006.
- Giuliana Pesca, Serena Domenici, Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina
1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze
d’Africa, Città di Castello, Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”,
Edizioni NuovaPrhomos, 2021.
- Dino Radolovich, Senza
patria, Parma, Helios edizioni, 2021.
- E. Varutti, La
patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi
Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Aska edizioni, Firenze, 2021.
- E. Varutti, L’esodo di Egidio Rocchi da Rovigno al Centro profughi di Laterina e Torino, 1949,
on line dal 5 dicembre 2021 su varutti.wordpress.com
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Note – Autore principale: Dino Radolovich, ANVGD di
Bergamo. Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo.
Altri testi di: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro
storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo,
Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Dino
Radolovich. Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e
documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni
private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia
(ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29
– primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine. –
orario: da lunedì a venerdì ore
9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di
Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara
Rossi. Sito web: https://anvgdud.it/
Grazie Varutti grazie Ausilio. E' una storia che non ho avuto il coraggio d'inserire nel mio libro e mi commuove ancora.
RispondiEliminaIo sono quello col pallone davanti e mio fratello è il secondo da destra.
Prego, gentile Dino Radolovich; è stato molto coinvolgente pure per noi dell'ANVGD di Udine, nonché per gli amici della Delegazione ANVGD di Arezzo e per molti Laterinesi.
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