Proponiamo la lettura di un recente testo sull’esodo scritto da Edoardo Radolovich, Secretariovi, nato nel 1948 a Ciòlin / Dvori, comune di Castellier-Santa Domenica / Kaštelir-Labinci, vicino a Parenzo. Si tratta di una famiglia contadina istriana di sentimenti serbo-croati, come si diceva al tempo della Jugoslavia, che non ce la fa più a stare sotto Tito dal punto di vista economico, oltre che politico. Nel 1954 Giovanni, il capofamiglia, classe 1920, chiede i documenti per emigrare, pagando un’alta cifra, con l’aiuto dei parenti, ma perdendo la casa, la stalla e i campi di Marzana. Poi nel 1956 c’è la partenza in treno per Trieste, ritornata all’Italia nel 1954. Il bambino Edoardo transita con i familiari al Centro smistamento profughi di Udine, dove vengono destinati al Centro raccolta profughi di Laterina (AR). La famiglia, infine, è residente a Spinea (VE), dove con la scuola, il lavoro, la casa popolare ed i risparmi tutti i Radolovich si sistemano. Ringraziamo l’Autore per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle sue peripezie da bambino nella guerra fredda, preoccupato più del suo gatto istriano che della vita nelle baracche di Laterina. È pieno di tenerezza il brano dove racconta che in tre scolari escono dal Campo, in estate, per andare a trovare la maestra Giulietta Del Vita di Montevarchi, perdendosi nella notte. Diffondiamo queste storie convinti come siamo che lo spirito europeo pervade l’Istria, Fiume e la Dalmazia, oggetto di spartizione nazionalista nel Novecento. In parentesi riquadrate sono segnate alcune note di spiegazione. (a cura di Elio Varutti).
“Eravamo nel dopoguerra
e con Tito presidente, ma l’attenzione alle cose politiche era ancora
altissima. Non tutto funzionava ottimamente, come dappertutto, ma la mancanza
di libertà di espressione era quella che pesava di più sulla gente. Il fatto
che non vedevano di buon occhio chi frequentasse la chiesa o il controllo
subdolo di chi parlava o criticava il regime non piaceva a nessuno”. (Edoardo
Radolovich, Dvori. Breve storia di un
bimbo Slavo con genitori Italiani e nonni Austriaci, pp. 22-23).
“Era arrivato, nostro
malgrado, il triste momento in cui ci dovemmo trasferire. Così, a malincuore,
lo lasciammo a casa [riferito al gatto, NdR] come i parenti, gli amici e tutta
una vita di ricordi. Una zia, sorella della mamma, si prese cura di lui
semplicemente portandogli da mangiare. Non potevamo pretendere che lo adottasse
ma i fatti hanno dimostrato che non sarebbe stato possibile”. (p. 28).
“Lo stipendio di papà
era composto da un 50 per cento di paga e l’altro 50% di assegni familiari che
magari male, ma ci facevano campare. Ad un certo punto il governo decise di
togliere gli assegni a chi aveva qualche terreno e noi eravamo tra questi. Chi
conosce le zone sa che ci sono più rocce che terra e la resa è minima. Per dire
che non ci facevano certo arricchire quei quattro campi. Insomma si cominciava
a fare la fame e così, d’accordo anche con altri parenti, i nostri genitori
decisero di chiedere i passaporti ed andarsene. Ci vollero due anni per averli
pagando pure molto. Solo con l’aiuto del fratello Toni, che faceva l’autista
per l’azienda di Pola, mio padre riuscì a racimolare l’importo necessario. Una
volta in possesso dei documenti chiese di andare in Francia che, a quanto
sembra, non ci volle. In Italia sì, come profughi. Poi venni a sapere che per
ottenere il passaporto mio padre dovette firmare una rinuncia a tutto ciò che
aveva. In parole povere lasciammo tutto: casa, vigna, orto, campi, bosco e pure
il povero gatto rimase lì. Non so quali leggi internazionali potessero
consentire ciò, ma fu esattamente così. Lavoro, sudore e morte del nonno
buttati al vento o meglio lasciati a Tito” (pp. 29-30).
“Vicino a Dvori [Campi,
NdR], in un terreno di proprietà del nonno poi di zio Giuseppe (Sip), c’è una
foiba il cui ‘ingresso’ è riconoscibile perché attorno ci sono arbusti ed
erbacce in quanto il taglio dell’erba o la sola manutenzione dell’area viene
fatta tutto intorno senza avvicinarsi troppo al “buco” (…). “Anche un Carlo
Radolović di Marzana / Marčana fu infoibato, ma mai ho sentito racconti
sull’accaduto, dai parenti o amici. Solo in qualche libro o in Internet ho
trovato notizie”. (p. 16).
“La decisione era presa
e così facemmo i preparativi vendendo quello che si poteva e facendosi prestare
qualche dinaro dai fratelli di nostro padre che lì rimanevano. I giorni prima
della partenza ci fu una processione di parenti ed amici per i saluti di rito. Mentre
i genitori si scambiavano parlavano scambiandosi ancora opinioni su cosa fosse
meglio fare noi bambini giocavamo storpiando le parole fingendo così di parlare
in italiano. Arrivò il giorno della partenza senza che noi sapessimo neanche
una parola di italiano mentre, si sa, i nostri genitori e tutti gli altri
adulti le conoscevano entrambe. Oltre a noi partirono: i nonni materni, Pietro
Cerlenizza e Maria Pletikos con i figli Carlo, Antonio, Maria, Mirella,
Miriana. Restarono Ljuba e Lidia. I Radolović rimasti furono, Antonio, Giuseppe
ed Anna, perché Maria con il marito Pietro ed i due figli (Dino e Danilo) ci
raggiunsero più avanti. [Sulla vicenda di Dino Radolovich, cugino dell’Autore,
vedi in Bibliografia]. Il pomeriggio del 4 gennaio salimmo sul treno a carbone
che ci portò a Trieste poi Udine quale centro di smistamento. Anche con i
finestrini chiusi entrava la fuliggine e anneriva tutto lo scompartimento. Non
dormii mai e guardai fuori dal finestrino per tutta la notte anche se l’unica
cosa che si vedeva era qualche luce fioca in lontananza. Forse stavo prendendo
coscienza di quello che stava accadendo. Non c’era più voglia di ridere o
scherzare ma solo nostalgia della mia casa e del mio gatto che non avrei più
visto” (p. 30).
“Arrivati a Udine abbiamo
dormito una notte su un letto quasi vero poi la mattina seguente siamo
rimontati sul treno che ci ha portato a Laterina in provincia di Arezzo. Di
questa seconda parte di viaggio non ricordo niente (p. 31).
L'arrivo al Crp di Laterina - “L’entrata era
delimitata da due pilastri e probabilmente un tempo c’era anche una sbarra ed
una garitta per il piantone dato che è stato un campo di detenzione bellica,
poi reclusorio sotto i nazisti ed ancora campo di concentramento per tedeschi.
Dal 1946 al 1963 come campo profughi dell’Istria, Fiume e Dalmazia. Entrammo
nel CRP senza parlare con mio padre e la mamma che trascinavano le tre valigie
come unico bagaglio con cui eravamo partiti. Lì dentro c’era tutto quello che
avevamo ed eravamo riusciti a portare con noi. Sono convinto che tutti e
quattro ci chiedessimo perché eravamo lì. Soprattutto noi bambini che non
conoscevamo le vere motivazioni che ci avevano portato a lasciare tutto ciò che
avevamo per andare in quel posto desolato pieno di baracche. Entrando si
intravedevano alcune casupole qua e là che poi incominciammo a conoscere. C’era
un piccolo negozio, un bar, gli uffici della direzione, l’asilo, la scuola ed
altre costruzioni utili alla comunità. Più avanti, sulla sinistra la schiera di
baracche tutte uguali con in fondo la chiesa ed in mezzo un campo da calcio con
porte senza reti. Gli spazi all’interno delle lunghe baracche erano suddivisi
da coperte militari appese a filo di ferro che creavano così delle piccole
unità un cui risiedevano le famiglie. I letti erano brande militari a castello
ed il servizio igienico ubicato all’esterno in fondo alla costruzione. (p. 31).
“Finestre fatiscenti e
solaio di copertura a vista contribuivano a rendere impossibile un minimo di
riscaldamento degli ambienti che erano veramente freddi, o meglio invivibili. Qualche
fornello elettrico qua e là per cucinare completava l’arredo. Questa la nostra
nuova casa. Per le prime necessità ci veniva data una indennità che era pari a
quella dei militari di leva ovvero poche lire senza considerare che quest’ultimi
avevano vitto, alloggio e vestiario gratis. Questi edifici erano situati nella
piana vicino alle rive dell’Arno da cui si vedeva, in collina, il paese di
Laterina dove, a volte, si andava a far spesa percorrendo una strada sterrata
molto ripida che però faceva arrivare prima. Il campo da calcio al centro del
complesso era il punto di ritrovo dei ragazzi e d’estate non c’era neanche un
filo d’erba tanto era usato. Verso la fine del campo la chiesetta dove
radunarono bambini e ci fecero vedere il film di Fatima [Nostra Signora di Fatima, 1952]. Era la prima volta che vedevamo
uno spettacolo del genere”.
“Dopo poco alcuni
uomini, tra cui mio padre, andarono a fare un corso da muratori. L’Arno era la
migliore attrazione sia per la possibilità di fare il bagno sia perché comunque
l’acqua ha sempre il suo fascino. In certe ore, d’estate, era possibile
guadarlo ma verso sera era pericoloso perché aprivano una diga a monte e
l’acqua saliva. Molti ragazzi purtroppo sono morti annegati in quel fiume.
Lasciando l’Istria abbandonammo pure la scuola che là iniziava a sette anni
mentre in Italia a sei. Mi trovai nella situazione di aver frequentato sette
mesi della seconda elementare in lingua slava e così nasceva il problema su
cosa fare. Pretendevano di farmi ricominciare dalla prima e cosi avrei perso un
altro anno ma mio padre si oppose fermamente tanto che continuai la seconda in
lingua Italiana. Mia sorella Laura aveva l’età giusta per la prima elementare.
Non fu facile per nessuno di noi due ricominciare da zero in lingua italiana,
ma i risultati sono stati lusinghieri. La mattina entravo in classe ed
ascoltavo, ma non capivo praticamente nulla. Niente comunque mi distraeva e
nulla mi sfuggiva di quanto dicesse la maestra, ma sempre scena muta feci per
vari giorni se non mesi. L’unico momento in cui mi rilassavo era quando faceva
aritmetica. Lì non serviva capire ma bastava conoscere i numeri ed intuire” (p.
32).
“A casa mi chiedevano
come andasse ed io rispondevo che tutto procedeva nel migliore dei modi. Tutti
tranquilli ma sapevo che avevano fiducia in me. Per agevolarci parlavano sempre
in italiano, ma assomigliava di più al dialetto veneziano, anzi triestino, come
direbbe qualcuno. Cosa che mai avevano fatto in Istria anche perché non era
consigliabile in quei tempi. Dopo qualche mese mi svegliai improvvisamente dal
‘coma’ e cominciai a collegare le parole tra di loro con i relativi significati
e mi bastò per iniziare la nuova vita in un nuovo paese. Ora mi fanno ancora
ridere i genitori che insistono nel parlare la lingua, che magari manco
conoscono bene, invece del dialetto pensando di aiutare i figli ad essere più
intelligenti”.
“Gli spazi del campo
erano delimitati dal lato est dall’ingresso e recinzione, dai lati sud e nord
da altre recinzioni. In particolare oltre la rete a sud c’era un campo
coltivato a tabacco. Piante affascinanti con altissime foglie almeno per un
ragazzino come me. L’unica via libera era quella che portava al fiume Arno che
distava pochissimi metri dal campo. La conformazione dell’insediamento, che in
pratica era chiuso, faceva sì che i miei genitori mi lasciassero uscire di casa
senza particolari problemi. D’altro canto era impensabile vivere nella baracca.
La libertà, l’ambiente e le compagnie mi fecero diventare un po’ selvaggio.
Stando tutto il giorno fuori era inevitabile qualche scaramuccia con gli altri
bambini soprattutto se provocato. Purtroppo succede spesso quando i ragazzi
sono troppo liberi. A me è costato un sasso in testa, dopo una disputa a
sassate, che mi vide tornare a casa tutto insanguinato, ma me la cavai con
qualche punto di sutura che mi fecero nell’infermeria presente in loco. La
situazione si ripeterà. In pratica se al centro del campo si elevava una nube
di polvere c’ero io che baruffavo con qualcuno e quasi sempre appariva mio
padre che vedeva la nuvola e mi separava dal rivale di turno (p. 33).
Sulle rive dell’Arno - “Più volte avevamo
notato che l’Arno in certe ore si abbassava di molto e consentiva quasi il suo
attraversamento, ma più che una nuotata non avevamo fatto niente di azzardato.
Studiata la situazione preparammo un progetto al fine di esplorare l’altra
riva. Così comprammo un paio di scatolette di carne ed un po’ di pane mentre il
terzo era addetto alle posate. La mattina partimmo con tutto l’occorrente ed
attraversammo agevolmente il fiume. Poi salimmo sulla collinetta che ci
trovammo davanti fino a trovare uno spiazzo dove mangiare la carne in scatola.
Tutto bene e tutto buono e non poteva essere altrimenti ma spingendoci un po’
più in alto trovammo una fattoria con delle oche. Credo che fossero più grandi
di noi e cominciarono a starnazzare e rincorrerci fino quasi a beccarci con una
cattiveria come non si era mai vista. Oche da guardia. Il tempo passava ed era
ora di tornare a casa e così facemmo. Guadammo l’Arno nel senso inverso ma, nel
frattempo, le dighe a monte erano state aperte e proprio nell’ultimo tratto
l’acqua era molto alta e così lo facemmo a nuoto. L’amico che portò le posate
ne perse una e si disperò per quello che poi sarebbe successo una volta a casa.
Si tuffò ma invano. Impossibile in un fiume trovare una forchetta”.
“A casa ci ritornammo
sani e salvi, ma oramai era già buio. Per la verità molti abitanti il campo
facevano quel percorso per andare a prendere l’acqua di una sorgente che aveva
il pregio di essere pure frizzante. La nostra maestra [Giulietta Del Vita] non
solo era brava, ma anche carina oltre che simpatica e per questi motivi eravamo
molto legati a lei. Parlando del più e del meno un volta ci disse che abitava a
Montevarchi che era un paese a nord di Laterina e distava 12-13 chilometri (p.
34).
“Era un giornata estiva
e con il solito gruppetto camminavamo sulle sponde dell’Arno quando mi venne
un’idea malsana. Andare a trovare la maestra e facendo un piccolo calcolo in
due ore potevamo essere a Montevarchi. Oramai l’aritmetica e la logica erano il
nostro pane. Continuammo lungo il fiume ma non era molto agevole anche perché
ogni tanto c’era un torrentello che si immetteva e per noi era impossibile
attraversarlo se non andare in cerca di qualche ponticello. Così però avremmo
perso troppo tempo e già eravamo partiti a pomeriggio inoltrato. Decidemmo
altresì di raggiungere la strada statale che stava poco più su. Camminammo
molto ai bordi della stessa con qualche macchina che passava ogni tanto, ma a
dire il vero erano pochissime in quel periodo. Dopo qualche ora arrivammo alle
porte del paese ovvero dove c’era il cartello stradale con su scritto Montevarchi”.
“Tutti felici (eravamo
in tre) guardammo il cartello, ma le luci stradali in quel momento si accesero
e ci rendemmo conto che era quasi sera. Invertimmo velocemente la marcia e
seguendo la strada ci incamminammo verso Laterina. Dopo un paio di ore era
completamente buio ed eravamo scoraggiati anche se non proprio impauriti.
D’altro canto avevamo circa otto-nove anni ed impreparati a tutto o quasi.
Qualcuno di noi stava per disperarsi e minacciava di buttarsi sotto una delle
poche automobili che passavano di lì” (p. 35).
“Nel frattempo, abbiamo
saputo dopo, che nel campo c’era una grande agitazione perché tre ragazzi
mancavano all’appello e la paura più grande era che fossimo annegati come molti
altri purtroppo. Tutto un via vai di gente che non sapeva che fare se non
avvisare le autorità della scomparsa dei bambini. Noi intanto camminavamo
sconsolati perché, mentre all’andata e di giorno il tragitto sembrava facile e
veloce, la sera era tutto diverso. Il tempo non passava mai e tantomeno
diminuiva la distanza almeno così sembrava a noi. La fortuna ci assistette
perché una Topolino [Fiat] si fermò ed il conducente ci chiese dove stavamo
andando. Ci invitò a salire visto che anche lui andava in quella direzione.
Salimmo su veloci ed un po’ rinfrancati oltre che contenti del nostro primo
giro in macchina”.
Niente sculaccioni - “Arrivati alle porte
del campo trovammo una marea di persone, tutte agitate, ed appena scesi la
prima cosa che ci aspettavamo era uno sculaccione o, meglio ancora, un sonoro
schiaffo come si deve. I miei erano infuriati e soprattutto mia madre che
gridava un po’ per la gioia un po’ per il nervoso che non riusciva a contenere
e urlando mi chiese: “Ma dove sei andato?” Non capivo più nulla e dissi una
scemenza qualsiasi che ebbe un effetto liberatorio con tutti che si misero a
ridere e così evitai punizioni. D’altro canto troppa era la loro gioia nel
rivedermi e la mia nell’essere tornato a casa” (p. 36).
“Sfortuna volle che proprio nel 1957 scoppiasse l’influenza asiatica. Ci ammalammo tutti. Io per ultimo e, proprio quando pensavo di cavarmela, la febbre arrivò. Si può dire che quel periodo è servito per organizzarci dall’inizio per poi ripartire e fare una vita normale. Mamma acquistando a rate una macchina da cucire Singer, papà lavorando come muratore quando trovava [occupazione]. Un anno di campo poteva bastare anche perché non era quella la vita che potevamo continuare a fare. Così mio padre partì per Venezia, dove c’erano dei conoscenti che lo ospitarono fino a quando non trovò lavoro. Provò alla Montedison di Marghera ma non funzionò. Forte della qualifica di carpentiere in ferro, maturata allo Scoglio Olivi di Pola tentò alla Breda, sempre a Marghera, ora Fincantieri. Fu assunto” (p. 36). “Il 4 giugno 1958 partimmo per Venezia lasciando Laterina ed il campo profughi” (p. 37). “Alla fine del 1969, appena congedato dal Reggimento Lagunari Serenissima, l’assunzione al Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione Generale Antichità e Belle Arti – poi Ministero per i Beni Culturali – mi permise di acquistare a rate la mia prima macchina. Una NSU PRINZ 4L (L sta per lusso) di colore champagne (p. 42). Ciò successe subito dopo il congedo dal “Reggimento Lagunari Serenissima” ovvero fine 1969. Quest’auto ci ha permesso di tornare, in varie occasioni, nella nostra terra natia ed ogni volta era una emozione, quando passato il confine, si incominciava a vedere la terra rossa caratteristica dell’Istria".
Il ritorno in Istria - "Prima della morte di
Tito (1980) - ha aggiunto Edoardo Radolovich in una email - attraversare la frontiera ci procurava sempre un po’ di ansia
perché, una volta consegnati i passaporti, i militi, chiusi nel gabbiotto, li
guardavano attentamente poi ci scrutavano ad uno ad uno, controllavano una
lista di nomi su dei fogli e, finalmente, gira e rigira ci facevano passare
senza il classico saluto 'dobar dan' (buon pomeriggio). Cominciava il tempo in cui iniziavo a farmi e
fare delle domande. Fino a quel tempo i miei genitori non avevano mai parlato,
in casa, delle vicende politiche ma solamente quelle legate alla vita di
tutti i giorni di cui ho scritto".
"Tra queste quando papà
andò, più grandicello, a fare il caddy nell’isola di Brioni dove c’è un campo
da golf. Ma era ancora Italia. Successivamente, come noto, diventò residenza
privata di Tito. Ora è visitabile e, nel piccolo museo, ci sono alcune foto
dell’Imperatore con personaggi
famosi. Anche con Sofia Loren. Una delle
prime volte che tornammo a Marzana, mio padre volle, per prima cosa, andare
nell’osteria in centro sperando di trovare e salutare gli amici di una
volta. All’interno praticamente nessuno.
Poi andammo dallo zio Toni e mio padre chiese: 'Come mai non c’è nessuno in
osteria?' Risposta: 'Cosa succede quando vai in osteria? Bevi, poi parli e di
cosa parli? Di politica!'. Ecco, è meglio non parlare perché anche i muri hanno
orecchie e così il bicchiere di Malvasia lo beviamo a casa dove nessuno ci
sente".
"Provai molte volte,
preso coscienza di quanto accaduto nell’immediato dopoguerra, a chiedere cosa
successe e perché, con chiaro riferimento alla pulizia etnica. Ciò in
considerazione del fatto che, sempre, avevo sentito parlare di italiani che
erano venuti a lavorare e si erano stabiliti dalle nostre parti. Si sa che i
veneti ed i lombardi furono molti. Mai una parola su dissidi di qualunque
genere. Dopo vari tentativi venni a
sapere che, di notte, passavano dei camion e prelevavano alcuni in odore di
fascismo ma non riuscii mai a sapere chi fossero gli informatori. Gli
addetti non erano del posto e pertanto era logico che le informazioni sulle
tendenze, anche non violente di alcuni, venissero da abitanti del paese".
"Considerazioni tutte mie. Tra le, oramai, frequenti visite alla nostra terra di origine rimasero memorabili quelle in cui si andava a trovare il nostro zio Bić, marito della sorella di mio padre Anna, e poi, alla morte della zia, convivente con una serba. Forse. Abitava a Pola centro proprio ad est dell’arena e a due passi dalla stessa. L’ira di mio padre quando, andati nel cimitero di Monte Ghiro a Pola, dove è sepolta la zia Anna, divorziata dal marito, e trovammo scritto sulla lapide 'Anna Bicić' e non: Anna Radolović. Ci dissero che così si usava da quelle parti. Ma il meglio avveniva a notte fonda dopo aver parlato, e soprattutto bevuto, sulla questione case. Lo zio abitava, appunto, in un appartamento abbandonato dalla famiglia che fuggii in Italia subito dopo la guerra come il 90% dei polesani. La disputa era sulla proprietà dell’immobile. Bić diceva che gli era stato assegnato dal Comune e pertanto era tutto regolare. Mio padre insisteva sul fatto che il tavolar (Tavolare) catasto Austroungarico diceva tutt’altra cosa. Ovvero che in quel documento, probatorio, erano ancora registrati i proprietari originari dell’immobile. La successiva visita, dopo l’opportuna verifica dello zio, confermò la tesi del papà. Comunque oramai Pola era persa".
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Fonti
originali - Archivio dell’Istituto Comprensivo “Francesco
Mochi” di Levane (AR). Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina,
Scuole elementari, Circolo Didattico di Montevarchi, Registro degli scrutini e degli esami, Scuola di Campo Profughi, Classe
1^ insegnante Del Vita Giulietta, anno scolastico 1956-1957, pp. 10,
stampato e ms. Consultazione di Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo.
- Edoardo Radolovich, Dvori. Breve storia di un bimbo Slavo con
genitori Italiani e nonni Austriaci, testo in PDF con fotografie, 2021 pp.
42. Inoltre: email di E. Radolovich a E. Varutti del 7.2.2022. Collezione E. Varutti.
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Cenni
bibliografici e di sitologia
- Comune di Laterina, Scuola Primaria di
Laterina, Istituto Comprensivo “F. Mochi” di Levane, Mentre l’Arno scorreva. Memorie orali sull’Arno e i suoi affluenti
raccolte nel territorio di Laterina, Arezzo, 2006.
- Giuliana Pesca,
Serena Domenici, Giovanni Ruggiero, Tracce
d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati,
rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello, Biblioteca del Centro
Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.
- Dino Radolovich, Senza patria, Parma, Helios edizioni,
2021.
- E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e
testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina
1946-1963, Aska edizioni, Firenze, 2021.
- E. Varutti, Il mio amico Antonio. Una storia dal Centro raccolta profughi di Laterina, 1958, on line dal 16 gennaio 2022 su eliovarutti.blogspot.com
Note – Autore principale: Edoardo Radolovich. Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Altri testi di: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Edoardo Radolovich e professor Enrico Modotti. Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine. – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web: https://anvgdud.it/
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