Mi racconta Vittorio Covella, che suo papà Giuseppe Covella, detto Pino, classe 1905 finanziere, è stato catturato dai titini e portato in un campo di concentramento jugoslavo in Croazia, nella zona tra Ogulin e Karlovac, nel 1945. “Sono entrati in casa armati, avevano la stella rossa sul berretto – ha detto Vittorio Covella – e hanno preso mio padre per portarlo via, allora lui si è tolto la vera dal dito e l’ha consegnata a mia madre, neanche sapesse la fine tragica che poteva fare”.
Giuseppe Covella,
1905-1947. Collez. fam. Covella
La signora che riceve
l’anello nunziale è Maria Garboni (1918-2007), mamma di Vittorio e Federico. Loro,
nel 1945, lasciano Fiume per rientrare a Sissano e a Pola. Il loro esodo
dall’Istria risale al mese di agosto del 1946. Fanno tappa a Trieste, passando
per il Centro raccolta profughi del Silos. Altri loro parenti vanno al Crp di Padriciano.
Poi dal Territorio Libero di Trieste giungono a Cervignano del Friuli, in
provincia di Udine, accolti nella caserma della Guardia di Finanza. Uno zio del
signor Vittorio, Bruno Garboni parte per Melbourne, in Australia. Resta a
Sissano, in Istria, il suocero di
Vittorio, di nome Michele Gabrović, detto Miho.
Le famiglie si rifrequentano e si scrivono sin dagli anni 1949-1950, ma
sulla corrispondenza che giungeva dalla Jugoslavia a Cervignano c’era la gara a
“sbregar el bolo col muso de Tito”.
Il signor Vittorio studia e si diploma all’Istituto Tecnico Industriale “A.
Malignani” di Udine. Poi inizia a lavorare con successo in Estremo Oriente.
“Sono rientrato da poco dal Congo – ha spiegato Covella – ma ho lavorato in
tante parti del mondo, anche con la Danieli di Buttrio, nel settore del
metalmeccanico, come in Arabia Saudita, Siria, USA, Canada, Argentina e
Gibilterra. Pensi che il mio primogenito Luca è nato in Svezia e lavora in
Giappone, mentre mia figlia Francesca è nata in Alabama, negli Stati Uniti”.
Siete mai ritornati in
Istria? “Sì, dai parenti sin dagli anni 1949-1950, assieme a mio fratello
Federico e, dagli anni 1980-1985, mia moglie Daniela Bradaschia, una furlanuta dell’ex Friuli austriaco – ha spiegato
Vittorio Covella – tornava coi bambini nella casa avita a Sissano, io li
raggiungevo quando ero libero dal lavoro, così lei si è appassionata all’Istria
e a Fiume più di me che ci sono nato e ho vissuto là, come il mio padre,
contadino di mestiere, che da ragazzo, nel 1922, si trasferì da Bari, fino
quassù al Confine orientale, volendo entrare nella Guardia di Finanza a Pola,
ma lo respinsero poiché ancora diciassettenne, così si mise ad aiutare nel
lavoro dei campi la gente di Sissano e si innamorò di mia mamma, Maria, poi
divenne finanziere con compiti di servizio da Pola a Fiume. Negli anni 1980-1990,
siamo andati regolarmente a Sissano, con i miei figli. Pure loro sin da bambini
piccoli, quindi, senza interruzione”.
Sissano 1939 - sposi
Giuseppe Covella e Maria Garboni nella chiesa parrocchiale dei Santi Felice e
Fortunato.
Signor Vittorio, posso
chiederle come ha affrontato la morte prematura di suo padre, ufficialmente
deceduto nel 1947, a causa della prigionia nel lager titino? “È evidente. Sono
rimasto scioccato – ha riposto il testimone – mio padre, fortunatamente, uscì
vivo dal lager titino, ma profondamente segnato nel fisico. Sarà per quel fatto
che, come dice mia moglie, non riesco a star fermo in un posto, come nel lavoro
che ho fatto sempre in giro per il mondo”.
Storia
di una famiglia dalmato-pugliese, i Covella - Erano
della Terra di Bari i Covella, secondo le ricerche di famiglia – come ha detto
Vittorio, assieme alla moglie Daniela Bradaschia – ma una parte della famiglia
nell’Ottocento e nei primi del Novecento viveva in Dalmazia, tra Spalato e
Ragusa, avendo intrecciato diverse relazioni nella regione absburgica.
Intorno al 1920, almeno
una parte del ramo dalmata si trasferisce in Puglia. Ciò accade nel contesto di
quello che viene definito come primo
esodo dalmata. Le condizioni socio-economiche nel periodo 1918-1921 sono
molto difficili per l’intera famiglia. Pino è un adolescente, non ha buoni
rapporti in famiglia. Conclude con successo le prime 4 o 5 classi elementari e
si forma come tappezziere, ossia lo stramazer
in Istria, Fiume e Trieste. Lavora per qualche tempo nei dintorni in questo settore,
andando a bottega, oltre a continuare pure il lavoro agricolo, senza grandi successi
e stabilità. All’età di 16 anni, ancora minorenne, lascia definitivamente la
famiglia. Pima di compiere 17 anni, nel 1922, giunge da solo a Pola, utilizzando
tutti i miseri risparmi racimolati, dove trova una nuova dimora.
Tenta ancora il
mestiere di stramazer – hanno
spiegato i testimoni – e ottiene qualche occasionale impiego e lavoretto, ma di
lì a breve, evidentemente spinto dalla necessità, entra nella scuola della
Guardia di Finanza di Pola, arruolandosi giovanissimo tra le Fiamme Gialle. Una
volta entrato in servizio effettivo, resta per qualche tempo a Pola (città amata
da tutta la famiglia), per poi essere trasferito al distaccamento di Medolino,
poco distante da Pola, sulla punta meridionale estrema dell’Istria.
Lì svolge servizio di
finanza marittima. La caserma è sul mare, con un proprio molo. Il vecchio
edificio ed il pontile esistono ancora, sono tutt’oggi chiamati dai locali,
pure i croati: [La] Finanza. La
struttura è all’interno di un campeggio turistico. La casa ospita da molti anni
un noto bar-ristorante sul mare dal nome Financa
(traslitterazione croata / ciacava istriana di “Finanza”).
Maria Garboni con i
figli Federico (1940) e Vittorio (1942) verso la fine degli anni ‘40.
Il servizio di finanziere del mio papà – ha aggiunto Covella – consiste nel pattugliare il tratto di fascia costiera tra la baia-porto di Medolino a sud e Porto Badò a nord, dove pure esiste tuttora sulla riva il vecchio edificio e molo già della Finanza italiana. È un tratto di costa affacciato al Basso Quarnero, per la maggior parte incontaminato e selvaggio. Il servizio giornaliero è svolto da una coppia di due militi, a volte tre. Il più delle volte percorrono l’intero tratto a piedi o in bicicletta, lungo i sentieri bianchi e polverosi della linea di costa, circondati da campi e dal fitto bosco del Prostimo. Una squadra parte da Badò, un’altra da Medolino, incrociandosi a metà percorso, presso Monte Madonna. A volte effettuano pure il servizio in mare, su una delle piccole imbarcazioni in dotazione dei due distaccamenti.
Durante questi anni di
servizio – ha spiegato Covella – Pino conosce e apprezza la località di Sissano
ed i suoi abitanti. È il paese di mia madre, posto all’interno della sua zona
operativa. Mia madre Maria, classe 1918, aveva 12 anni e mezzo meno di lui ed
era ancora giovane. È il parroco di Sissano a farli conoscere, tramite il padre
di lei, Michele, detto Miho o Micel
Strigo, qualche anno più tardi, quando mia madre ha 15 anni. Si fidanzano
poco dopo. È una sorta d’unione combinata, voluta dal padre di lei e dal
parroco del paese. La coppia si sposa alla fine del 1939, in occasione del
trasferimento di Pino a Fiume. Nel 1940 nasce il loro primogenito Federico, per
tutti semplicemente Rico, che oggi è
pensionato, nonno e vive tra Miami (USA), l’Istria ed il Friuli. Nel 1942 nasco
io, Vittorio, Zebi per gli amici.
Pino e Maria si sposano
a Sissano nella chiesa parrocchiale dei Santi Felice e Fortunato. Per qualche
settimana vivono in una stanza nella casa familiare di lei, risalente al 1895,
subito fuori paese, sulla strada verso il mare. Nel dicembre 1939, per motivi
di servizio di lui, si trasferiscono in
pianta stabile a Fiume.
Nona
Matia Zivolich, del 1887, co i so do pici sameri (asini), sun la cal de Monte
Madona, devanti casa de famea Covella Garboni a Sisan.
Si chiamava proprio così: Mattia. Non
"Mattea", come taluni la chiamavano e come si trovava scritto su
alcuni documenti. Forse, al momento del battesimo, i genitori (e lo stesso
prete) non si preoccuparono troppo che quel nome fosse solitamente maschile.
(didascalia
di famiglia). Primi decenni del ‘900.
Bombardamenti a Fiume, 1944 - Dopo la prima residenza a Fiume, a partire da dicembre 1939, al terzo piano di un palazzo in via E. De Amicis (oggi: Dolac), in coabitazione col professor Ugo Terzoli e suo figlio, la famiglia Covella si trasferisce in un alloggio più adatto e comodo per l’aumentato numero dei componenti, visto che in quegli anni nascono i figli Rico, nel 1940, e Vittorio nel 1942, entrambi battezzati nella Cattedrale di San Vito, come raccontano i Covella. Viene quindi assegnato loro un alloggio a Cosala/Borgomarina, adiacente alla caserma della Guardia di Finanza, dove Pino prestava servizio, proprio di fronte al mare.
Col 1944 iniziano i
bombardamenti aerei alleati, che bersagliano particolarmente Fiume. In effetti
si ritrova in letteratura la descrizione dei bombardamenti anglo-americani,
come da molte fonti orali. Col 7 gennaio 1944 (Ballarini
A, Sobolevski M 2002 : 61) iniziano i ventisette bombardamenti aerei
alleati su Fiume, contro la ferrovia, il porto, il silurificio ed altro. Ciò
provoca vittime e danni agli impianti portuali e industriali, nonché agli
edifici civili (Decleva R 2017 :
59). Erano arrivati di sorpresa quei maledetti, con gli aeroplani, anche il
giorno di Pasqua del 1945, anche se c’era ben poco d’importante da demolire
nella nostra povera Fiume. La contraerea taceva, eravamo inermi, dovevamo
subire e basta, non suonarono nemmeno l’allarme, tanto non ce n’era bisogno, ce
lo avevano dato gl’inglesi (Tardivelli B
2015 : 1). Certi testimoni menzionano le “mastodontiche bombe che i
bombardieri alleati rovesciavano sulla zona industriale” (Sabucco J 1953 : 7).
Fortunatamente i rifugi
antiaerei del rione erano poco distanti dall’abitazione dei Covella: devono
visitarli di frequente in quei mesi, con le sirene che suonano continuamente.
In occasione di uno di questi allarmi, Maria coi due figli piccoli si ripara in
rifugio assieme ad una moltitudine di altri residenti della zona, specie donne,
bambini ed anziani. Poco dopo li raggiunge fortunatamente pure Pino, che era
appena smontato dal servizio. Al termine dei bombardamenti durante quella
tremenda notte, quando possono finalmente uscire dal rifugio, li coglie una
triste sorpresa: la caserma della Guardia di Finanza (GdF) e la loro abitazione
adiacente sono ridotte ad un ammasso fumante di macerie.
Tutto era distrutto,
tutte le loro cose perdute, ma loro erano tutti vivi, sani e salvi. Un aneddoto
di quei giorni di Rico è che in un precedente bombardamento che aveva colpito
poco distante, lui e Vittorio si sono protetti sotto il materasso del letto,
mentre attorno cadono calcinacci e s’alza la polvere. In quei giorni di
scarsissime provviste alimentari, vista l'estrema difficoltà a procurarsele,
quando pure tutte le verze e le patate sono state mangiate, il piccolo Rico in
un paio d’occasioni si riduce per fame a mangiare addirittura le radici delle
verze e le bucce delle patate! Dopo quel tragico bombardamento, la famiglia si
trasferisce quindi in un’ulteriore abitazione in periferia.
Vittorio, detto Zebi, con zio Giovanin Recia. Sissano, primi anni ‘70 sul biroc col samer, sulla strada verso il
mare (didascalia di famiglia).
L’arresto di Pino e le ruberie dei titini - Continua così il racconto dei Covella. Dopo il bombardamento della casa a Cosala, sfollano fuori città in un’abitazione a Laurana, dove rimangono per qualche tempo. Rientrano quindi a Fiume, dove trovano un alloggio in una casa in periferia. Era una bella villa signorile a due piani, d’epoca absburgica, con una gradinata all’ingresso, orto e giardino.
È davanti questa casa
che Pino viene prelevato dai militi titini il 3 Maggio 1945, lo stesso giorno
in cui gli jugoslavi occupano Fiume, debellando gli ultimi presidi tedeschi.
Gli jugoslavi hanno preso controllo e possesso della città già dal mattino.
Dopo mezzogiorno, forse l’una, Pino è fuori casa, dedicandosi a qualche lavoro
nell’orto, Maria è in cucina coi bambini e sta mettendo assieme qualcosa per
pranzo.
Un gruppetto (3 o 4) di
militi jugoslavi che percorre la via, si ferma davanti l’abitazione, nota Pino
e dopo un brevissimo scambio verbale, entrano di forza in casa, formalmente per
una “normale perlustrazione”, ma di fatto non fanno altro che derubare la
famiglia dei pochi soldi contanti trovati in casa. Gli unici miseri risparmi
posseduti che permettono ai Covella di sopravvivere di giorno in giorno, nonché
tutta una serie di effetti personali, alcuni molto cari a Pino e Maria,
lasciando tutto a soqquadro. Decidono quindi di arrestare Pino e portarlo via
con sé.
Il finanziere ha solo
il tempo di levarsi la fede di matrimonio, affidandola di nascosto alla moglie.
Poi bacia e rassicura un po’ i due bambini di 5 e 3 anni, prima di essere sequestrato.
Maria ha raccontato che
Pino mentre lavorava nell’orto indossava una vecchia camicia della GdF. Tale
indumento forse ha attirato l’attenzione dei miliziani titini in transito
davanti casa. La verità è molto meno accidentale. Lo conferma la testimonianza
rivelata, molti anni dopo, da zio Carlo di Sissano. Carlo Garboni, classe 1927,
all’inizio del 1945, pochi mesi prima della fine del conflitto, appena
diciottenne, si arruola nelle formazioni partigiane titoiste in Istria, più per
necessità e pressione degli stessi partigiani che per convinzione o affinità
ideologica, ma era certamente intimorito dai tedeschi e voleva combattere la
loro occupazione militare.
Durante quei mesi tra i
partigiani, Carlo può visionare delle liste di proscrizione compilate dai
locali comandi partigiani e diffuse tra i miliziani con numerosissimi
nominativi di abitanti della regione da ricercare, arrestare (sequestrare) e,
se necessario, liquidare, poiché considerati fascisti, collaborazionisti,
criminali, nemici del popolo ed altro.
Tra i molti nomi, Carlo nota subito pure quello di Giuseppe Covella. Il fatto
lo colpisce e preoccupa a tal punto, che appena ha l’occasione, si reca a Fiume
per informare del grave pericolo i suoi parenti Pino e Maria.
Non si sa esattamente come
andarono le cose: se Pino sottovaluta e vuole ridimensionare l’avvertimento del
cugino, o se c’è poco che lui possa fare, se non sperare.
Si sa che in
quell’occasione risponde di aver la coscienza pulita, di non aver mai commesso
alcun crimine o sopruso, di non aver mai
causato la morte di nessuno, di non aver alcun ruolo e coinvolgimento politico,
pur vestendo una divisa militare italiana. È solo un umile appuntato al tempo. Al
momento della morte, nel 1947, è appuntato scelto. È un pesce piccolo ed
anonimo insomma, non un comandante o una personalità in vista. Dice che non
sussistono davvero ragioni da parte di alcuno per arrestarlo, processarlo e
condannarlo.
Questo significativo
precedente però potrebbe verosimilmente rivelarci che alcune settimane più
tardi, in quel 3 maggio 1945, quei partigiani che si fermano davanti casa loro,
non lo fanno per caso o solo perché attirati dalla camicia da finanziere, ma
proprio perché sono venuti lì a prelevarlo di proposito, evidentemente dopo
essere stati informati del suo indirizzo. Al di là della vicenda personale di
Pino, la testimonianza di Carlo Garboni è tutt'oggi preziosissima anche nel
contesto più ampio di quella guerra e del triste dopoguerra. Innanzitutto si
tratta della testimonianza diretta, non solo di un testimone contemporaneo, ma esterno, civile ed estraneo ai fatti, ma
proprio di un partigiano, quindi una fonte interna.
È molto significativa pure nel dibattito storiografico odierno perché ci dà
conferma delle liste di proscrizione redatte dal movimento titoista già durante
la guerra. Esse includevano non solo criminali di guerra (reali o presunti),
comandanti ed ufficiali, personalità politiche, cariche istituzionali, convinti
ed impegnati fascisti e collaborazionisti dei tedeschi/nazisti, ma pure
centinaia e centinaia di comuni ed anonimi cittadini della regione.
Secondo la famiglia
Covella è un fatto non da poco, se è vero che ancor oggi esistono alcune voci
giustificazioniste e riduzioniste, pure in Italia, che continuano a negare l’esistenza
di tali liste nere, spacciandole per pura propaganda
fascista e reazionaria.
Sin dal Novecento certi
studiosi hanno dimostrato l’esistenza delle liste
d’arresto dei titini per effettuare la pulizia etnica contro gli italiani a
Fiume. È l’OZNA, la polizia segreta di Tito ad organizzarle con l’intervento
dei Comitati Popolari di Liberazione (CPL), talvolta più incarogniti degli
stessi duri agenti OZNA. Sono notori il furto e la rapina di soldi e preziosi,
prima dell’arresto del malcapitato destinato ad un gulag di Ogulin, o di
Karlovac, nonché la devastazione della casa italiana da parte slava (Molinari F 1996 : 47-51). Si è saputo,
inoltre, del campo di concentramento titino di Vršac, in Vojvodina, dove sono
reclusi un centinaio di ufficiali italiani dal 1945 al 1947. È un campo di
rieducazione antifascista, ma la mortalità dei reclusi è del 14 per cento (Varutti E 2022 : 1).
Vittorio Covella, Zebi, nato a Fiume nel 1942, testimone
della vicenda. Fotografia del 12 febbraio 2022 in occasione del Giorno del Ricordo a Cervignano. Foto E. Varutti
Il gulag titino tra Ogulin e Karlovac - In seguito all’arresto Pino è incarcerato a Fiume. Dopo, per qualche tempo, è a Sussak. È quindi destinato ad un campo di prigionia-concentramento in Croazia, nella regione tra Ogulin e Karlovac. Nelle memorie familiari si è perso il nome e la precisa localizzazione di tale campo. A questo punto si svolge un’altra vicenda alquanto sorprendente della storia familiare.
Maria non ottiene
alcuna risposta dalle autorità jugoslave in città. Non rassegnandosi all’arresto-sequestro
del marito e padre dei suoi piccoli figli, di cui non riusciva ad avere più
alcuna notizia, decide di portare i bambini al sicuro in Istria a casa dei
nonni e quindi di ripartire subito alla volta di Fiume alla ricerca del marito.
In questa coraggiosa ricerca si unisce ad un piccolo gruppo di altre donne
fiumane ed istriane, tutte alla disperata ricerca di mariti e figli. In
particolare è con lei una sua amica pure in cerca del marito prelevato dagli
jugoslavi.
Grazie alle
informazioni passate loro da una conoscente drugarica
(una partigiana), si avviano all’interno della Croazia, tra mille impedimenti,
disagi, fatiche e pericoli, specie in quei giorni per un piccolo gruppo di
donne sole, disarmate, e considerate straniere.
Di quei giorni Maria
ricorda il lungo tragitto a piedi in un territorio sconosciuto, l’estrema
difficoltà a reperire informazioni, indicazioni ed un po’ di cibo dai contadini
del luogo. Ci sono i rischi, il timore, la diffidenza ed il sospetto che
circola tra tutti, sia tra loro donne che tra i civili del luogo. Soprattutto
c’è il problema di scansare coloro che vogliono approfittarsi di loro. Una
donna del gruppo, in cerca di cibo e informazioni, viene minacciata, ricattata
e stuprata. Pure Maria rischia da vicino una tragedia simile. La salva la
prontezza. Un uomo cui lei aveva chiesto informazioni e del cibo le dice che può
aiutarla, che conosce il luogo in cui si trova il marito e che le avrebbe
fornito del cibo, incitandola a seguirlo verso dei casolari isolati poco più
avanti. Maria si tiene a debita distanza dall’uomo, capisce subito che c’è
qualcosa di sospetto e che in quei casolari non avrebbe trovato ciò che le era
stato promesso e con una scusa si allontana nella direzione opposta.
Le aiuta invece il
fatto che sia Maria, sia ancor più la sua amica, parlano discretamente pure il
croato, o meglio: il ciacavo istriano.
Ciò permette loro di comunicare sufficientemente con le autorità e gli abitanti
croati, una volta uscite da Fiume. Questo coraggioso peregrinare dura alcune
settimane, ma infine Maria è capace di trovare il campo in cui era detenuto
Pino. Si separa quindi dalla sua amica, che prosegue in cerca del proprio
marito.
Maria vede Pino nel gulag titino - Una larga parte dei prigionieri del campo sono o paiono italiani – ha continuato la famiglia Covella. Quasi tutti sono ridotti in pessime condizioni, ombre degli uomini che erano stati fino ad alcune settimane o mesi prima. Per rancio mangiano una brodaglia e le condizioni igienico-sanitarie del campo sono miserevoli.
Il complesso è
circondato da una recinzione che almeno da un lato è circondata da un fossato
d’acqua torbida e maleodorante, dove venivano scaricati a cielo aperto le
latrine e tutti i rifiuti e scarti del campo. Attraverso la rete di recinzione,
diversi prigionieri supplicano Maria, chiedendo in italiano: “Prego, un poco di
pane”. La testimonianza è analoga alla tragica prigionia del tenente Raffaele
Covatta, scampato al gulag jugoslavo di Vršac (Varutti
E 2022).
Giusto il giorno prima
dell’arrivo di Maria, Pino, ormai esasperato e stremato, decide di lasciarsi
morire, ponendo fine a tale pena. Ha quindi smesso di bere l’acqua e di
mangiare. Maria lo avvista attraverso la rete, riconoscendolo appena. È riverso
a terra e di aspetto scheletrico. La vista di Maria naturalmente lo rinfranca
molto. Lei prova a rifocillarlo come può attraverso la rete, con quel poco che
ha nel suo sacco.
Deve stare attenta a
cosa dargli, i prigionieri in quelle condizioni sono infatti molto deboli e
debilitati, con gli stomachi chiusi e non possono mangiare immediatamente cibi
solidi e troppo sostanziosi. Alcuni infatti erano morti per essersi rifocillati
senza fare attenzione, mossi dalla fame estrema. Quel giorno gli dà solo un
uovo da bere. E in seguito un frutto tenero colto dagli alberi incontrati lungo
il tragitto. Maria poi tenta d’intercedere con alcune guardie per far liberare
il marito, ma senza successo.
Le informazioni che ha
la famiglia di questi frangenti sono abbastanza approssimative, ma fortuna vuole
che in quegli stessi giorni c’è un intervento della Croce Rossa, che
evidentemente aveva individuato e monitorava pure questo campo. Un certo numero
di prigionieri, tra cui Pino, vengono quindi liberati. È il principio di agosto
del 1945. Non essendo in grado di camminare speditamente e per lunghi tratti,
la coppia rientra lentamente a Fiume con mezzi di fortuna. Dal momento dell’arresto-sequestro
a Fiume il 3 maggio, Pino trascorre in prigionia 3 mesi circa. Esce dal campo pesando
solo 37-38 kg, col fisico e la salute estremamente provati.
Silva Vellenich, Canal di Leme, acrilico su carta, cm 56x76, 2022, courtesy dell’artista.
Il ritorno a Fiume, in Istria e il trasferimento in Friuli - A Fiume restano poco, giusto il tempo che Pino si rimetta in sesto. Rientrano quindi in Istria, ricongiungendosi con i due figli a casa dei nonni a Sissano. Qui Maria ed i suoi genitori si prendono cura di Pino come meglio possono: lui sembra molto malato. Per rimettersi gradualmente, mangia solo frutta tenera, in particolare fichi e susini maturi e beve latte e uova fresche crude, alimenti che non mancano nella fattoria della famiglia.
Dopo poco tempo,
temendo di incorrere nuovamente nelle maglie dell’apparato politico-militare
jugoslavo che ormai controlla il territorio, decide di trasferirsi nell’enclave
di Pola, a pochi chilometri da Sissano. Pola è posta, allora, sotto occupazione
inglese nella Zona A dell’amministrazione militare Alleata della Venezia
Giulia: giugno 1945 - settembre 1947. Lì può stare più al sicuro da eventuali
azioni dei titoisti.
Va a Pola da solo.
Moglie e figli restano invece nella casa dei nonni a Sissano, andando ogni
tanto a visitarlo in città, in particolare con la nonna, che quasi ogni mattina
di buonora, trasporta e vende a Pola il latte fresco di mungitura e qualche
altro prodotto, con un carretto a due ruote (biroc’, in sissanese) trainato da un asino (samero, in sissanese).
Da Pola Pino prende di
nuovo contatto con le autorità italiane ed il comando regionale della GdF. Gli
viene offerta la possibilità di essere reintegrato in servizio, esodando
dall’Istria verso una nuova destinazione italiana. Dopo un primo tempo,
raggiunge Trieste via traghetto e viene quindi assegnato al distaccamento della
GdF di Cervignano del Friuli (UD).
I suoi superiori del
Comando GdF gli avevano offerto la possibilità di scegliere tra più stazioni,
tutte dislocate nel Nordest. È Pino a scegliere proprio Cervignano, poiché è il
luogo più vicino all’Istria, posto lungo la ferrovia e la strada che conducono
direttamente a Trieste e da lì a Pola. A quel tempo possiede ancora un piccolo
porto fluviale con tradizionali collegamenti verso le località costiere
giuliane. Evidentemente in quei giorni è ancora vivo il proposito o la speranza
di rientrare presto in Istria in pianta stabile.
Tanto più che Pino
aveva già molti anni prima confidato alla moglie che il suo desiderio era di
congedarsi un giorno dalla GdF e dedicarsi completamente al suo mestiere di
tappezziere (stramazer) a Pola o
nella stessa Sissano, avvalendosi dell’aiuto di Maria come sarta. Contava di
farlo già al termine della guerra, se non fossero intervenuti la prigionia, gli
stravolgimenti politici e nazionali e l’esodo.
Ricevute notizie della
sistemazione di Pino, nell’estate del 1946, verso tardo agosto, anche Maria,
Rico e Vittorio prendono la strada dell’esodo. Lasciano Sissano con pochissime
cose al seguito. S’incamminano a piedi e da soli verso Trieste. È un tragitto
lungo e faticoso sia per i bambini piccoli che per la madre e certamente non
privo di rischi e pericoli. Ma fortunatamente non s’imbattono in alcun
particolare imprevisto o pericolo. Da Trieste raggiungono quindi Cervignano col
treno. La parentesi friulana di Pino dura però solo poco più di un anno. L’uomo
non si era mai completamente rimesso dopo la prigionia, ma si era ammalato.
Maria in quei giorni lo ricorda sempre stanco e piuttosto debole. Torna a casa
ogni giorno con le camicie madide di sudore, cosa che non gli capitava prima
della prigionia.
Una mattina di novembre
del 1947, mentre svolge il suo usuale servizio in bicicletta assieme ad un
collega, è verosimilmente colto da un infarto mentre percorrono una strada di campagna
subito fuori dal paese. Cade nel fosso di lato la strada, morendo sul colpo. Ha
appena compiuto 42 anni. È allora sepolto nel cimitero di Cervignano. In
seguito, negli anni ‘90, dopo la disgregazione della Jugoslavia, è stato traslato
nella tomba di famiglia del cimitero di Sissano, dove riposa tutt’oggi a fianco
della sua Maria, mancata alla fine del 2007.
A Cervignano, dal 1946
la famiglia ha trovato un primo alloggio presso una casa contadina ai margini
sud del paese. Vi vive pure una famiglia contadina originaria del luogo di
solida fede comunista, alcuni dei cui membri avevano partecipato alla guerra
partigiana. Verso la fine della guerra c’è stato anche un caduto: un partigiano
fucilato dai tedeschi in ritirata sulla strada, proprio davanti la loro
abitazione. Sul luogo vi è oggi un cippo in memoria del fatto di sangue.
In quei primi anni dopo
il loro arrivo come profughi e dopo la morte di Pino, uno di questi nuovi
vicini di casa in più occasioni, forse scherzando con umore nero e forse in
preda all’alcol, indicando un grosso albero del cortile, ripeteva a Vittorio e
Rico, in friulano: “Lo vedete quell’albero? Lì ho trovato il ramo giusto dove
impiccheremo vostra madre esule”.
La qual cosa fa
scoppiare in lacrime il piccolo Vittorio, già traumatizzato dalla recente morte
del padre e dallo stravolgimento della loro vita causato dall’esodo. A parte
questo episodio e qualche altra battuta di natura politico-ideologica, Maria e
i due bambini hanno sempre serbato belle memorie di quella famiglia contadina,
che ricordano in fondo come generosi, accoglienti e ben disposti. C’era un
aiuto reciproco, pur nella generale miseria del primo dopoguerra. Non hanno
contrastato, ma anzi forse pure contributo a favorire il non semplice
inserimento della famiglia esule nel nuovo ambiente sociale. Hanno così
mantenuto sempre buoni rapporti con loro anche dopo essersi trasferiti da
quell’abitazione, diversi anni più tardi.
La Cala vicino a casa
dei Covella, a Sissano, in Istria. Foto del 2022.
L’eccidio di Sissano, 1945 - La famiglia Covella intende menzionare un episodio macabro dell’immediato dopoguerra accaduto presso Sissano, non distante dalla casa di famiglia, di cui poco o nulla di sa e che viene tutt'oggi citato da pochissime fonti.
Nel maggio del 1945 la
guerra in Europa era appena finita. Proprio in quel periodo, fine maggio-giugno
1945, Maria affida i due figli ai genitori per tornare a Fiume e continuare la
ricerca del marito. I partigiani titini, ovvero l’Esercito Popolare di
Liberazione della Jugoslavia, ormai dilaga in tutta l’Istria e prende il
controllo dell’intero territorio con poche eccezioni. Trieste, Muggia, Pola, sono
occupate dagli Alleati a partire dalla metà di giugno 1945. In Istria si è nel
pieno della caccia all’uomo, delle purghe, dei regolamenti dei conti.
Tra le altre azioni, le
milizie titoiste operanti nell’Agro Polese, sezione più meridionale della
penisola istriana, sono così riuscite a rastrellare e catturare in quelle
settimane diverse decine di italiani e filo-italiani che pare avessero
costituito l’ultima resistenza/opposizione armata alla conquista jugoslava, o
avessero collaborato e sostenuto la stessa. Sono stati poi indicati
generalmente come fascisti, o della Milizia
di difesa territoriale (MDT o Landschutz-Miliz,
come la definivano i tedeschi). Diversi di questi prigionieri tra giugno e luglio
sono trasportati a Sissano e rinchiusi temporaneamente, sotto stretta
sorveglianza, in un’abitazione del paese appartenente a
collaboratori/simpatizzanti degli jugoslavi.
Un giorno, ben legati
ed incolonnati, sotto scorta armata, sono condotti verso il mare, lungo la
strada di campagna che passa proprio davanti alle case della famiglia Covella.
Attraversando campi ed il bosco costiero, la strada conduce in Cala, una
baietta della costa sissanese ed al resto della costa.
I prigionieri sono una
ventina, o trentina di uomini, per lo più giovani, alcuni pare abbiano solo
17-18 anni, quindi minorenni. Giunti sul fondo della Cala – hanno aggiunto i
Covella – in un luogo denominato dai sissanesi La Tesa (dove la stradina che costeggia la Cala, attraversa la
vallicola che scende dal bosco con un’ampia curva e presenta quindi un rato, una salita di alcuni metri, per
poi proseguire nel bosco), i prigionieri vengono legati in gruppi agli alberi
circostanti. Viene posizionato tra loro dell’esplosivo: dinamite o simile. Dalla
casa dei nonni, non più di 2 km a monte, si ode chiaramente il frastuono
dell’esplosione, grossomodo un’ora dopo aver visto transitare la colonna di prigionieri
davanti casa.
Stando alle poche
testimonianze, nessuno del paese ha il coraggio e la voglia quel giorno di
scendere in Cala a vedere cos’era successo. Uno dei primissimi a farlo, se non proprio il primo, grazie pure alla maggiore
vicinanza al luogo della sua abitazione, è nonno Miho (Micel), il mattino del giorno successivo. Non porta con sé
naturalmente i due nipotini, Rico e Vittorio. Quanto vede presso la Tesa, in fondo alla Cala, è
impressionante e perturbante. Quel tratto di boschetto mediterraneo è stato
completamente sventrato dall’esplosione. C’è nell’aria un cattivo odore, misto
a bruciato. Sopra la risacca delle onde, si sente solo il rumore, lo stridio,
degli animali predatori. I gabbiani e altri uccelli, ratti ed altro si contendono
i sanguinolenti brandelli umani sparsi tutto attorno: sul suolo, sui sassi, o
penzolanti dai rami degli alberi. È tutto ciò che resta di quegli uomini. Nonno
Miho per diverso tempo non vuole
raccontare nulla a nessuno di quanto aveva visto.
Lo dice a suo figlio minore Bruno (allora diciottenne), un paio di settimane più tardi, quando questo rientrò a casa, dopo una permanenza forzata tra i partigiani. Bruno, molti anni dopo, ci ha raccontato questi dettagli, hanno concluso i Covella. Di questa vicenda la ricerca storiografica non se ne è ancora occupata dettagliatamente. Le uniche fonti sono le poche testimonianze del paese, dei pochi non riluttanti a parlarne e con qualche cognizione sull’accaduto. Tanti dettagli ancora non si conoscono, o sono vaghi e dubbi. Non si conoscono i nomi delle vittime. Né quelli esatti degli esecutori. Pare solo che tra quelle vittime non vi fossero sissanesi. Provenivano da altri paesi dell’Istria.
Da un rapporto del 30 dicembre 1946 del Central Intelligence Group (CIG) degli USA, de-secretato nel 1999, inizia ad operare, con istruttori sovietici, la missione “Juris”, diretta emanazione dell’OZNA, il servizio segreto jugoslavo. “The aim of the ‘Juris’ Group is to terrorize the population in Zone ‘A’ with a view to organizing a future terrorist policy in areas which are predominantly Italian” (Lo scopo dei Gruppi Juris è di terrorizzare la popolazione nella Zona A [della Linea Morgan, compresa tra Plezzo, Comeno, Sesana, Trieste e l’exclave di Pola, NdR] al fine di organizzare una futura politica terroristica nelle aree a predominanza italiana).
Fonti
orali e digitali – Per la sua intensa storia familiare
Vittorio Covella, con la collaborazione del fratello Federico e della moglie
Daniela Bradaschia, si è avvalso delle informazioni raccolte da sua madre Maria
Garboni (1918-2007) e da altri membri della famiglia, come Bruno e Carlo,
entrambi classe 1927. Poi c’erano lo zio Micel, Miho, del 1919, le zie Fume (1918), Maria (1921) e zia Lina (1928),
prima che scomparissero tutti. Ecco le persone intervistate da Elio Varutti.
– Vittorio Covella,
detto Zebi, Fiume 1942, int. a
Cervignano del Friuli (UD) del 12 febbraio 2022. – Federico Covella, detto Rico, classe 1940 (figlio primogenito di
Maria e Giuseppe, fratello maggiore di Vittorio), residente tra Sissano, Miami -
Florida (USA) e Cervignano del Friuli, notizie raccolte dai familiari con email
del 15-22 aprile 2022. – Daniela Bradaschia, Cervignano del Friuli 1954, int. a
Cervignano del 12 febbraio 2022 e email del 18 febbraio 2022 con altri
familiari.
Cenni
bibliografici e del web
-
Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e
dintorni (1939-1947) / Zrtve talijanske nacionalnosti u rijeci i okolici
(1939.-1947.), Roma, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, 2002.
- Central Intelligence Group (CIG) degli USA, Intelligence report, 30 dicembre 1946, dda reg. 77/1763, dal web.
-
Rodolfo Decleva, Piccola
storia di Fiume 1847 – 1947, II edizione, Sussisa di Sori (GE), impaginato
da ilpigiamadelgatto, 2017.
- Fulvio Molinari, Istria contesa. La guerra, le foibe, l’esodo, Milano, Mursia, 1996.
- Janni Sabucco, …si chiamava Fiume, Perugia, «Quaderni di Centro Italia», s.d.
[1953].
-
Bruno Tardivelli, La
Pasqua di 70 anni fa, testo in Word, 2015, pp. 2. Collez. privata.
- Elio Varutti, Arrigo Di Giorgio, morto a Fiume nel 1944 sotto le bombe USA, on
line dal 13 ottobre 2016 su
eliovarutti.blogspot.com
- Elio Varutti, Tenente Raffaele Covatta nel gulag titino di Vršac, in Vojvodina,
1945-'47. La lista dei reclusi, on line dal 12 aprile 2022 su evarutti.wixsite.com
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Note
– Interviste a cura di Elio Varutti, docente di Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata all’Università della
Terza Età (UTE) di Udine. Ricerche e Networking di Tulia Hannah Tiervo,
Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Vittorio Covella, Daniela
Bradaschia e professor Enrico Modotti. Grazie all’artista Silva Vellenich, di
Pola, esule in Friuli. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e
documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni
private delle famiglie Covella e dall’archivio dell’Associazione Nazionale
Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua
sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine. – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna
Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito
web: https://anvgdud.it/