lunedì 27 aprile 2015

Il Campo Profughi del Silos a Trieste

“Ero crocerossina al Campo Profughi del Silos a Trieste – riferisce Marinella De Calò, nata a Trieste nel 1920 – ed ho visto tanti esuli arrivare in nave, in fuga dall’Istria”. 


Quanti erano in Campo Profughi e che periodo era? “Saranno stati alcune centinaia per volta, qualcuno di loro si è fermato anche per tanti mesi, molti passavano al Campo di Padriciano, erano gli anni dal 1945 al 1949 – prosegue la De Calò, da me intervistata il 28 gennaio 2015 a Udine – eravamo tre crocerossine, vari volontari, poi c’era l’infermeria, la cucina, il guardaroba e una mensa per i bimbi piccoli; mi ricordo che con delle vecchie coperte facevamo dei separé per dare un po’ di intimità alle famiglie. Poi si faceva anche scuola dentro al Campo, per i bambini e per i giovani”.

Pasqua 1951, un gruppo di profughi nella Cappella del Silos per la benedizione delle pinze (dolci) e delle uova di cioccolato. 
Special thanks to: www.istrianet.org

Chi comandava il Campo Profughi del Silos? “Era un capitano inglese, non ricordo il suo nome, ma se ripenso a chi ci dava la penicillina per curare tanti nostri ammalati, so ben che era Miss Haiers, l’infermiera ufficiale inglese, poi c’era il dottor Guido Botteri e un altro medico italiano nella nostra infermeria; si capisce che i casi gravi venivano trasportati all’ospedale”.


Come scappavano dall’Istria e dalla Dalmazia? Che cosa riuscivano a portarsi via? “Masserizie, borse, bauli, valigie e persino sedie, come racconta Simone Cristicchi nel suo celebre spettacolo intitolato Magazzino 18
Venivano da Pola, Fiume, Parenzo, Rovigno ed Abbazia, ricordo la famiglia Rocco da Rovigno; mi viene in mente di una signora che si era portata via la cucina economica, riempita di monete d’argento da 5 lire l’una. I profughi i rivava con la nave e noi se andava in molo col carro per prenderli e se li portava al Silos. Gò ancora la mia gavetta”.
Prima di lavorare al Campo Profughi del Silos dove stava? “Nel 1943 ero infermiera a Valle d’Oltra, vicino ad Ancarano e Capodistria, dovevo occuparmi di 90 feriti e mutilati assieme a suor Teodora e ai medici, poi i tedeschi ci mandarono via; c’erano gli sfollati di Zara, nell’inverno del 1943, presso la scuola elementare di San Giovanni, lì l’infermiera direttrice era Carmen Cosulich, della CRI. Poi dalla fine del 1944 al gennaio 1945 mi trovavo all’ospedale militare, in sala operatoria, col primario principale professor Ettore Nordio”.
Val d'Oltra, oggi Slovenia - Ospedale Marino Elena Duchessa d'Aosta, fotografia del 1941


E col 1950 dove si trovava? “Oltre che infermiera, sono pure insegnante di italiano, latino, storia e geografia – risponde Marinella De Calò – così nel 1949-1950 mi ritrovai ad insegnare a Sappada, in provincia di Belluno, dove in pratica fondai la scuola media ed, infine, sono stata la preside delle scuole di Sappada e di Auronzo, ma questo non c’entra con l’esodo giuliano”.
Fin qui la testimonianza della signora De Calò. Un'altra fonte orale ricorda il Campo Profughi del Silos di Trieste. Si tratta di Alfio Laudicina, nato a Pola nel 1933, da me intervistato il 13 marzo 2015. "Il 6 gennaio 1944 - racconta il signor Laudicina - in seguito ad un bombardamento angloamericano, ci ritrovammo senza la casa, perché era stata colpita e distrutta dalle bombe; il mio babbo era di origine siciliana". 
Allora, cosa avete fatto? "Abitavamo a Pola - continua Laudicina -, vicino ad un costone, nei pressi del centralino delle comunicazioni, ci siamo salvati nei sotterranei del palazzo delle comunicazioni e poi ci hanno portato nel rifugio antiaereo, ma passando nella zona bombardata ho visto cadaveri e brandelli di corpi umani; della nostra casa restavano solo i muri esterni, così mia madre, Teodolinda Picco, con i suoi quattro figli orfani di padre, che era finanziere, scrisse ai parenti in Friuli, per chiedere loro dell'ospitalità".
Quale fu la risposta? "La zia di Savalons di Mereto di Tomba, provincia di Udine, disse di sì, così siamo partiti da Pola col piroscafo, assieme ad altri sfollati che riparavano verso Trieste, si fece tappa a Parenzo, dove ci fecero dormire al teatro, abbiamo dormito per terra, non c'era altra sistemazione".
Dopo cosa è accaduto? "Poi siamo sbarcati a Trieste - aggiunge Laudicina - tra le poche nostre masserizie recuperate mia madre era riuscita a portarsi via la macchina per cucire, che si rivelò molto utile per i lavori di sartoria, che sapeva fare".
A Trieste dove vi siete fermati? "Al Campo del Silos per qualche giorno - conclude Alfio Laudicina, oggi esule a Udine - avevamo delle camere con delle pareti fatte con coperte usate, per un po' di privacy. Poi ci portarono a Udine, e di lì fino a Mereto di Tomba, dagli zii; noi non siamo passati dal Campo Profughi di Udine".

Francobollo della Repubblica Sociale Italiana, con stampigliatura "3-V-1945 Fiume Rijeka LIRE 2", in alto a destra (a seguire in senso orario). Francobollo del Territorio Libero di Trieste da 10 lire, con stampigliatura "A.M.G. F.T.T", ossia "Allied Military  Government Free Territory of Triest", 1947-1954. Francobollo del Governo Militare Alleato della Venezia Giulia da lire 2 con stampigliatura: "A.M.G. V.G.", ovvero "Allied Military  Government of Venezia Giulia". Francobollo iugoslavo da 5 dinari, timbrato nel 1957. Collezione privata, Udine - 
fotografia di Elio Varutti

Ecco un’altra testimonianza. È la signora Mariagioia Chersi in Laudicina, nata a Parenzo nel 1942 che racconta. Esule a Udine, dove è stata da me intervistata il 23 marzo 2015, ricorda alcuni fatti del Campo profughi del Silos di Trieste. Per chi volesse vedere la sua testimonianza completa, vedi “La foiba di Mario e Giusto da Parenzo” nel mio blog.

«Son venuta via nel 1949 – ha detto la signora Chersi – lo zio Francesco Gripari jera a Udine al Campo Profughi de via Pradamano, dopo se andà a Milano, ecco perché gò parenti anche lì. Altri parenti nostri jera al Campo del Silos a Trieste, dove i lavatoi jera senza vetri alle finestre. Posso dire che non siamo stati bene accolti in Italia».  

L'edificio del Silos di Trieste nel 1939

2. Con le parole di Marisa Madieri

Propongo ora una riflessione personale. Ho riletto, dopo, un po’ di tempo, il bellissimo Verde acqua di Marisa Madieri, del 1987, Einaudi, Torino (esiste una ristampa del 2006). Non occorrerebbe nemmeno accennarlo a chi conosce la letteratura dell’esodo. Questo libro è come la Enciclopedia Treccani circa il Campo Profughi del Silos di Trieste. La gente dell’esodo giuliano dalmata, come la madre dell’autrice, è qui descritta come “oppressa dagli affanni, dalla miseria, da una madre tirannica, dalla mancanza di una casa…” (pag. 11). La Madieri, con la famiglia, fuggì da Fiume nel 1949, sotto la pressione antitaliana dei titini.
Al Silos vissero migliaia di profughi istriani e dalmati. Essi erano accampati, anche se non in vere e proprie tende da campo. Costruito ai tempi dell’Impero asburgico, l’edificio a tre immensi piani, con ampia facciata ornata da un rosone e da due lunghe ali, era un deposito di granaglie, appunto, un silos. Frotte di bimbi giocavano in una specie di cortile interno. Era come “un paesaggio vagamente dantesco” (pag. 67-68). La costruzione è ancor visibile all’esterno della stazione ferroviaria.
Tutto lo spazio possibile era suddiviso da pareti in legno, prima erano vecchie coperte tirate sugli spaghi, in tanti piccoli scomparti detti «box», per l’intimità di ogni singola famiglia. I box si susseguivano senza intervalli, come celle di un alveare (pag. 68). I box erano numerati e ai corridoi era stato dato un soprannome: “La strada della dalmata”, oppure “la Via dei Polesani”, oppure quella meno prosaica di “Via dei Lavandini”.
Tessera di riconoscimento emessa nel 1947 dalla Prefettura di Trieste ai primi arrivi di profughi istriani sistemati ai magazzini portuali del Silos. Archivio Istituto regionale di cultura istriano fiumano dalmata (IRCI) Trieste
“Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale” (pag. 68). Quando pioveva si dovevano mettere parecchi secchi e catini perché l’acqua gocciolava dal tetto.
Aggiunge la Madieri riferendosi alla nonna Quarantotto, che si dava da fare per organizzare petizioni, raccolte di soldi per i disagi ed altro: “Il prefetto un giorno la soprannominò la sindachessa del Silos, titolo di cui andò sempre fierissima (pag. 90). La Cappella per la messa ed altri riti religiosi nel Campo Profughi del Silos è stata un’opera delle sue richieste firmate a furor di popolo (pag. 114).

In inverno nel Silos faceva un freddo cane e d’estate, invece c’era un caldo boia (pag. 93). I miasmi si mescolavano ad odori di ogni sorta; in certi momenti spiccava quello dei fagioli secchi messi a bollire (pag. 104). I fagioli erano molto economici e potevano ben rientrare nel sussidio dato dall’autorità.  
Nel Campo del Silos c’erano tanti disagi anche di tipo sociale, come la descrizione del marito ubriaco che picchia la moglie (pag. 97), oppure il suicidio (pag. 115) o l’emigrazione in Australia (pagg. 117 e 126). Con toni pacati viene descritta una certa promiscuità verificatasi nei box, con i “sussurri complici degli amanti” che potevano essere ascoltati da chiunque, “oltre l’esile parete divisoria” tra un box e l’altro (pag. 99).

Edouard Manet, Lapin, 1865, Collection Jacques Doucet, Musee Angladen, Avignone (Francia). Foto di Elio Varutti. "Le vecie istriane, per darse un poco de arie, diseva che la pelicia de conicio la jera de Lapin..."

Quando c’era penuria di soldi, c’era i Monte di Pietà. Le mamme e le zie si privavano perfino del gioiello portato via nell’esodo, senza che le guardie confinarie slave se lo fregassero, oppure della consunta vecchia pelliccia di coniglio, per andare incontro alle spese dei figli o della comunità familiare. Siccome svela il titolo del libro, siamo davanti al passo più toccante di queste commoventi pagine di alta letteratura, perché i soldi così raggranellati dalla madre della Madieri servirono per comprare “un completino in fibra sintetica color verde acqua” (pag. 121).

3. Campi profughi di Opicina e di San Sabba a Trieste

Dopo un inquadramento storico e filosofico, Chiara Dereani, diplomanda del Liceo Marinelli di Udine, scrive le seguenti parole nel suo elaborato per l’esame di stato, nel paragrafo intitolato La storia dei miei nonni. È un interessante racconto della memoria. I nonni sono Anna Riccobon (1930  e Sergio Micheli (1927); essi si sposano il 14 novembre 1953 a Capodistria, dove erano nati. Un anno dopo fuggirono in Italia. Furono accolti a Trieste in due Campi Profughi (Opicina e San Sabba), dove restarono fino al 1960, quando si trasferirono a Udine.
Le fotografie sono inserite così nella tesina di Chiara Dereani (prive di didascalia)

Per ogni riferimento bibliografico vedi: Chiara Dereani, Tra l’essere qui e l’essere là. L’esodo delle popolazioni giuliano dalmate, tesina di diploma, classe 5^ A, Liceo scientifico “G. Marinelli”, Udine, anno scolastico 2013-2014, dattiloscritto.
Per una maggior scorrevolezza, nelle parentesi riquadrate si sono aggiunte alcune parole del curatore; il resto del testo è quello originale della studentessa Chiara Dereani, che si ringrazia per l’autorizzazione alla pubblicazione e alla diffusione del suo prezioso elaborato.

“I miei nonni materni si chiamano Anna [Riccobon] e Sergio [Micheli]. Entrambi sono nati a Capodistria, piccola cittadina costiera dell’attuale Slovenia. La nonna è nata nel 1930, il nonno nel 1927, entrambi fanno parte dei tanti profughi giuliano dalmati che nel dopoguerra lasciarono le proprie terre per poter mantenere la nazionalità italiana.
Mio nonno Sergio proviene da una famiglia di pescatori / navigatori: suo padre lavorava in un motoveliero che trasportava materiali e derrate lungo tutto l’Adriatico, dopo la guerra trasportava anche passeggeri.
Dopo la scuola primaria il nonno si iscrisse prima al ginnasio di Capodistria, poi al liceo classico, che riuscì a frequentare fino all’età di 17 anni (seconda liceo). Nel 1944 fu reclutato dai tedeschi – che avevano occupato la città – come aggregato per la costruzione di bunker e trincee al confine tra Trieste e Fiume [nella Organizzazione Todt]. Da lì tornò a Capodistria nel febbraio del 1945 e [fu] arruolato nella Guardia civica, per il pattugliamento della città. Finita la guerra tornò a casa. Non terminò gli studi.
La famiglia di Anna era di origini contadine, durante i primi anni visse in una grande casa che ospitava più generazioni della stessa famiglia poi, quando aveva 18 anni, questa famiglia di tipo patriarcale (che in alcuni momenti aveva raggiunto le 18 persone) si divise e la nonna, con i genitori e due sorelle, andarono ad abitare in una casa più piccola e unifamiliare. Del periodo della guerra la nonna ha ricordi di paura – in particolare delle lotte tra partigiani e tedeschi – anche perché nella famiglia in cui viveva c’era uno zio partigiano e la sua casa era spesso controllata dai tedeschi.
I nonni si sono conosciuti quando lei aveva 15 anni e lui 18, si sono sposati nel 1953. Alla data del matrimonio da tempo era iniziato l’esodo degli istriani, da quando con il Trattato di Parigi – siglato il 10 febbraio 1947 – fu istituito il Territorio Libero di Trieste e [furono] costituite la Zona A [del TLT], amministrata dagli angloamericani, e la Zona B [del TLT], controllata dal governo jugoslavo.


Fazzoletto tricolore per la riunificazione di Trieste all'Italia, avvenuta il 26 ottobre 1954. Così finiva l'esperienza del Territorio Libero di Trieste, ma la Zona B, controllata dagli iugoslavi passava definitivamente sotto il loro potere.
Collezione E. Conighi, Ferrara
Nel 1954 – poco prima del Memorandum di Londra che sanciva che la Zona A sarebbe passata all’amministrazione provvisoria del governo italiano e quando era ormai chiaro che la Zona B non sarebbe mai tornata all’Italia, il nonno propose alla nonna di lasciare Capodistria per rifugiarsi a Trieste, dopo aver lasciato tutto quello che avevano.
A Trieste, nei primi mesi, furono ospitati nei cosiddetti “Campi Profughi”; in un primo tempo nel quartiere di Opicina, dove uomini e donne vivevano separati: la nonna fu ospitata in una antica villa, il nonno insieme ad altri uomini in un vecchio edificio fatiscente predisposto con camerate per ospitare i profughi. Dopo alcuni mesi si trasferirono, questa volta insieme, prima in alcune case prefabbricate (“baracche”) nella zona di San Sabba, infine di nuovo a Opicina.
 Il campo profughi consisteva di diversi edifici prefabbricati in legno, freddi d’inverno e caldi d’estate; il campo era recintato, dopo le 22,00 veniva chiuso e non era consigliato uscire. I servizi igienici e le docce erano in comune. Mia zia Elvia è nata nel 1955 nel Campo Profughi di Opicina, dove ha vissuto fino all’età di 5 anni, quando si sono trasferiti a Udine.
Non hanno mai rimpianto la scelta fatta. Solo il nonno parla con nostalgia del mare che ha lasciato. È un esperto conoscitore dei venti e riesce a fare sempre delle buone previsioni del tempo attraverso l’osservazione del cielo, lo studio del suo barometro torricelliano, il calcolo delle fasi lunari e l’aiuto di alcuni proverbi e ‘detti’ del suo paese”.

Le fotografie sono inserite così nella tesina di Chiara Dereani (prive di didascalia)

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Questo articolo rientra nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Il secolo Breve in Friuli Venezia Giulia”, che  ha ottenuto il patrocinio di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana, ANED, ANVGD e del Comune di Martignacco, nel cui ambito territoriale sorge Villa Italia, che fu residenza del re Vittorio Emanuele III dal 1915 al 1917. 

 Campo profughi San Sabba a Trieste

Trieste, 1 maggio 1945. Strada per Opicina, carri armati di Tito occupano Trieste.

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