«La storia
del mio esodo fiumano inizia il 29 novembre 1950 – racconta Ireneo Giorgini, nato a
Fiume nel 1937 – cinque anni dopo la fine della guerra. Mio padre, Alessandro
Juricich, optò per la cittadinanza italiana, ma la richiesta fu respinta una
prima volta con la motivazione: lingua
d’uso croata.
Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo
Il ricorso venne respinto una seconda volta con la
motivazione: lingua d’uso non italiana.
Forse perché allora il nostro cognome era Juricich, di chiara appartenenza ai territori giuliano-istriano-dalmati. Dal 1930 in avanti i tanti cognomi furono
trasformati in lingua italiana d’ufficio. Due fratelli di mio padre divennero
Giorgini, perché dipendenti di aziende importanti. Mio padre rinunciò perché
non fu obbligato».
La testimonianza di Ireneo Giorgini è già apparsa nel web, in una versione giornalistica, sul sito di Valdarnopost del 9 febbraio 2015, col titolo: “La nostra vita nel campo profughi di Laterina. La testimonianza di due esuli”, di Glenda Venturini. Siccome è un’esperienza significativa e ben raccontata, ci permettiamo di riprenderla e di fare qualche approfondimento.
La testimonianza di Ireneo Giorgini è già apparsa nel web, in una versione giornalistica, sul sito di Valdarnopost del 9 febbraio 2015, col titolo: “La nostra vita nel campo profughi di Laterina. La testimonianza di due esuli”, di Glenda Venturini. Siccome è un’esperienza significativa e ben raccontata, ci permettiamo di riprenderla e di fare qualche approfondimento.
Ma, signor Ireneo Giorgini, siete riusciti a venir via? «Finalmente,
al terzo ricorso fu concesso il visto per andare via – risponde - Partimmo da
Fiume il papà Alessandro, la mamma Norma Milotich e il nonno materno con le
nostre masserizie, raccolte in dieci cassoni e le valigie. Il nonno era Antonio
Milotich, nato a Fiume nel 1868, fu il primo pensionato del silurificio di Fiume, viveva alle Casette, ossia le case popolari dei dipendenti del
silurificio.
La prima tappa dell’esodo fu il Centro Raccolta Profughi (CRP) di Trieste Opicina. Ricordo le strutture semicircolari tipo hangar, con le camerate separate per uomini e per le donne».
La prima tappa dell’esodo fu il Centro Raccolta Profughi (CRP) di Trieste Opicina. Ricordo le strutture semicircolari tipo hangar, con le camerate separate per uomini e per le donne».
Ireneo Giorgini, tra la mamma Norma Milotich e il babbo Alessandro Juricich, poi Giorgini
Come le sembrò questa parte dell’Italia? «Scendemmo a Trieste e mi colpì un fatto – ha detto Ireneo
Giorgini – una salumeria aveva in vetrina una mortadella gigantesca, mai vista
una così prima. Poi mi feci comprare la Gazzetta dello Sport e la Settimana
Enigmistica».
Siete passati per Udine? «Dopo fummo
trasferiti a Udine – continua – al Centro Smistamento Profughi e qualche giorno
più tardi arrivò la destinazione: Laterina, provincia di Arezzo. Dove? In
Toscana! Benché avessi frequentato a Fiume le scuole italiane e studiato la
geografia, conoscevo la Toscana, che per me si limitava a Firenze, Pisa e
Livorno».
A Laterina cosa succede? «Arrivammo
a Laterina la mattina del 5 dicembre 1950 – risponde – la corriera della
stazione ferroviaria ci lasciò dopo 5 km di strada bianca, davanti a una
stradina. Ci chiedevamo: dove andiamo? Scendemmo e in lontananza vedemmo delle
costruzioni basse del Centro Raccolta Profughi. Ci avvicinammo con le nostre
valigie e una persona ci rivolse la parola: “Da dove venì?” – ovviamente in
dialetto. “'Da Fiume”. E quello: “Andé a presentarve in ufficio”. E da lì è
iniziata la nostra carriera di ospiti del CRP di Laterina. In Italia erano
presenti 106 strutture di quel tipo. Location,
si direbbe oggi!»
Come era la vita al CRP di Laterina? «La nuova vita iniziò lì. – ha detto Ireneo Giorgini – Lascio immaginare i miei genitori all’epoca quarantenni
a vedersi assegnare un posto alla “baracca 12”, in comunità con un’altra
famiglia. Il personale del CRP ci aiutò a portare dal magazzino le brande, i
pagliericci e la paglia per preparare i giacigli, mentre il nonno fu
immediatamente ricoverato in infermeria: aveva 82 anni. Morì a Torino nel 1956».
Rifugiati al Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo
Dove mangiavate? «I muratori
del CRP ci costruirono, in mezza giornata, un fornello a legna tutto in
cemento. – ha detto
Ireneo Giorgini – L'acqua si prendeva alla fontana comune. I servizi igienici erano
in fondo al campo. Teniamo presente che queste baracche furono costruite in
tempo di guerra, come campo di concentramento per i militari alleati e poi per
i militari tedeschi. I primi profughi nel 1945 trovarono ancora il filo spinato
che lo cintava. Io, quattordicenne, mi adattai subito. A gennaio ripresi la
scuola in Arezzo, insieme ad altri ragazzi e ragazze: Avviamento Professionale,
Liceo, Istituto Tecnico Industriale, Ragioneria. Questo per quattro anni.
Alcune di queste amicizie le coltivo ancora a Torino con ex ragazzi e ragazze
residenti in Toscana».
Come era la giornata tipo al Campo Profughi? «La vita era ben organizzata: mattino scuola! – ha detto Ireneo Giorgini – Il primo anno, nel 1951, si andava ad Arezzo
in treno, poi la corriera fino alla stazione andata e ritorno, servizio pagato
dall’Assistenza Post Bellica, libri scolastici compresi. Peccato che a volte
gli orari ferroviari non erano coordinati con la corriera per cui si doveva
aspettare quello della sera: quattro ore o 5 km a piedi».
E allora come facevate? «Si
facevano in allegria quei chilometri tagliando per i prati, i boschi e gli
argini dell’Arno. – ha
detto Ireneo Giorgini – Pranzo alle
15.00. E poi a “zogar la bala”, quando c’era il pallone, il più delle volte
scalzi su un campo di terra. Lascio immaginare cosa succedeva quando l’alluce
incontrava una pietra. Allora di corsa in infermeria a farsi medicare. La
signora Virginia, l’infermiera del campo ci rimproverava: “Sempre ‘sta bala.
Meté le scarpe!”. “E con cosa andemo a scola: discalzi?” – era la mia risposta».
Ireneo Giorgini, con la mamma Norma Milotich e il babbo Alessandro Juricich, poi Giorgini tra le baracche del Centro Raccolta Profughi di Laterina
C’è qualche altro ricordo? «Il tempo
libero per gli adulti era impiegato ad operarsi per rendere più confortevole il
soggiorno. Imbiancatura delle camerate, piccoli giardinetti, chi si inventava
un orticello chi allevava qualche gallina, chi andava a fare un po’ di spesa
nelle fattorie vicine. Noi giovani che si faceva? Giocare per le campagne a
fare i bagni in estate nell’Arno, ascoltare la radio, il campionato di calcio,
il Giro d'Italia, giocare a scacchi (tanto) e studiare. Poi mi viene in mente
che mia mamma, in baracca, canticchiava nelle faccende domestiche e mio papà le
domandò: Che ti canti? E lei rispose: Cos ti vol che pianzo?».
Cerano dei passatempi? «Poi c’è
stata la scoperta della TV. – ha detto Ireneo Giorgini – In paese un negozio di
elettrodomestici, siamo nel 1953, aveva in vetrina il primo televisore. La
domenica pomeriggio ci si accalcava davanti alla vetrina, allungando il collo,
per vedere la partita mentre la domenica sera, al salone ACLI, si andava a
vedere la “Domenica Sportiva. C’era anche il cinema con la proiezione serale.
Lì mio padre durante la proiezione di “Te per due”, con Doris Day, mi sorprese
con una sigaretta e mi mollò una sberla, per cui tutto il cinema si girò».
Quando vi siete trasferiti a Torino? «Nel 1954 venne il sospirato trasferimento a Torino Casermette
di Borgo San Paolo. – ha detto Ireneo Giorgini – Ci trasferimmo in cinque
perché nel frattempo nacque mio fratello Roberto. E qui inizia un’altra storia».
Chi racconta è Ireneo Giorgini. Avete inteso che nel 1945 si
chiamava Juricich?
Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo, interno di famiglia
«Arrivati a
Torino i due fratelli di mio padre insistettero affinché cambiasse anche lui il
cognome per ragioni di coerenza. – ha aggiunto Ireneo Giorgini – Mio padre acconsentì. Così a Torino ho
frequentato la terza ragioneria con il cognome Juricich, mentre in quarta ero:
Giorgini. Ma ancora oggi dopo 60 anni i miei ex compagni di scuola mi salutano
così: Ciao Juricich».
«Nel 1969
mi sono sposato con una ragazza torinese: Carla – ha concluso Ireneo Giorgini –
In viaggio di nozze siamo passati a Laterina. Poi ancora nel 1987 ci siamo
ritornati con nostra figlia Emanuela, allora quindicenne. Oggi a Torino sono
impegnato con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), fasemo
la festa de San Nicolò e de San Vito, con un pranzo per oltre 120 persone,
gavemo tre chitare e se canta la Mula de Parenzo e tanti altri canti della
nostra tradizione».
Sul verbo fuggire per i profughi di Fiume
Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, classe 1925, vuole
essere preciso riguardo ai verbi da usare in riferimento all’esodo da Fiume. Il
Comune di Laterina ha pubblicato un libro sul Campo Profughi. Il signor Tardivelli vuole criticare l’utilizzo del verbo
“fuggire” nelle pagine dedicate alla nostra storia pure in tale pubblicazione.
Ad esempio a pag. 9 si legge: “(…) il Campo di Laterina (fu) riattivato nel
1948 e destinato a Campo Profughi per accogliere gli italiani che fuggivano da
Fiume, dalla Dalmazia… ecc.”.
Tardivelli contesta così: “Fuggivano: è un verbo caduto sulle nostre teste. Fummo vittime e,
in un certo senso, lo siamo ancora oggi. Per il fatto di essere etichettati come
fascisti. Oppure perché le nostre donne vennero definite “di malaffare” dalle
malelingue, perché eravamo venuti via da quel paese comunista. Il paradiso di
Tito!”
Ci sono altre contestazioni, ne scegliamo una che fa
riferimento alla pag. 46 della pubblicazione citata: “…i profughi provenienti
dalla Venezia Giulia dalla Dalmazia e dal Dodecanneso, ecc.”
Risposta di Tardivelli: “C’era una netta distinzione fra i
profughi provenienti dalle varie località! La situazione del popolo degli esuli
provenienti dalla Jugoslavia di Tito era che si doveva optare per ritornare ad
essere italiano. Pochi sono quelli che riuscirono effettivamente a fuggire,
perché non potevano ottenere l’opzione, oppure perché era stata loro respinta. Decine sono le vittime
colpite alla schiena, dalle
pattuglie della Milizia Popolare, nel tentativo di fuga (questa volta, sì: “fuga”)
sulla linea di demarcazione”.
Laterina, provincia di Arezzo, profughi giuliano dalmati al bagno nell'Arno: "Una bela nodadina!"
Ecco l’ultima considerazione. “I nostri racconti coincidono
con tutti quelli degli amici e compagni di sventura – scrive Aldo Tardivelli –
le tribolazioni, e la vita nei Campi Profughi, il giornaliero vagare per le vie
delle città in cerca di lavoro ed in certe zone d’Italia ci veniva rifiutato,
perché erano quelli… Allora ci furono coloro che presero la dolorosa scelta di
emigrare oltre oceano, che così ci hanno scritto. Sono i pensieri di alcuni
amici australiani:
“La disperazione morale sempre più profonda portò alla logica
più obiettiva: emigrare! In migliaia gli Esuli decisero di non accettare e
rimanere in quell’Italia che avevano tanto amato. E così dovettero trasformarsi
in «displaced persons», ossia “senza patria”, quindi “apolidi”, per essere accettati,
lasciando alle spalle i ricordi, amici, parenti, città, cultura e l’Italia, pur
sapendo che forse non l’avrebbero più rivista, partirono per il Canada,
l’Australia, gli U.S.A”.
Profughi d'Istria, di Fiume e Dalmazia in un CRP. Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova
Fonte orale e
ringraziamenti
Ringrazio per la disponibilità dimostrata nella raccolta
delle informazioni il signor Ireneo Giorgini, Fiume 1937, esule a Torino, da me
intervistato al telefono il 30 gennaio 2017. Le fotografie del CRP di Laterina risalgono
al 1953-1955 e fanno parte della Collezione Ireneo Giorgini di Torino, se non
altrimenti precisato.
Per la collaborazione alla ricerca sono riconoscente a
Claudio Ausilio, delegato provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia
Giulia Dalmazia (ANVGD) di Arezzo, perché mi ha messo gentilmente in contatto
con i signori Giorgini e Tardivelli, preparando il momento dell’intervista.
I contenuti dell’articolo presente sono già apparsi nel web,
in una versione giornalistica, sul sito di Valdarnopost del 9 febbraio 2015,
col titolo: “La nostra vita nel campo profughi di Laterina. La testimonianza di due esuli”, di Glenda Venturini, che si ringrazia per la gentile concessione alla parziale
riproduzione.
Cenni bibliografici e
del web
- Ivo Biagianti (a cura di), Al di là del filo spinato. Prigionieri di guerra e profughi a Laterina
(1940-1960), Comune di Laterina, Stampa Centro editoriale toscano, pagg.
163 ; ill., s.d. [ma, 1999-2000?].
- Aldo Tardivelli, “Un filo spinato… non ancora rimosso”, testo
videoscritto in formato Word, s.d., p. 1-7.
Sulla confusione dei cognomi, generata da parte slava, si può leggere l’intervista
a Flavio Serli di Umago. Vedi: Esodo
da Umago nel 1961. Cognome straziato (2016), in questo stesso blog.
Fotografia da Internet