È appurato che a Udine sud, nell’area
dello scalo ferroviario, tra Via Buttrio, Via Pradamano, Via Romans e Via
Monfalcone, nel 1943-1945, stazionano i treni merci carichi di ebrei provenienti
dalle retate naziste di Trieste, Pola e Fiume.
Amburgo, sotterranei
della scuola Bullenhuser Damm, 20 bambini ebrei impiccati «come quadri alla
parete». Disegno a
pastelli su carta di Sebastiano Pio Zucchiatti e Gabriele Anelli Monti, 21 x
29,6 cm, 2019, courtesy degli autori
Essi sono concentrati alla
Risiera di San Sabba o dal Carcere del Coroneo, o al comando delle Waffen SS, in Piazza Oberdan, o dal carcere dei Gesuiti, in Santa Maria
Maggiore per essere inviati ai lager. Si tratta di ebrei, per lo più askenaziti
e di altri prigionieri dei nazisti. A Udine i nazisti catturano cinque persone
di fede ebraica, compreso il senatore Elio Morpurgo, che muore durante il
trasporto. Nello scalo Sacca di Viale delle Ferriere, Via della Cernaia sostano
i vagoni pieni di ebrei provenienti da Venezia e diretti anch’essi ad Auschwitz
(Varutti 2016-2017).
La deportazione di tali vittime ha
come meta finale il Campo di concentramento di Auschwitz, di Birkenau e altri
lager simili, passando per Udine e per Tarvisio. Le strade udinesi di Via
Monfalcone e la vicina Via Romans, sono state create ambedue con deliberazione
il 26 settembre 1925, secondo l’Archivio Municipale di Udine. Nel 1928 la città
di Udine contava 60 mila abitanti.
La persecuzione degli ebrei inizia
nel 1938, con le Leggi razziali. Nelle città italiane, come a Fiume e Trieste,
gli studenti ebrei sono espulsi dalle scuole, i dipendenti pubblici perdono il
lavoro, i liberi professionisti sono espulsi dagli albi e gli imprenditori non
possono essere titolari della loro attività.
Ecco qui di seguito un’esemplare
storia di Fiume vissuta tra i banchi di scuola. Il riferimento va alla classe
Terza elementare della scuola elementare “Daniele Manin” di Fiume. C’è una
fotografia del 1938, dove il primo a sinistra, seduto sulla panca, è lo scolaro
ebreo Czelch. Seduto sulla panca a destra, con il fiocco, è Rodolfo Decleva,
autore del racconto. “Il compagno di classe Czelch sparì dal suo banco per qualche
nuova residenza segreta – ha raccontato
Rodolfo Decelva – nessun commento da parte della nostra signorina
Maestra probabilmente in osservanza delle disposizioni superiori malgrado che
nella nostra città da sempre ci fosse stata una numerosa colonia di ebrei con
la quale si conviveva a prescindere dai sentimenti religiosi. Immagino che
analogo silenzio avvenne anche nel 1924, quando la città venne annessa
all’Italia e tanti ungheresi e croati preferirono l’esilio alla nostra
Amministrazione”.
Udine,
scalo ferroviario di Via Buttrio dove sostavano i vagoni merci nel 1944-1945. Fotografia di Elio Varutti 2016
Il bambino fiumano Sergio De Simone sotto le grinfie di Menghele e Heissmeyer
Si presenta ora un’altra storia di un
bimbo ebreo di Fiume. Sergio è deportato all’età di sei anni ad Auschwitz.
Ormai la sua vicenda è contenuta in Internet. L’ha diffusa, nel mese di aprile
2018, Maria nel gruppo di Facebook intitolato Esodo istriano, per non dimenticare. Già dal Giorno della Memoria del 2012 la drammatica vicenda viene diffusa in tale contenitore culturale di Facebook.
Tra i venti bambini ebrei uccisi nella scuola di Bullenhuser Damm c’è Sergio De Simone, l’unico bambino italiano, figlio di mamma fiumana e di papà napoletano. Ne hanno scritto sia Paolo De Luca su «La Repubblica» del 27 gennaio 2016, sia Maria Pia Bernicchia nel 2005-2006. Prima di lei è stato il giornalista tedesco Günther Schwarberg a pubblicare, tra i primi, nel 1984 e nel 1996 l’atroce traversia dei venti bambini impiccati dai nazisti nella scuola di Bullenhuser Damm, dopo esperimenti clinici fallimentari. Vedi inoltre la ricerca di Liliana Picciotto, un prodotto fondamentale per lo studio della Shoah in Italia (Picciotto 2002, pp. 66-71 e 77-80).
Tra i venti bambini ebrei uccisi nella scuola di Bullenhuser Damm c’è Sergio De Simone, l’unico bambino italiano, figlio di mamma fiumana e di papà napoletano. Ne hanno scritto sia Paolo De Luca su «La Repubblica» del 27 gennaio 2016, sia Maria Pia Bernicchia nel 2005-2006. Prima di lei è stato il giornalista tedesco Günther Schwarberg a pubblicare, tra i primi, nel 1984 e nel 1996 l’atroce traversia dei venti bambini impiccati dai nazisti nella scuola di Bullenhuser Damm, dopo esperimenti clinici fallimentari. Vedi inoltre la ricerca di Liliana Picciotto, un prodotto fondamentale per lo studio della Shoah in Italia (Picciotto 2002, pp. 66-71 e 77-80).
Udine, Via della Cernaia verso Via Marsala, presso lo scalo
Sacca dove sostavano i treni di ebrei deportati provenienti da Venezia. Fotografia E. Varutti 2019
La storia di Sergio De Simone inizia
in Italia, a Napoli, nel quartiere del Vomero, al numero 8 di Via Scarlatti, il
29 novembre 1937, come si vede nel web. Eduardo De Simone e sua moglie Gisella
quel giorno sono felici è nato il primo figlio. È un maschietto, lo chiamano Sergio
appunto. L’Italia fascista non ha ancora varato leggi razziali, Gisella che è
israelita pensa al suo bambino e al futuro che avrà. Papà Eduardo è imbarcato nella Marina militare. La
guerra è lontana. Gisella è nata a Vidrinka il 23 settembre 1904, in Russia e
in quel giorno di novembre mentre guarda il suo bambino ha da poco compiuto 33
anni.
Come si siano conosciuti Eduardo e
Gisella non si sa. Forse Eduardo era arrivato a Fiume per lavoro, forse aveva
visto quella bella ragazza durante una passeggiata in una giornata di riposo.
Gisella viveva lì a Fiume e forse incontrò per la prima volta Eduardo mentre
passeggiava con Mira e Sonia le sue due sorelle, o mentre teneva per mano il
fratellino Giuseppe.
Probabilmente quando Gisella a Fiume decise
di parlare di Eduardo ai suoi genitori il padre Moise Perlow avrà scosso la
testa, avrà pensato che il matrimonio con un ragazzo napoletano avrebbe
allontanato da sé la figlia. Forse avrà incrociato con lo sguardo quello di sua
moglie Rosa Farberow per
capire cosa ne pensasse. In fondo non ha molta importanza sapere come Eduardo
conobbe Gisella. Di certo sappiamo che quando si sposano Gisella se ne va con
Eduardo a Napoli, in un’altra città di mare, come Fiume.
Udine,
Via della Cernaia, palazzina dismessa delle ferrovie crivellata di schegge dei
bombardamenti del 1944. Fotografia E. Varutti 2019
Certamente quel 29 novembre 1937,
Eduardo telegrafò a Fiume per far conoscere la buona notizia ai nonni, alle
zie, al giovane zio Giuseppe Perlow. Mentre il bimbo Sergio si fa grande, il
mondo comincia a bruciare. Prima ci sono le Leggi razziali del 1938 e, nel
settembre 1939, i giornali annunciano che la Germania è entrata in guerra. Il
10 giugno 1940 anche l’Italia fascista partecipa al conflitto. Papà Eduardo è
sempre più spesso lontano come tanti, come tutti nella marineria. In quasi tre
anni di guerra la vita si fa sempre più difficile. Napoli subisce pesantissimi
bombardamenti anglo-americani: quasi 10 mila case cadono sotto le bombe. È
forse per paura degli aerei Alleati, forse perché si sente sola, Gisella decide
di trovare rifugio a Fiume, che le sembra più sicura, che le sembra più lontana
dal fronte che, dopo lo sbarco americano in Sicilia, si avvicina sempre di più
al resto d’Italia.
Così Gisella e il piccolo Sergio
raggiungono Fiume. L’8 settembre del 1943 si sa che l’Italia ha firmato l’armistizio
con gli Alleati, mentre il generale Badoglio annuncia che “la guerra continua”.
I soldati non capiscono, la gente nemmeno. È il cosiddetto ribalton. A Fiume cambiano molte cose. I tedeschi occupano l’Italia,
ne strappano ampie zone, ponendole sotto la sovranità del Reich. Fiume entra a
far parte dell’Adriatische Küstenland,
Zona d’occupazione nazista. Arrivano nuovi padroni. Arriva Odilo Globočnik e
tutti gli uomini delle Waffen SS, che
hanno prima ucciso col gas migliaia di disabili tedeschi nel quadro del
progetto eutanasia e che poi hanno costruito i campi di concentramento di
Treblinka, Sobibor e Belzec.
Fiume 1938, classe terza elementare “Daniele Manin”, lo
scolaro ebreo Czelch è il primo seduto a sinistra. Seduto sulla panca a destra,
con il fiocco, è Rodolfo Decleva, autore di Qualsiasi
sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia, Genova, s.e., 2014. Elaborazione
della fotografia di Sebastiano Pio Zucchiatti 2019
Arrivano a Trieste e Fiume gli uomini
che hanno mandato nelle camere a gas quasi un milione e mezzo di ebrei.
Arrivano e la caccia agli ebrei si apre. Gisella e Sergio non tardano a cadere
nella rete criminale. Il 21 marzo 1944 le Waffen
SS fanno irruzione nell’appartamento dei Perlow, in via Milano 17,
arrestano Gisella, le zie Mira e Sonia, lo zio Giuseppe e il piccolo Sergio.
Tutti sono portati al campo di concentramento funzionante alla Risiera di San
Sabba, a Trieste. Il tempo di una giornata ed il 23 marzo vengono fatti salire
sul convoglio T25: destinazione Auschwitz. Quel treno passa per Udine e
Tarvisio, Klagenfurt, Vienna, attraversa l’Europa in quell’inizio di primavera.
Dopo centinaia di chilometri entra nella rampa di Auschwitz il 29 marzo. Sono
trascorsi sei giorni di viaggio.
Fiume,
scuola elementare “Daniele Manin”, anni Quaranta. Foto dal blog di Massimo
Speciari http://speciarimassimo.blogspot.com/2015/04/capitolo-i.html
Al Campo di sterminio di Auschwitz
103 maschi vengono inviati subito alle camere a gas ed eliminati. I rimanenti
29 vengono marchiati sul braccio con i numeri dal 179.587 al 179.615.
Cinquantatré donne – tra le quali Gisella, Mira e Sonia – vengono marchiate con
i numeri dal 75.460 al 76.512. Da questo momento il bambino Sergio di Fiume
diventa il prigioniero A 179.614. Per un poco viene lasciato con sua madre poi,
il 14 maggio 1944, il dottor Josef Mengele seleziona Sergio e lo sottopone ad
esami del sangue e lo fa operare alle tonsille. Insieme con lui vengono
selezionati altri 19 bambini: 9 maschi e 10 femmine. Il documento che riporta
questa attività di Mengele sfugge miracolosamente alla distruzione degli
archivi. Rappresenta l’unico documento ufficiale della tragedia che sta per
accadere. Sergio è solo. Lo portano al Block 10, la “Baracca dei bambini”, poi
ad Amburgo al campo di concentramento di Neuengamme, oggi museo con
interessante sito web.
I bambini sono utilizzati come cavie
per delle ricerche sugli anticorpi contro i bacilli tubercolari. Il 9 gennaio
del 1945, il dottor Kurt Heissmeyer, criminale di guerra, decide che è giunto
il momento di iniziare i suoi esperimenti, che non danno alcun esito. È il 12
marzo 1945, gli Alleati sono
ormai alle porte di Amburgo. A quel punto Kurt Heissmeyer ha già lasciato il
campo di concentramento di Neuengamme e il comandante del campo Max Pauly si pone
quindi il problema di cosa fare dei bambini. Il 20 aprile giunge direttamente
da Berlino l’ordine di far sparire ogni traccia di quanto avvenuto. Nella notte
tra il 20 e il 21 aprile 1945, qualche giorno prima della fine della guerra,
Sergio e gli altri bambini vengono trasferiti nella scuola amburghese di
Bullenhuser Damm, che dall’ottobre 1944 funge da sezione distaccata del campo
di concentramento di Neuengamme.
Amburgo,
Scuola di Bullenhuser Damm funzionò come sottocampo di Neuengamme, Amburgo.
Fotografia del 2013, per la diffusione in questo blog si ringrazia Flamenc, di
Viquipèdia catalana https://ca.wikipedia.org/wiki/Usuari:Flamenc
I primi a essere uccisi sono i loro
custodi, che in ogni modo fino all’ultimo cercano di proteggerli e tenerli in
vita con ogni cura: i medici francesi deportati, René Quenouille e Gabriel
Florence e i due infermieri olandesi, i deportati Anton Holzel e Dirk Deutekom,
assieme a sei prigionieri di guerra russi. A Sergio e agli altri bambini viene
iniettata una dose di morfina e sono quindi impiccati alle pareti della stanza.
L’eccidio si conclude all’alba con l’uccisione di altri otto prigionieri russi.
I cadaveri sono riportati nel campo di concentramento di Neuengamme e lì
cremati. La mamma di Sergio, Gisella Perlow sopravvive alla Shoah. Nei processi
per crimini di guerra vengono condannati e giustiziati alcuni degli aguzzini.
Menghele riuscì a scappare in Brasile e Paraguay.
Al processo contro alcuni dei criminali
di guerra, svolto nel 1946, la deposizione del militare delle Waffen SS Johann Frahm, del 2 maggio,
spiega che, dopo l’iniezione, ai bambini viene messa “loro intorno al collo una
corda e furono appesi a un gancio, come quadri alla parete (wie Bilder an die Wand)” (Bernicchia 2005-2006, p. 37-38 e 71).
Il fiumano Sergio De Simone. Dal libro di Maria Pia
Bernicchia
Amburgo, una rete di campi di concentramento
Il campo di concentramento di
Neuengamme era basato su una rete di campi di concentramento nazisti tedeschi
nel nord della Germania, come si legge nel web. Neuengamme consisteva nel campo
principale, poi c’erano addirittura oltre 85 campi satellite, come Luneburgo,
Brema... Fondato nel 1938, vicino al villaggio di Neuengamme, nel distretto di
Bergedorf ad Amburgo, il campo di Neuengamme vede passare oltre 100 mila
deportati. Alle donne erano destinati 24 sottocampi.
Il numero di morti accertati è 42.900.
Nel campo principale i decessi furono 14 mila, 12.800 nei sottocampi e 16.100
nelle marce forzate e durante i bombardamenti Alleati nelle ultime settimane
della seconda guerra mondiale. Dopo la sconfitta della Germania, nel 1945, l’esercito
britannico usò il sito come campo di internamento per le Waffen SS e altri funzionari nazisti. Nel 1948 gli inglesi
trasferirono il terreno alla città anseatica libera di Amburgo, che
sommariamente demolì le baracche di legno del campo e costruì al suo posto un
blocco di celle carcerarie, convertendo il precedente campo di concentramento
in due prigioni di stato gestite dalle autorità di Amburgo dal 1950 fino al
2004.
A seguito delle proteste di vari
gruppi di sopravvissuti e degli alleati, il sito ora funge da memoriale. Si
trova a 15 km a sud est del centro di Amburgo.
Udine sud, Giorno della Memoria 26.1.2018, Elio Varutti e
Tiziana Menotti. Sullo sfondo: treno di deportati a Pinzano con le donne che aiutano i prigionieri e gli ebrei. Foto di Leoleo Lulu
La scuola Cesare Battisti di Torretta a Fiume e i 317 deportati da Fiume
I nazisti, nel 1944, ammassano 317
ebrei di Fiume presso la scuola elementare “Cesare Battisti” di Torretta / Turnić.
È un luogo di transito per gli ebrei questa istituzione scolastica
dall’edificio imponente, costruito agli inizi del Novecento dall’ingegnere
italiano Carlo Alessandro Conighi (1853-1950) su progetto dell’architetto ungherese
Gyula Svab (1879-1938). È il figlio dell’ingegnere Conighi, l’architetto Carlo Leopoldo Conighi, a dirigere i lavori nella ditta paterna per l’edificazione di diciassette case
operaie nella zona di Torretta, sobborgo di Fiume, su commissione della
“Società anonima per la costruzione dei quartieri popolari” dal 1906 al 1912.
Tali notizie sono riprese da «Il Piccolo della Sera» di Trieste del 25 febbraio
1933 e da «La Vedetta d’Italia», del 26 febbraio 1933.
“Li portavano in questa scuola [di
Torretta] alla chetichella a bordo di vetture per non dare nell’occhio – ha
riferito Antonio Nini Sardi – vedevamo molta gente alle finestre della scuola e
le guardie tedesche che facevano la guardia, poi li hanno fatti salire sui
camion militari e li hanno portati alla stazione ferroviaria dove li hanno
caricati nei carri bestiame. Io frequentavo l’Oratorio della Chiesa di Piazza
San Nicolò e lì vicino passa la ferrovia, per giorni vedevo passare questi
convogli e dai piccoli finestrini con sbarre e filo spinato si vedevano la
facce di quella povera gente, ero un muleto [ragazzo] ma son rimasto molto
impresionado e impietosido, xe stada una bruta storia”.
Bambini operati di Bullenhuser Damm; nel riquadro rosso
Sergio De Simone. Dal libro di Maria Pia Bernicchia
Da Fiume vengono deportati nei lager
nazisti 258 ebrei in
base alle prime ricerche di Walzl; ne ritornano vivi solo in 22 (Walzl 1987). Nel 1903 essi erano oltre
2.600; la città portuale del Quarnaro, nel 1931, contava 53.896 abitanti. I
dati di Walzl sugli internati da Fiume tuttavia, secondo Curci, vanno lievemente
aggiornati così: gli ebrei residenti nel 1940, secondo la prefettura, erano
1.105. Quelli rastrellati e deportati ammontano a 243 persone, delle quali solo
19 sopravvissero (Curci 2015, p.
120). Si aggiunga, infine, che il monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di
Cosala, il 17 giugno 1981 è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla
Comunità ebraica della città del Quarnaro, dando più ragione quindi a Walzl.
Più preciso, infine, è Federico Falk
che scrive in modo documentato: “Ben 317 furono gli ebrei fiumani deportati per
lo più ad Auschwitz, e di questi solo 42 ritornarono (275 furono quindi le
vittime, come recita correttamente la lapide in città). Altri 53 vennero
deportati da Abbazia e Volosca, e di questi solo 4 ritornarono. Ai 370
deportati complessivi si devono aggiungere altre dodici persone che vennero
soppresse negli eccidi di S. Pietro, contrada Ari (Chieti), dell’aeroporto di
Forlì e nei pressi di Fiume. Il totale delle vittime dell’Olocausto nella
provincia del Carnaro ammonta quindi a 336 persone, ossia circa il 15% dei
residenti” (Falk 2016).
Il
campo di sterminio di Birkenau (Polonia), allora nei territori annessi al Terzo Reich. Fotografia E. Varutti 2017
A Fiume si rifugiano, tuttavia, almeno
altri 4.700 ebrei circa provenienti soprattutto dalla Jugoslavia occupata, come
si vede più sotto, in base alle importanti ricerche di Anna Pizzuti.
Secondo i dati del 2016 di Mauro
Tabor, la deportazione nei lager da Trieste, fulcro nevralgico dell’Adriatisches Küstenland, avendo colpito
anche la figura dell’ebreo “misto” (ossia l’assimilato e il discendente da
persone di altra religione, rintracciabile dalla sola evidenza del cognome) la
cifra complessiva degli internati è più alta. Pare vada oltre le 1.200 persone,
considerando che gli ebrei a Trieste, nel 1938, ammontavano a oltre 6.000
unità, tra le quali letterati, pittori, scienziati, medici e amministratori
d’aziende. Solo 1.500 sono i sopravvissuti e i rientrati in città (Tabor
2016, p. 334).
Fiume 1943, Sergio De Simone con le cugine Andra e Tatiana
Bucci, dietro, la mamma Gisella Perlow De Simone (al centro) e le zie Mira
Perlow Bucci e Paula Perlow. Fotografia da Internet,
per la diffusione in questo blog si ringrazia il sito seguente
Storie fiumane di ebrei
Sono questi 1.200 ebrei reclusi e
caricati sui vagoni bestiame a Trieste che transitano per la stazione di Udine
e Tarvisio, diretti ad Auschwitz. Sostano allo scalo di Via Buttrio a Udine. Nel
gruppo di deportati ci sono 700 triestini, metà di loro sono corfioti, solo
dieci sopravvivono. Chi di loro è ritornato a Corfù, occupata dal Regio
esercito italiano nel 1941, con la revoca della cittadinanza, è catturato dai
tedeschi il 9 giugno 1944. Da Corfù sono deportati 1.800 ebrei e solo un decimo
di loro si salva dai lager (Catalan et
alii 2013, p. 128).
Tra le vittime della Risiera di San
Sabba vi sono i 317 rastrellati e prelevati violentemente a Fiume, portando via
(rubando) tutte le loro masserizie, abiti e i loro arredi. Testimone della
retata nazista nella zona ebraica di Fiume è stata la signora Noemi Di Giorgio,
che lavorava nello studio di un avvocato, vicino all’area della perlustrazione
tedesca. “L’avvocato ci intimò di chiudere gli scuretti delle finestre
altrimenti avrebbero preso anche noi – ha raccontato la Di Giorgio – i tedeschi
presero donne, bambini ed anziani e li portarono via con i camion; nei giorni
successivi altri camion e uomini in divisa vennero per caricare mobili, merci
ed ogni cosa. Si portarono via tutto, non lasciarono neanche uno spillo”.
Luneburgo, Kalandhaus (Casa della satinatura tessile o
cartaria), funzionò come sottocampo di concentramento di Neuengamme, Amburgo. Foto
di Daniela Conighi 2019
La ricerca di Anna Pizzuti dimostra
che gli ebrei di Fiume schedati dalla Questura, in base alle Leggi razziali,
sono pari a 4.954 individui (Pizzuti 2016).
Ciò è dovuto all’arrivo a Fiume soprattutto di ebrei iugoslavi e di altre località
nel tentativo di salvarsi dai rastrellamenti degli ustascia croati, alleati dei
nazisti. Qualcuno proviene anche da Bengasi (Libia). Alcune migliaia di essi si
salvano. Chi li aiuta?
Silvia Cuttin ha raccontato la storia
dei suoi bisnonni, Marco e Sara Lager. Abitavano essi in Via Pomerio al civico
numero 28, vicino alla sinagoga grande in stile neomoresco, costruita nel 1903
dall’impresa di Carlo Conighi di Fiume e Abbazia e bruciata dai nazisti in un
attentato del 1944. La sinagoga era su progetto degli architetti Wilhelm
Stiassny, viennese (Bratislava 1842-Bad Ischl 1910) e Leopold Baumhorn,
ungherese (Kisbér 1860 – 1932).
Nel 1938 è in Via Pomerio che i
coniugi Lager perdono la cittadinanza italiana e gli viene requisita la radio,
in ottemperanza alle Leggi razziali. Al n. 31 della stessa strada abitava la
famiglia Godelli, o Goldstein, come ha raccontato alla Cuttin l’ebreo fiumano Martino
Godelli, deportato e sopravvissuto ad Auschwitz. Lì vicino abitava il rabbino
con la sua famiglia (Cuttin 2018).
Pietra d’inciampo a Luneburgo (Germania). “Qui abitò Marie
Klijnkramer, nata Feinghersch nel 1911. Fuggita nel 1939 nei Paesi Bassi,
internata a Westerbork, deportata nel 1944, morì ad Auschwitz”. Fotografia di Daniela Conighi 2019
Il campo di concentramento dell’Isola di Arbe
Nel 1941 il geniere Giuseppe Comand, di Latisana (UD), viene
trasferito per due anni nella Compagnia Antincendi di Sussa / Sussak, presso
Fiume, nel Golfo del Quarnaro. “Eravamo accantonati vicino al quartiere ebraico
– ha detto Comand in un’intervista – che poi li hanno fatti tutti sparire”.
La stessa Compagnia Antincendi, in zona di guerra, “aveva un
distaccamento all’Isola di Arbe – scrive Comand in un suo memoriale – circa una
quindicina di militari che facevano servizio anche per un campo di
concentramento, come ebbi a sentire per Ebrei”.
Un giorno un graduato, un Caporal maggiore, rientrò da Arbe /
Rab (oggi Croazia) e “venne alla Compagnia per servizio, così ebbi modo di
parlargli e sapere come di trovava. Oltre alla descrizione che mi fece del
posto, ricordo bene e mi rimase in mente, il particolare che ogni mattino, con
il camion che avevano in dotazione, dovevano andare dentro il campo di
concentramento a caricare dei morti. Rimasi molto male in quanto mi disse che
morivano circa quaranta per notte. Chiesi il perché di tutti questi morti e lui
mi rispose che pensava che fosse per fame in quanto tutti avevano delle
occhiaie nere e pensava che fossero tutti ebrei” (Comand 2018, p. 2).
Fiume, scuola elementare “Cesare Battisti”, frazione di
Torretta. Messaggio in Facebook nel gruppo Un Fiume di Fiumani del 27.1.2018 di
Antonio Nini Sardi, nato a Fiume nel 1931, presidente ANVGD di Novara
Secondo la letteratura i decessi al campo di concentramento di Arbe invece
avvengono soprattutto tra i prigionieri sloveni e croati, esponenti del neonato
movimento di liberazione, avendo l’Italia con la Germania invaso la Jugoslavia
il 6 aprile 1941. Come ha scritto Boris Mario Gombač, alla fine di aprile del
1941 il “Fronte di liberazione del popolo sloveno”, in lingua slovena Osvobodilna fronta (OF), diviene – a
causa dell’assenza dei partiti borghesi – l’unico referente politico di tutta
l’opposizione. In seguito all’attacco delle forze dell’Asse all’Unione Sovietica,
l’OF proclamò la ferma volontà di lottare contro gli aggressori nazifascisti,
organizzando a Lubiana e nei dintorni una rete di strutture illegali armate. Ad
autunno inoltrato – ha aggiunto Gombač – non mancava che la scintilla e la
guerra di liberazione sarebbe scoppiata in tutta la sua tragicità. Con alcune
azioni militari, come a Lož, il 19 ottobre 1941, il ponte di Preserje, 4
dicembre 1942 e il viadotto ferroviario di Verd, del 2 febbraio 1942, mirate
soprattutto a recidere tutti i collegamenti ferroviari e stradali di Lubiana
con l’Italia, la resistenza in Slovenia dichiarò una lotta senza quartiere all’esercito
di occupazione italiano.
Sinagoga
grande di Fiume, costruita nel 1903 dall’ingegnere Carlo Alessandro Conighi. Per
la diffusione della foto, grazie al fiumano Massimo Speciari
In seguito al nulla osta di Roma alla fine del febbraio del 1942,
a Lubiana venne instaurato un regime di terrore, come spiega Gombač. Dopo vasti
rastrellamenti da quartiere a quartiere, diverse migliaia di Lubianesi vennero
arrestati e, in un secondo tempo, internati nei campi di concentramento del
confine orientale, come Arbe (Dalmazia), Gonars (UD), Renicci di Anghiari (AR), Visco (UD) e Padova (Gombač 2007, pp. 202-206).
Come ha spiegato uno sloveno internato, tale Herman Janež,
che nel 1942 era ancora un bambino di sette anni: “Il campo di concentramento di Arbe
/ Rab venne diviso prima in due e poi in quattro sezioni. Alla sezione femminile
e a quella maschile seguirono la sezione per internati Ebrei e la sezione di
ricezione e smistamento” (Gombač 2007, p. 210). Secondo Janež i
decessi nel campo di concentramento di Arbe ammontano a 4.641 individui nei
tredici mesi di attività, fino a settembre 1943. Tali dati non trovano, però,
riscontro in letteratura.
Fiume, Via Pomerio, case di ebrei e, a destra, la sinagoga
grande distrutta dai nazisti nel 1944. Per la pubblicazione della foto, grazie a
Silvia Cuttin
Ebrei jugoslavi salvati
dagli italiani al Campo di Arbe
È un libro importante e molto documentato quello di Menachem Shelah. È intitolato “Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito
Italiano e gli Ebrei in Dalmazia (1941-1943)”. Destò un certo interesse sin
dalla sua prima edizione, nel 1991, con la traduzione dall’ebraico è di Gaio
Sciloni. Era un pezzo di storia del tutto sconosciuto (Shelah 2009).
Descrive la sorprendente vicenda di 3.577 ebrei jugoslavi
imprigionati, nell’isola di Arbe / Rab (oggi: Croazia) sotto la vigilanza delle
truppe italiane di occupazione. Essi sono liberati quando cadde il regime
mussoliniano nel 1943. È così che si salvarono “dalle grinfie naziste”, come ha
scritto Yossef Lapid, da Tel Aviv, nel 1985, per la presentazione del volume
edito nel 1991. Per quali motivi vengono salvati, pur essendo in vigore dal
1938, con l’avallo del re, le leggi razziali fasciste contro gli ebrei? La
risposta dell’autore, condivisa dal presentatore, è dovuta a motivi umanitari, pur
col pericolo di essere denunciati all’Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo (Ovra), ossia la
polizia segreta fascista.
Nel 1941-1942 molti alti ufficiali dell’esercito, il corpo
diplomatico, i funzionari statali, la polizia e la Chiesa avevano ormai
cognizione delle stragi e delle uccisioni di massa di ebrei perpetrate dai
nazisti e dai loro complici nei territori invasi, dalla Polonia, alla Francia
come, ad esempio, nella Croazia degli ustascia di Ante Pavelić, terribilmente
antiserbo e antisemita.
Sebastiano Pio Zucchiatti, Vagoni bestiame carichi di ebrei, acquerello, gouache e pastelli sucarta, cm 20,9 x 29,5 (particolare) 2016
Menachem Shelah spiega che alcuni generali dell’esercito di
occupazione italiano e taluni funzionari statali, ad esempio, quelli del
ministero degli Esteri, consapevoli dell’imminente crollo del fascismo, fecero
la rischiosa scelta anche per calcolo politico. Nel senso che il salvataggio di
quegli ebrei avrebbe potuto servir loro come salvacondotto nel momento della
resa dei conti con gli alleati vincitori (Shelah
2009). È vero, altresì, che tale considerazione non scalfisce il valore
del salvataggio compiuto, a rischio di essere spediti a loro volta nei lager
nazisti, come capitò a Giovanni Palatucci, questore di Fiume, un altro italiano
che, in certi frangenti, aiutò gli ebrei. Egli fu eliminato a Dachau.
Nell’edizione del 2009 del libro di Shelah è contenuto un
originale aggiornamento. Prima di tutto in una Presentazione alla ristampa, il colonnello Antonino Zarcone, capo
Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, chiarisce che: “Il dato
fondamentale che emerge dalla lettura della ricostruzione storica di Shelah è
il ruolo assunto dalle Unità dell’Esercito Italiano e dei militari presenti in
Croazia nel tutelare gli ebrei dalla persecuzione” (pag. IV).
Cartolina
di Sussa, nel 1942. Immagine da Internet
Di più, Leone Elio Paserman, presidente della Fondazione
Museo della Shoah, nella Prefazione alla
ristampa precisa che: “Resta il fatto che il Reale Esercito, insieme con
l’appoggio di alcuni diplomatici, protesse gli ebrei allora dimoranti nella
Dalmazia occupata, come, anche, nello stesso periodo, nella Francia
meridionale, rifiutandone la consegna ai nazisti con vari stratagemmi,
salvandoli da morte certa” (p. VI).
Le righe più significative di questa iniziale parte della
seconda ristampa del libro di Shelah, in ogni caso, sono riferite alle parole di
Renata Conforty pronunciate nella sinagoga di Cuneo il 31 maggio 2006, qui
pubblicate col titolo: Testimonianza (pp. VII-VIII). La signora
Renata Conforty “insieme alla mia mamma Olga, di 90 anni, e a mia sorella Dina,
che vive in Israele, possiamo pubblicamente ringraziare il tenente colonnello
Antonio Bertone, che ha salvato e protetto la nostra famiglia durante tutto il
periodo bellico, dal 1941 al 1945”.
I Conforty vivevano a Zagabria, dove il capofamiglia
Salvatore commerciava all’ingrosso in pellami e pelliccerie. Con l’invasione
della Jugoslavia da parte di Germania e Italia nel 1941 per gli ebrei locali
iniziarono le persecuzioni da parte degli ustascia con la deportazione verso i
campi di sterminio. Fuggiti da Zagabria, per salvare la pelle, i Conforty, il
17 luglio 1941, si rifugiarono da parenti a Ogulin, nella zona d’occupazione
dell’esercito italiano. Molti ufficiali italiani trovarono alloggio presso le
famiglie ebraiche di Ogulin. Fu così che i Conforty conobbero il tenente
colonnello Antonio Bertone, ospite di Elsa Hamburger in Goldner, zia di Renata
Conforty.
Giuseppe
Comand, classe 1920. Fotografia di E. Varutti 2018
Bertone allora si dà da fare per far espatriare
clandestinamente la famiglia ebraica, con l’aiuto di altri militari italiani,
facendola arrivare in treno a Fiume. Il capo ufficio stranieri di Fiume era
proprio Giovanni Palatucci, che ospita il gruppo dei Conforty niente meno che
nella soffitta della questura, finché non arriva il permesso di soggiorno.
Stabilitisi a Fiume i Conforty, il 15 agosto 1942, non sentendosi abbastanza
sicuri, si trasferiscono assieme ad altri parenti ebrei a Sestola, Mirandola e
Zocca, in provincia di Modena, sempre con l’intervento determinante di Bertone
e dei mezzi che metteva loro a disposizione.
La liberazione del 1945 coglie la famiglia Conforty a Valenza
Po (AL) e i contatti, divenuti affettuosi, con Nino Bertone si sviluppano pure
nel dopoguerra. Il 10 novembre 2005 la Commissione per la designazione dei
Giusti, istituita dallo Yad Vashem di Gerusalemme, assegna al tenente
colonnello Antonio Bertone la medaglia di Giusto fra le Nazioni.
Nel volume di Shelah, molto importante e centrata in veste
storica è la Prefazione di Antonello
Biagini, ordinario di Storia dell’Europa orientale all’Università “La Sapienza”
di Roma, che firma pure una chiara e limpida Introduzione alla ristampa. Il volume, dato alle stampe nel 1991 e
risultante a cura dello stesso Antonello Biagini e di Rita Tolomeo, va contro
una certa storiografia tesa a manipolare i fatti pronunciando la condanna dei
protagonisti.
Cartolina
della chiesa di Arbe, 1941. Immagine da Internet
Negli scorsi decenni si è sviluppata una storiografia
tendente a contrastare l’immagine del soldato italiano “brava-gente”, veicolata
dal dopoguerra agli anni 1980-1990. È vero, tuttavia, che non si può
generalizzare. I comportamenti di certuni furono di sentimenti nobili ed umani,
mentre altri si macchiarono di certi crimini.
Il tenente Giulio Orgnani (Udine 1912-1988) era inquadrato
del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria di stanza a Palmanova (UD) nella
seconda guerra mondiale. Fu impegnato a Fiume, in zona d’operazioni militari
dell’Esercito Italiano. Secondo i suoi album fotografici, in possesso ai
discendenti, il Reggimento Cavalleggeri di Alessandria fu occupato, nel periodo
1941-1943, nelle seguenti località di occupazione italiana: Barilovic, Jaškovo,
Josipdol, Karlovac, La Plat Plaski, Ogulin, Oshalj e Voinic. Nel presente
articolo si pubblicano alcune immagini di Ogulin, la stessa città degli ebrei
Hamburger, Conforty e dei loro parenti, menzionati nella edizione del 2009 del
volume di Menachem Shelah.
Per concludere, la struttura di detenzione di Arbe era alle
dipendenze del Regio Esercito Italiano, II Armata, Intendenza. Il Comandante
era Vincenzo Cujuli, Tenente colonnello, dal luglio 1942 all'8 settembre 1943.
Il Corpo di guardia era costituito da circa duemila tra militari e carabinieri.
Il numero complessivo degli internati, secondo i dati di un sito web, era circa
di 10 mila individui, non presenti contemporaneamente. Il numero accertato dei
detenuti deceduti nel campo è di 1.477, mentre le fonti slovene triplicano il
dato dei morti, come si è scritto citando Herman Janež.
Ebrei salvati dagli
italiani in Dalmazia e Montenegro
In tutte le zone di occupazione italiana in Jugoslavia gli
ebrei salvati dall’esercito italiano dalla deportazione nazista o ustascia nei
lager ammontano a 5.000 individui.
Nel 2018 è stato l’ambasciatore a riposo Gianfranco Giorgolo
a sollevare il caso dei 5.000 ebrei salvati dai militari italiani in terre di
occupazione in Jugoslavia, con un articolo – lettera aperta al presidente della
Repubblica Sergio Mattarella. Citando autori ebrei jugoslavi, Giorgolo
riferisce “come alti funzionari del ministero degli Esteri italiano, con
l'autorizzazione dello stesso ministro Galeazzo Ciano - che ottenne il relativo
nullaosta da Benito Mussolini - insieme ad ufficiali superiori delle nostre
truppe di occupazione nella ex Jugoslavia per due anni si opposero alle
ripetute ed insistenti richieste ustascia e naziste rifiutandosi di consegnare
circa 5.000 ebrei fuggiti dalle altre zone della ex Jugoslavia per rifugiarsi
in quella occupata dagli Italiani. Eloquente e significativa è anche
l'affermazione che gli ebrei salvati – sottolinea Giorgolo – devono la vita
agli sforzi compiuti da funzionari e ufficiali italiani, fascisti certo, ma non
disposti a partecipare ad un genocidio” (Giorgolo
2018).
Ingresso all’Isola di Arbe, dopo l’annessione mussoliniana 1941.
Immagine da Internet
Un autore del Montenegro ribadisce il concetto del
salvataggio di ebrei da parte dell’Esercito Italiano fuggiti dal Kossovo e
dalla Jugoslavia meridionale. Quando può scrivere liberamente, nel 2011, Vasko
Kostić pubblica il suo libro in lingua serba, tradotto in italiano nel 2014. È
riferito alla zona delle Bocche del Cattaro che, nel 1941, viene occupata
dall’Italia fascista ed annessa al Regno, quale provincia italiana di Cattaro.
Anche in questo interessante volume ci sono storie riferite
agli ebrei iugoslavi. Essi, nel 1941, vengono concentrati nel Campo di Kavaja,
in Albania, annessa al Regno d’Italia nel 1939, ricevendo “un significativo
aiuto e protezione da parte della Croce rossa. Si trattava di gente molto
abbiente che, al momento della disfatta della Jugoslavia, riuscì a raggiungere
le Bocche del Cattaro, cercando sostengo e protezione. Sapevano che arrivando
nelle Bocche avrebbero avuto salva la vita e infatti trovarono rifugio nei
campi italiani. È chiaro cosa sarebbe loro successo se fossero rimasti nel
territorio occupato dai tedeschi o nello
stato indipendente croato” (Kostić 2014,
p. 67).
C’è un dato numerico assai interessante riguardo un altro
campo di concentramento; è quello di Presa, sempre in Albania, gestito dalle
truppe italiane, che occupano anche il Kossovo e una parte della Macedonia.
“Nell’aprile 1942, da Pristina a Presa furono portati 79 ebrei” (Kostić 2014, p. 145).
Ogulin,
Zona d’operazioni – Rancio al 1° Squadrone del Reggimento Cavalleggeri di
Alessandria, 12 aprile 1941. Didascalia originale di militari italiani in
Croazia. Collezione Giulio Orgnani, Udine
Ebrei nascosti e
salvati in Friuli
La recente letteratura si sta occupando del salvataggio degli
ebrei dalla deportazione nazista, aiutati dagli italiani, dalla furbizia o
dalla sorte. Essi sono stati nascosti nelle canoniche, nei collegi o nelle case
qualsiasi, lontano dalle grinfie dell’Organizzazione per la Vigilanza e la
Repressione dell’Antifascismo (Ovra),
la polizia segreta fascista che dopo il 1943 consegnava, su delazione
retribuita, gli ebrei alle Waffen SS,
per l’invio ai campi di sterminio. Vengono sempre più alla luce casi di tale
genere, come ha scritto Liliana Picciotto (Picciotto
2017).
Nel nostro piccolo, si cerca di contribuire a detta indagine,
col saggio presente. Si salva dalla deportazione Maria Bollafio, nata a Trieste
e sposatasi con Pietro Chiesa di San Lorenzo di Sedegliano, in provincia di
Udine. “Era proprio mia nonna Maria Bollafio che per paura non voleva nominare
il fatto di essere ebrea – ha detto Chiara Dorini – la nonna si confidava solo
con me, che ero sua nipote”.
Nonna Maria Bollafio non viene catturata dai tedeschi in Friuli, nonostante vivesse per così dire a contatto con loro. La famiglia, infatti, stava a San Lorenzo di Sedegliano e, dopo l’8 settembre 1943, nella stessa casa viene installato il comando della Wehrmacht, lasciando quattro stanze per la famiglia Chiesa, cui viene requisita l’abitazione. Nel 1944 i tedeschi abbandonano quella postazione, senza essersi mai accorti che c’era vicino a loro un’anziana ebrea. “La famiglia Bollafio di Trieste ha avuto varie persone sparite o arrestate dai nazisti e mai più ritornate dai campi di concentramento – ha concluso la signora Dorini - mi ricordo che chiedevo a mia madre Silvana Chiesa di raccontarmi qualcosa della nonna ebrea Bollafio, ma mi rispondeva che erano cose vecchie e finiva lì il discorso”.
Nonna Maria Bollafio non viene catturata dai tedeschi in Friuli, nonostante vivesse per così dire a contatto con loro. La famiglia, infatti, stava a San Lorenzo di Sedegliano e, dopo l’8 settembre 1943, nella stessa casa viene installato il comando della Wehrmacht, lasciando quattro stanze per la famiglia Chiesa, cui viene requisita l’abitazione. Nel 1944 i tedeschi abbandonano quella postazione, senza essersi mai accorti che c’era vicino a loro un’anziana ebrea. “La famiglia Bollafio di Trieste ha avuto varie persone sparite o arrestate dai nazisti e mai più ritornate dai campi di concentramento – ha concluso la signora Dorini - mi ricordo che chiedevo a mia madre Silvana Chiesa di raccontarmi qualcosa della nonna ebrea Bollafio, ma mi rispondeva che erano cose vecchie e finiva lì il discorso”.
La storia delle famiglie Bolaffio, Chiesa e Dorini, tra
Trieste, Fiume e le campagne del Codroipese, è stata riportata nel 2004 da
Mario Blasoni sul «Messaggero Veneto».
Cartolina
di Arbe / Rab del 1940. Immagine da Internet
Nella recente letteratura si percepisce il senso di
confusione vissuto dagli italiani in quegli anni. Ciò che, ad esempio, gli esuli
d’Istria, Fiume e Dalmazia hanno chiamato “el ribalton”. Tale evento
destabilizzante ha inizio con l’armistizio dell’8 settembre 1943 del re
d’Italia con gli alleati anglo-americani, per finire con la recrudescenza con
cui nazisti e repubblichini nei mesi successivi perseguitano, arrestano,
fucilano e deportano nei lager del Terzo Reich indistintamente ebrei, partigiani,
militari italiani e civili inermi solo perché indossavano un capo di vestiario
militare.
Dopo aver combattuto nella campagna di Grecia in Albania e,
dal 1941, dopo essere stati assegnati di presidio nella Jugoslavia occupata,
alcuni alpini, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, si mettono alla
macchia andando a combattere contro i nazisti nelle prime formazioni di
partigiani italiani. È il caso di Giovanni Buttolo, nato a San Giorgio di Resia
nel 1920. Arruolato alpino nella 270^ compagnia del Battaglione Val Fella e
impegnato in combattimento in Albania e Grecia e nella campagna di Jugoslavia
alla data dell’armistizio, sceglie di aggregarsi alla Divisione Garibaldi dei
partigiani, attiva in Val Resia e in Canal del Ferro e Valcanale. Nel 1943-1944
in varie occasioni contribuisce “a far scappare alcuni ebrei destinati ai lager
nazisti” (Martina 2017, p. 34).
Udine,
Monumento alla Resistenza, striscione della Brigata Ebraica alla cerimonia del
25 aprile 2018. Fotografia di E. Varutti
Bruno Bonetti ha raccolto una vicenda ebraica di Udine con un
giusto che, pare, sia mai nominato
sinora. Per gli israeliti, i giusti sono le persone di altra religione che
hanno aiutato uno o più ebrei nel periodo delle persecuzioni razziali, dopo il
1938 e, soprattutto, dal 1943, quando le retate antisemite dei nazisti si fanno
più pressanti, per ordini di Hitler.
Dopo l’8 settembre 1943, Olvino Morgante, macellaio di
Tarcento (UD), con uno stabilimento per la produzione di insaccati di 2.000
metri quadrati, a causa del ribalton
si trova a collaborare con i tedeschi e pure con la Resistenza, oltre a dare
lavoro a numerosi antifascisti. “Ospita inoltre a casa sua per un quindicina di
giorni, non senza gravi rischi, il dentista ebreo Giuseppe Eppinger, ricercato
dai nazisti e poi rifugiato in Svizzera” (Bonetti
2017, p. 84).
Tra l’altro, a Trieste negli anni 1929-1930, il presidente
della Comunità Ebraica è un certo Alfredo Eppinger, patriota e sostenitore del
regime, come il rabbino Israele Zolli (Moehrle
2016, p. 245).
Si viene a sapere, con Bonetti, che il dottor Giuseppe Eppinger
viveva a Udine in un palazzo di Via Mazzini 9, dove nel dopoguerra si
troveranno ad abitare il protagonista del libro di Bonetti, di nome Manlio
Tamburlini, con la sua consorte Ada Bonetti, su indicazione delle forze alleate
che avevano requisito l’albergo Nazionale dello stesso Tamburlini. Bruno
Bonetti mi ha, infine, riferito che fu proprio il dottor Giuseppe Eppinger ad
effettuare il riconoscimento dei resti mortali di Olvino Morgante, trucidato
dai partigiani nel 1945, a fine guerra. Era stato il suo dentista negli anni
trenta, quindi riconosce molto bene il suo lavoro sulla mandibola di Morgante.
La salma di Olvino Morgante viene ritrovata il giorno 11 giugno 1946 sulle sponde
del Malina a Grions del Torre, in Comune di Povoletto (Bonetti 2017, pp. 86-89). Allora, se il riconoscimento dei
resti di Morgante è stato svolto nel 1946 dal dentista Eppinger, significa che
egli era già rientrato a Udine dall’esilio in Svizzera.
Camminata
sui luoghi della Shoah a Udine sud, del giorno 30 aprile 2017. Fotografia
dell’Associazione Insieme con Noi, di Udine. Per un eventuale approfondimento vedi in
merito: http://eliovarutti.blogspot.com/2017/05/camminata-sui-luoghi-della-shoah-udine.html
Eppinger, come altri ebrei fuggiti da Udine (famiglie Basevi,
Foa e, forse, i Bata) e dal Friuli con tutta probabilità furono salvati
dall’organizzazione delle Aquile randagie, i gruppi scout clandestini che
portavano gli ebrei dalla Lombardia al confine svizzero, salvando dalla
deportazione nazista oltre duemila individui. Si veda il saggio di Renata
Broggini, riguardo alle notizie sulle famiglie Basevi e Foa di Udine (Broggini 1998, p. 454), mentre sui Bata
vedi nel web Ebrei a Udine sud e
dintorni, 1939-1948. Deportazione in Germania e rientri, dello scrivente.
Finisce in Svizzera anche la giovane Sonja Borus, nata nel
1927 a Berlino da genitori ebrei polacchi. Il suo salvifico viaggio dalla
Germania passa in Croazia, Slovenia, Italia e in Svizzera, per finire in
Palestina. Nel suo tragitto tra Zagabria e Lubiana, nel 1941, inizia a scrivere
un diario con incredibili presagi riguardo al tragico destino dei suoi
familiari. La mamma ed il fratellino, nel gennaio del 1943, verranno deportati
ad Auschwitz. L’8 settembre 1943 Sonja Borus viaggia da Lesno, presso Lubiana,
fino a Nonantola, in provincia di Modena, dove viene ospitata dagli italiani
clandestinamente con altri ragazzi ebrei. Poi ci sarà l’esilio in Svizzera e
l’ultima tappa della sua alyah
(emigrazione), la Palestina (Minerbi 2018).
È plausibile che tra Lubiana e Nonantola ci sia stato un passaggio in Friuli e,
per le linee ferroviarie, Udine rappresenta uno snodo centrale del traffico.
Udine, lapide dedicata alle bambine e alle donne che raccoglievamo
i biglietti dei deportati, per scrivere alle loro famiglie sul loro passaggio a
Udine, deportati in Germania. Fotografia di Germano Vidussi. Per un
approfondimento vedi in merito: http://eliovarutti.blogspot.com/2018/01/corona-dalloro-per-le-donne-resistenti.html
L’ebrea clandestina Sonja Borus non compare, ad esempio,
nella lista di 4.954 nominativi del Fondo Questura dell’Archivio di Stato di
Fiume, disponibile in Internet (Pizzuti
2016). Si accenna al fatto che a Fiume, città mitteleuropea del Regno
d’Italia con la percentuale del 10 per cento di popolazione di religione
ebraica, confluivano molti ebrei della Jugoslavia, della Germania, dell’Austria
e dei Paesi dell’Est, Russia inclusa.
In Friuli si trovò ad operare nel 1945 la Brigata Ebraica,
sotto il comando degli inglesi, come si sa dalla letteratura. Certi Ebrei
palestinesi sono menzionati dal generale Chassin tra le diverse componenti di
militari sotto il Comando dell’Armata aerea alleata del Mediterraneo (Mediterranean Allied Air Force), ovvero
certi piloti che bombardavano le postazioni nazifasciste nell’Italia del Nord,
Friuli incluso, erano ebrei di Palestina (Chassin
1947, p. 533).
Nella periferia udinese, nel Comune di Tavagnacco, a Feletto
Umberto, secondo una nota testimonianza “c’erano degli ebrei che noi di Feletto
chiamavamo i Palestinesi”. È Giannino Angeli che ha raccontato i fatti, proseguendo
così: “Stavano nella casa dove nel 1953 andò ad abitare la mia famiglia in Via
dei Martiri 88”. Nel 1946-1947 tale abitazione era affittata ad una famiglia
siciliana, ha concluso Angeli e “ai piani superiori furono alloggiati questi
ebrei, detti Palestinesi, erano in divisa militare inglese, ma non so se
fossero della Brigata Ebraica, inquadrata nell’Ottava Armata britannica, che
pattugliò Tarvisio nel 1945, mi ricordo di non averli mai visti in paese con le
armi, non so se fossero ebrei salvati dai campi di detenzione italiani perché,
a differenza dei soldati britannici, sempre impeccabili, loro, i Palestinesi
erano, come dire, male in arnese, un po’ emaciati”.
Michele
Piva, Prigioni, disegno su carta, 1968.
Fotografia di E. Varutti 2018
Anche Maria Pia Bernicchia menziona nel suo libro la Brigata
Ebraica, traducendo una testimonianza del polacco Jitzhak Reichenbaum,
rilasciata in lingua inglese al Museo di Auschwitz. Egli è fratello di Eduard,
uno dei venti bambini di Bullenhuser Damm. È a Linz, in Austria, vicino a
Tarvisio (Italia) che Reichenbaum vede
per la prima volta i soldati della Brigata Ebraica. Essi “cercavano in tutta
Europa bambini ebrei sopravvissuti allo sterminio. Ci riunirono in gruppo e ci
portarono dall’Austria in Italia attraversando illegalmente il confine e in
Italia siamo rimasti sei mesi in un collegio fondato dai soldati a Santa Maria
in Bagno [in provincia di Lecce], lì abbiamo studiato… per me è stato un
paradiso!” In seguito una nave salpa da Taranto e porta i ragazzi in Palestina.
È l’8 novembre 1945 quando il bastimento canadese Princess Kathleen si dirige verso Haifa. Poi fanno un analogo
tragitto altri ebrei loro parenti nel 1947 (Bernicchia
2005-2066, p. 104).
Le partenze per la Palestina di giovani ebrei sopravvissuti
ai lager hanno luogo, ad esempio l’8 maggio 1946, dal Molo Pagliari di La
Spezia, da dove salpano le navi Fede
e Fenice, con 1.014 passeggeri
diretti ad Haifa, come ha scritto Marco Imarisio, trasformando il porto ligure
in una nuova Porta di Sion, dopo quello di Trieste, attivo negli anni trenta (Imarisio 2018). Tra il 1933 e il 1940,
secondo Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino, sono 121.391 gli israeliti partiti
da Trieste in nave verso la Palestina; sono essi in gran parte dell’Europa
centro-orientale (Amodeo, Cereghino
2008, p. 10). Pure Venezia è un punto di partenza delle navi verso la Palestina
in quel periodo, sempre dietro l’organizzazione della Brigata Ebraica, attiva
tra Austria, Friuli, Veneto e Lombardia.
Sinagoga di Corfù, interno. Fotografia di Giuseppe Mariuz
2018
Il ritorno degli ebrei dai lager verso l’Italia, nel
1945-1946, avviene mescolandosi agli avvenimenti militari e politici, alle
soglie della guerra fredda. In generale, sono i porti italiani a fungere da “Porta
di Sion” riguardo all’emigrazione in Palestina degli scampati all’Olocausto.
L’atteggiamento di rimozione diventa troppo forte. Non si vogliono ascoltare
fatti tristi. Ci sono la ricostruzione e il Piano Marshall cui pensare. Shlomo
Venezia, sopravvissuto ad Auschwitz, viene trattenuto in ospedale a Udine fino
a novembre 1946, prima di essere trasferito a Merano (BZ), presso l’istituto
gestito dall’American Joint Comittee. Non gli credevano quando raccontava
l’orrore dei campi di sterminio. Ai più sembrava un matto (Vecchio 2017, p. 178, 194 e 206).
Dopo i rastrellamenti nazisti del 16 ottobre 1943 nel ghetto
di Roma, Lea Polgar, una bambina ebrea di Fiume di dieci anni, viene accolta
nella famiglia dello scultore Aurelio Mistruzzi e di sua moglie Melanie Jaiteles,
di fede ebraica, nella capitale italiana. Essi sono compresi tra i Giusti delle
Nazioni nel Museo Yad Vashem di
Gerusalemme per aver aiutato gli ebrei perseguitati a Roma (Bucco
2019).
Il Giorno della Memoria
a Udine 2019
Ai Mistruzzi viene dedicata una mostra dal Comune di Udine
presso, Palazzo Morpurgo, in occasione della Giornata della Memoria 2019,
dal titolo “Aurelio e Melania
Mistruzzi, giusti tra le nazioni”, a cura di Gabriella Bucco e Silvia Bianco. Oltre ad iniziative
cinematografiche, vi sono alcune conferenze nelle giornate con relatori
seguenti. Tra le tante attività, si accenna alle seguenti: il 24 gennaio, in
Sala Aiace, a Palazzo D’Aronco, alle ore 17.30 si tiene la conferenza “Italia
fascista e Germania nazista. Politiche, razzismo, linguaggio e società a confronto”
durante la quale viene fatta un’analisi sull’uso del razzismo e della violenza
come strumento di potere. La relatrice è Antonella Tiburzi, storica e docente
presso Libera Università di Bolzano. L’iniziativa e a cura dell’Associazione
Nazionale ex Deportati nei Campi Nazisti (Aned).
Il 25 gennaio 2019, alle ore 17 a Palazzo Morpurgo, in Via Savorgnana, lo
scrivente presenta il tema “Ebrei di Fiume in transito a Udine per Auschwitz”.
Nella
sinagoga di Corfù. Fotografia di Giuseppe Mariuz 2018
Martedì 29 gennaio, alle ore 20:30, presso la Parrocchia di
San Pio X, nella Sala del Giubileo in via A. Mistruzzi 1, ha luogo la relazione
“Le leggi razziali italiane del 1938” di Ariel Haddad, rabbino della Slovenia
e direttore del museo Wagner di
Trieste. Poi intervengono Tiziana Menotti su “Il ghetto ebraico di Varsavia” ed
Elio Varutti su “Ebrei iugoslavi salvati dall’esercito italiano al campo di
concentramento di Arbe, Dalmazia”. L’evento è a cura del Gruppo Culturale
Parrocchiale di San Pio X.
Venerdì 1 febbraio, sempre presso le Gallerie del Progetto di
Palazzo Morpurgo in Sala Valle, alle ore 17.00 si tiene l’incontro “Elio
Morpurgo, ebrei di Udine deportati”. Il relatore, Valerio Marchi, racconta di
Elio Morpurgo, l’ebreo udinese più noto e illustre, arrestato dai nazisti
presso l’ospedale civile di Udine il 26 marzo 1944. Pochi giorni appresso, fu
caricato su un convoglio per Auschwitz. Muore durante il trasporto. Recenti
ricerche hanno permesso di scoprire il percorso e la destinazione.
Sempre presso le Gallerie del Progetto di Palazzo Morpurgo,
in Sala Valle, venerdì 8 febbraio alle ore 17.00 si tiene l’incontro dal titolo
“Pio Paschini, Giuseppe Vale e la famiglia Mistruzzi: memorie di un’amicizia
nella corrispondenza epistolare” in cui la relatrice Michela Giorgiutti presenta
la famiglia Mistruzzi attraverso la fitta corrispondenza tra Aurelio Mistruzzi,
Pio Paschini e Giuseppe Vale. Dalle cartoline e dalle lettere emergono
particolari sulla vita privata e curiosità sul noto scultore.
Domenica 10 febbraio, in Casa Cavazzini, alle ore 11.00,
nell’ambito del festival “Viktor Ullmann” si tiene il concerto per clarinetto e
pianoforte “Musiche di compositori ebrei della Shoah”, a cura dell’Associazione
“Musica Libera”.
Succede alla stazione
di Udine nel 1944-1945
Dalla stazione ferroviaria di Udine partono i treni diretti ai
campi di concentramento del Terzo Reich. Trasportano ebrei, partigiani e
militari italiani che non intendono aderire alla Repubblica Sociale Italiana (Rsi), o alle Waffen SS, continuando a combattere per Hitler. È il caso di
Federico Esposito, ufficiale del regio esercito italiano. Arrestato dai tedeschi,
viene deportato a Flossenbürg con partenza da Udine col trasporto del giorno 11
gennaio 1945, come già si è scritto sulla base delle ricerche di Flavio Fabbroni.
Poi sopravvive.
“Siamo partiti dalle carceri di Udine – ha riferito Mauro
Drigo nella testimonianza raccolta da Italo Tibaldi – allo scalo merci eravamo
in tanti. Il treno merci era lungo; era, mi pare, il giorno 14 gennaio 1945. I
vagoni vennero piombati e scortati dalle SS
e dalla polizia di Trieste la Sipo… giungemmo in Germania, nel campo di
Flossenbürg, Comando di Hersbruch, il giorno 29 gennaio 1945” (Varutti
2016-2017).
Certi deportati vengono imprigionati in seguito a delazioni
anonime di compaesani, che non vengono nemmeno verificate dai repubblichini e
dal servizio segreto delle Waffen SS.
È il caso di Pietro Rizzo, detto Rino del 1924 e di suo fratello Paolo Rizzo,
detto Vittorio del 1925, di Plaino, in Comune di Pagnacco (UD). Il Calvario dei
fratelli Rizzo inizia il 15 aprile 1944 quando in casa giungono i carabinieri
di Feletto Umberto alla ricerca di due sospetti di contatti coi partigiani:
Attilio e Ottavio Rizzi. Nonostante i nomi e cognomi pur somiglianti, ma
diversi dai ricercati, tra il mese di maggio e quello di luglio, i fratelli
Rizzo subiscono vari interrogatori dai carabinieri. Il 20 luglio 1944 sono
scortati in Giardin Grande al Comando di Udine del S.D., per un lungo
interrogatorio di fronte al maresciallo Hans Kitzmüller, che li spedisce al
lager. Il Sicherheitsdienst (SD,
Servizio di Sicurezza) era il servizio segreto delle Waffen SS, dal 1932 al 1945.
Tra l’altro Kitzmüller, famoso per il voltafaccia di fine
guerra, riceve rassicurazioni dal colonnello Silvestri, capo ufficio del Genio
Militare, dato che Pietro Rino Rizzo
è inquadrato nella Organizzazione Todt,
del Genio Militare, ma ciò non basta a salvarlo dalla deportazione.
“Dal Comando della S.D. (che si trovava nei locali del Liceo
Stellini) alle carceri fummo accompagnati da quattro scugnizzi della guardia
repubblichina e uno ci chiese: No sêso di
Plain vualtris? [Non siete di Plaino voi?] Sì, gli abbiamo risposto. E lui:
Ma parcé no sêso scjampâts… no saveiso
che cuanche si cole in chês grifiis no si salvisi plui [Ma perché non siete
scappati… non sapete che quando si cade in quelle grinfie non ci si salva
più]”. Da tale colloquio si deduce che i repubblichini sapessero che la
deportazione nazista significava la morte sicura. I due fratelli Rizzo restano
nel carcere di Via Spalato fino alla fine del mese assieme a dodici giovani
della guardia della Todt di
Tarcento, che aveva sede alla Domus Mariae, rei di voler scappare coi
partigiani e traditi da un compagno di servizio.
Il 30 luglio 1944 i prigionieri sono svegliati alle cinque
del mattino e fatti scender al pian terreno. I fratelli Rizzo sono in
calzoncini, canottiera e sandali, dato che gli altri abiti, pieni di pidocchi,
erano stati dati ai familiari per la pulizia. Nel corridoio, incolonnato con i
reclusi riconoscono Giuseppe Floreani di Castellerio, Comune di Pagnacco. Alle
ore sette suona l’allarme aereo, ma è una finta. I tedeschi usavano tale
stratagemma perché la popolazione udinese non vedesse ciò che stava accadendo.
Contati più volte dai tedeschi, i prigionieri vengono scortati dai
repubblichini a piedi fino in stazione. La gente, nonostante l’allarme
bombardamenti, stava in strada e dalle finestre delle case urlavano ai
repubblichini: lazzaroni, delinquenti, assassini, farete anche voi la stessa
fine. Altre persone lanciavano sassi e oggetti dalle finestre e così per tutta
la strada fino in stazione.
In stazione arriva un treno carico di deportati provenienti
dalla Risiera di San Sabba: uomini, donne, ragazzi e molti anziani. I fratelli
Rizzo e gli altri catturati a Udine devono salire sui carri bestiame vuoti.
Alle ore 8,30 il treno della morte parte per Tarvisio “tra lo sghignazzare
della teppaglia repubblichina”. A Tarvisio c’è la sosta per il cambio dei
locomotori. I ferrovieri facevano di tutto per ritardare la partenza dei
prigionieri e dicevano: scrivete i vostri indirizzi e buttateli dal finestrino
che noi li porteremo ai vostri familiari. Anche i fratelli Rizzo scrivono un
messaggio ai genitori dietro un santino che Pietro aveva nel portafoglio. Un
ferroviere l’ha raccolto e portato il giorno dopo ai familiari, che baciarono
quel santino più e più volte. Alle ore 12 il convoglio parte da Tarvisio alla
volta di Villaco e lì, oramai in terra nazista, inizia il viaggio di quattro
giorni per il campo di concentramento di Buchenwald, da dove Pietro e Paolo
Rizzo si salvano a fine guerra (Rizzo
1998, pp. 16-22).
Corfù, lapide in memoria degli ebrei corfioti deportati e
uccisi nei lager. Fotografia di Giuseppe Mariuz 2018
Gli ebrei di Corfù in
transito a Udine per Auschwitz
Una delle comunità ebraiche più importanti sin dai tempi
della Serenissima Repubblica di Venezia è quella dell’isola greca di Corfù,
sottoposta all’assedio dei turchi nel 1537 e nel 1716. Si contano 300 famiglie
ebraiche nel 1481.
Col Trattato di Campoformio, nel 1797, Corfù passa sotto il
potere della Franca repubblicana. È capitale della Repubblica dell’Eptaneso
(Sette isole ionie), sotto il controllo dell’Impero Ottomano. Nel 1807 Corfù
appartiene all’Impero Francese.
Gli ebrei corfioti, oltre che con la Puglia, stringono dei
legami mercantili con Trieste, soprattutto nei primi anni dell’Ottocento,
rinforzando le relazioni economiche tra l’emporio asburgico tergestino e
l’isola ionia. Nel 1845 risiedono a Corfù circa 2.000 ebrei nel quartiere
ebraico, detto Evraikì.
Dal 1864 l’isola fa parte dello stato ellenico, tranne gli
anni dell’occupazione italiana (1941-1943) e tedesca (1943-1944). I contrasti
con la comunità cristiana si acuiscono nella primavera del 1891, quando in
seguito al ritrovamento del cadavere di una bambina di otto anni, Rubina Sarda,
tra le altre, ebrea, vengono incolpati di assassinio rituale proprio i suoi
correligionari. Il ghetto è sottoposto ad assedio per un paio di mesi, il
cimitero vandalizzato, i negozi devastati e le case saccheggiate. Oltre a vari
ebrei feriti, ci sono addirittura venti morti. Il pogrom resta nella memoria
dei 5.000 ebrei corfioti come la gezerah,
ossia la sciagura, in lingua ebraica. Essi sono di sentimenti e di lingua
italiana, perciò sono detti Italkian.
Nonostante siano sedati i moti antisemiti, a Corfù inizia
l’emigrazione per Ioannina e Atene, verso l’ottomana Salonicco, Alessandria
d’Egitto, Trieste e altri luoghi. Più di mille di loro partono tra aprile e
giugno; essi sono di ogni condizione sociale.
A Trieste i profughi corfioti trovano lavoro soprattutto in
occupazioni umili, come il girovago, rigattiere, operaio e facchino portuale.
Molti di loro ottengono la cittadinanza italiana, tra i primi anni del
Novecento e negli anni Venti, per vedersela togliere dalle Leggi razziali del
1938. Ogni greco, per Mussolini, è un nemico. Allora, nel 1940, ci sono degli
arresti di ebrei corfioti triestini e degli internamenti in Toscana. Come
scritto, nel 1941 Corfù è occupata dal Regio Esercito Italiano con mire
espansionistiche fasciste.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la componente
ebraica dell’isola è vittima dell’odio nazifascista. Il 27 settembre 1943
inizia l’occupazione nazista e nel giugno 1944 gli ebrei corfioti sono
rastrellati e deportati ad Auschwitz e Birkenau, ove morirono in 1.800 circa (Catalan Et Alii 2013, p. 128). Molti
cognomi sono italiani. I sopravvissuti, circa il 10 per cento, li hanno
ricordati con una lapide nell’isola ionia.
Mille
ebrei da Roma al Brennero in 28 carri, 18 ottobre 1943. Archivio di Stato di Roma. Immagine
da Internet
Il campo di
concentramento ustascia di Jasenovac 1941-1945
È il luogo di detenzione creato dallo Stato indipendente
croato di Ante Pavelić col pieno appoggio dell’Italia fascista e della Germania
nazista. Jasenovac è, dal 1941 al 1945, il più grande campo di sterminio croato
dell’area iugoslava, suddiviso in più parti. Non a caso è detto l’Auschwitz dei
Balcani. Nel memoriale eretto nel 1960-1966 sul luogo delle eliminazioni sono
citati i nomi di 81.145 vittime accertate, anche se i dati differiscono a
seconda dei versanti ideologici degli storici. Gli ebrei sterminati a Jasenovac
sarebbero tra i 12 mila e i 20 mila individui, ma secondo le stime croate
ammontano a 13.116 persone, come si può vedere dalla Tabella n. 1. Tra gli
internati, molti sono i bambini di età compresa tra i tre mesi e i 14 anni,
diverse donne ed anziani.
Tabella
n. 1 – Ebrei uccisi al Campo di sterminio di Jasenovac, Croazia, 1941-1945
Bambini
|
1.601
|
Uomini
|
7.762
|
Donne
|
3.753
|
Totale ebrei eliminati
dagli ustascia
|
13.116
|
Oggi a Jasenovac, vicino al confine con la Bosnia Erzegovina,
si nota un grande fiore di cemento, opera del 1966
dell’architetto Bogdan Bogdanović. Poco prima della fine della guerra gli
ustascia radono al suolo le 15 baracche dormitorio e quelle annesse, compreso
il muro di cinta del campo di sterminio. Riesumano e danno alle fiamme migliaia
di cadaveri, nel tentativo di cancellare le tracce dell’eccidio commesso. Gli
internati sono soprattutto serbi, poi c’erano ebrei, zingari, musulmani e
oppositori politici o religiosi. Le uccisioni avvengono con un coltello
speciale, dotato di cinturino-polsiera, per non affaticare il polso del
carnefice.
Jasenovac è a 200 chilometri di pianura pannonica da Vukovar
(Croazia), altro luogo noto per gli eccidi perpetrati dai serbi contro i croati
nel 1991 (Cecchini 2018).
Ebrei triestini denunciati
dalla vicina di casa
Sembra un storia assurda, eppure è avvenuta. I delatori, nel
1944, ricevono una rilevante somma in denaro per ogni ebreo denunciato ai
tedeschi. Così succede che l’8 marzo 1944, alla sera, le Waffen SS bussano alla porta dell’appartamento di Mery Mercedes al
primo piano dello stabile al numero 54 di Viale XX Settembre a Trieste. Chiedono
se in casa ci siano degli ebrei. Alla risposta negativa di Maria Maurel,
subinquilina della Mercedes, i tedeschi se ne vanno. Ritornano poco dopo, accompagnati
dalla tale Luisa Amman, classe 1891, nata a Graz, in Austria, residente a
Trieste e abitante al secondo piano, sopra la Mery Mercedes. Alla solita
domanda dei tedeschi sulla presenza di ebrei nella casa, risponde la delatrice
stessa: “Sono tutte ebree, prendetele!”.
Le Waffen SS
perquisiscono l’appartamento. Trovano Margherita Levi, Zoe Austerlitz, di 57
anni, Laura Austerlitz, di 20 e Elvira Piani, di anni 82. Le donne si erano
nascoste, a causa delle persecuzioni razziali. Zoe Austerlitz, ammalata e a
letto, è costretta in malo modo ad alzarsi e, assieme alla figlia Laura e a
Margherita Levi sono catturate dai germanici. La Piani, ultraottantenne, è
lasciata in casa. Viene imprigionata dopo qualche mese, subendo la stessa sorte
dei parenti, con la deportazione a
Birkenau. Mentre i militi si accertano della identità delle donne ebree, la
Luisa Amman, seduta su una poltrona, ride e fuma sigarette offerte in premio
dai nazisti. Delle quattro israelite deportate nel lager, si salva solo Laura
Austerlitz, pur avendo patito ogni sorta di insulto, sevizia e tortura da parte
degli aguzzini di Birkenau, dove i detenuti sono liberati dai russi.
Il 12 agosto 1945 la Polizia Militare Alleata, a Trieste,
arresta la delatrice Luisa Amman, per processarla. Riesce a passarla liscia per
l’intervento delle autorità elvetiche, avendo sposato Giacomo Amman, cittadino
svizzero e pensionato delle Assicurazione Generali di Trieste. Il 30 agosto
1945, con varie testimonianze, tra le quali quella della sopravvissuta Laura
Austerlitz, è condannata a 15 anni di reclusione e a 5 di libertà vigilata,
nonostante gli interventi a suo favore del console svizzero. Detenuta nelle
carceri giudiziarie di Trieste, che è Territorio Libero di Trieste, nel
settembre 1947, è trasferita nelle carceri di Civitavecchia “così – scrive il
console svizzero al Consigliere Federale di Berna – può godere dell’amnistia
vigente in Italia”. Il 23 ottobre 1947 è libera, con l’obbligo di lasciare il
territorio italiano e riceve pure un buono viaggio di lire 2.000, partendo per
la Svizzera (Cairoli 2013, pp.
87-91).
In tale contesto di umanità sbarellata, dopo il 1945, figurarsi cosa può provare la signora Goti Bauer, sopravvissuta ad Auschwitz, quando scopre che a Fiume la sua vicina di casa, Angelina Braida, le mostra vari oggetti di famiglia che era riuscita a salvare dalla depredazione nazista. Le hanno rubato i mobili, vendendoli all’asta, per fare soldi, ma la sua vicina di casa dimostra un briciolo di umanità, consegnandole quei pochi oggetti cari (Padoan 2004, pp. 116-117; Vecchio 2017, p. 181).
In tale contesto di umanità sbarellata, dopo il 1945, figurarsi cosa può provare la signora Goti Bauer, sopravvissuta ad Auschwitz, quando scopre che a Fiume la sua vicina di casa, Angelina Braida, le mostra vari oggetti di famiglia che era riuscita a salvare dalla depredazione nazista. Le hanno rubato i mobili, vendendoli all’asta, per fare soldi, ma la sua vicina di casa dimostra un briciolo di umanità, consegnandole quei pochi oggetti cari (Padoan 2004, pp. 116-117; Vecchio 2017, p. 181).
Conclusioni
Dinnanzi all’efferatezza dei fatti della scuola di Bullenhuser
Damm, ad Amburgo o del campo
di concentramento ustascia di Jasenovac c’è poco da concludere. È sufficiente
il racconto derivante dalle lunghe ricerche del giornalista tedesco Günther
Schwarberg e dalla diffusione italiana effettuata da Maria Pia Bernicchia per
le deportazioni ad Amburgo e di altri studiosi per i lager croati.
L’indignazione è al colmo. Stupisce il fatto che non sia dato credito ai
racconti dei sopravvissuti, nei primi anni del dopoguerra
Il senso di giustizia è offeso per i mancati processi a tutti
i criminali nazisti, come a Menghele riuscito a sgattaiolare via. Consola il
fatto che nel 2005 e successivamente altri bambini tedeschi con i loro maestri
abbiano commemorato i 20 bambini di Bullenhuser Damm nel Giorno della Memoria.
Il senso di consapevolezza del popolo tedesco sui fatti della seconda guerra
mondiale oggi è pregevole. Anche nella croata Rjieka / Fiume c’è la
consapevolezza del Giorno della Memoria e rispetto per la sinagoga.
Non era così nel 1978 quando con amici e reduci
dall’internamento in Germania dal Nordest italiano si voleva vistare l’area del
Campo di concentramento di Dachau, preso Monaco di Baviera. Si chiedeva qualche
informazione stradale alle persone incontrate per strada. I giovani non
sapevano nulla e dimostravano stupore, mentre i vecchi ci guardavano con un
malcelato senso di colpa e ammutolivano. Zero indicazioni stradali.
Oggi si possono trovare le pietre d’inciampo a Berlino, come a Luneburgo, Lubecca e
in varie città tedesche, oltre a cartelli stradali per il turismo della memoria.
Le pietre d’inciampo vengono segnalate con grande rispetto persino dalle guide
turistiche locali. Ormai la Shoah sta entrando nella cultura generale. Questa è
l’unica conclusione che si può trarre.
Udine, lo scalo ferroviario visto da Via Ruda, vicino a Via
Monfalcone. Fotografia di Leoleo Lulu 2018
Fonti orali e del web
Si ringraziano sentitamente e si ricordano le seguenti
persone, intervistate a Udine, con taccuino, penna e macchina fotografica, a
cura di Elio Varutti, se non altrimenti specificato:
- Giannino Angeli,
Tavagnacco, provincia di Udine, 1935, intervista telefonica del 14 ottobre
2016.
- Bruno Bonetti, Gorizia
1968, int. del 1° dicembre 2018.
- Giuseppe Comand,
Latisana (UD) 1920, int. del 7 dicembre 2018 a Latisana (UD) in presenza della
figlia Marialuisa Comand.
- Marialuisa Comand,
Latisana 1952, int. del 7 dicembre 2018 a Latisana.
- Rodolfo Decleva, Fiume
1929, messaggio in Facebook nel gruppo Un
Fiume di Fiumani, del 27 gennaio 2018.
- Noemi Di Giorgio (Udine
1926 - 2015), visse a Fiume e a Udine, int. del 24 febbraio 1996 e del 15
novembre 2005.
- Chiara Dorini, Fiume
1945, int. del 18 dicembre 2016.
- Antonio Nini Sardi,
Fiume 1931, presidente dell’Associazione
Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (Anvgd)
di Novara, messaggio in
Facebook, nel gruppo Un Fiume di Fiumani,
del 27 gennaio 2018.
Fonti originali inedite
- Giuseppe Comand, Memorie
11° Reggimento Genio Udine, Trasferimento alla Compagnia Antincendi a Susak,
dattiloscritto, 2018, pp. 21, di cui 6 di fotografie e documenti.
Lapide
ebraica conservata in un ristorante di Judendorf, frazione di Villaco (Austria),
che il giorno 11 novembre 1265 cita una donna Esther, figlia di Jetdia, moglie
di Serubabels. Lapidi ebraiche anche al Museo di Villaco. Fotografia di E.
Varutti 2011
Collezioni private
- Collezione Antonio Nini Sardi, nato a Fiume, esule a Novara.
- Collezione Giulio Orgnani, Udine.
- Collezione Massimo Speciari, nato a Fiume nel 1937, emigrato
in Brasile nel 1952, vive a Itatiba, Stato di San Paolo, Brasile. http://speciarimassimo.blogspot.com/
Bibliografia e
sitologia
L’ultima consultazione degli URL in Internet, dei testi
presenti nel web e qui menzionati è del 9-10 gennaio 2019. Sotto la seguente
denominazione eliovarutti.blogspot.com si trova il principale blog dell’autore con i
temi sotto la lente.
- Fabio Amodeo, Mario J. Cereghino, L’Italia della Shoah. Gli ebrei, il fascismo e la persecuzione nazista,
Udine-Trieste, Editoriale FVG, 2008.
- Maria Pia Bernicchia (a cura di), Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti. I 20 bambini di
Bullenhuser Damm una carezza per la memoria, Milano, Proedi, 2005-2006.
- Mario Blasoni, “Chiara Dorini, ritorno a Fiume dopo 60 anni”,
«Messaggero Veneto» del 28 giugno 2004.
- Bruno Bonetti, Manlio
Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto
della Cultura, 2017.
- Renata Broggini, La
frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 1943-1945,
Milano, Mondadori, 1998.
- Gabriella Bucco, “Mistruzzi, giusti delle nazioni”, «La Via
Cattolica», 3 gennaio 2019, p. 33.
- Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Milano-Udine, Mimesis, 2013.
- Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Milano-Udine, Mimesis, 2013.
- Tullia Catalan, Annalisa Di Fant, Fabrizio Lelli, Mauro Tabor
(a cura di), Evraikì. Una diaspora
mediterranea da Corfù a Trieste, Comunità Ebraica di Trieste, Trieste, La
Mongolfiera, 2013.
- Anna Cecchini, “In cammino da Jasenovac, l’Auschwitz dei
Balcani, a Vukovar, pagine buie e ferite da rimarginare in una Croazia poco
nota”, «Gorizia News & Views», 2, n. 11, dicembre 2018, pp. 4-5.
- Silvia Cuttin, “Fiume by Bus: Via Pomerio il ritorno
possibile”, «La Voce di Fiume», LII, n.s., 2, febbraio-agosto 2018, p. 12.
- Rodolfo Decleva, Qualsiasi
sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia, Genova, [s.e.], 2014.
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«La Repubblica», Cronaca di Napoli, 27 gennaio 2016.
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Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 1984.
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Gli ebrei residenti nella Provincia del Carnaro negli anni 1915 – 1945,
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Interlandi, vide il suo primo numero il 5 agosto 1938 e venne stampata, con
cadenza quindicinale, fino al 1943
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Dalmazia. Lettera aperta a Mattarella. I militari italiani si rifiutarono di
consegnare circa 5.000 persone a nazisti e ustascia”, «La Verità», 31 gennaio
2018, anche nel web http://www.ilvangelo-israele.it/indexgen18-II.html
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«DEP. Deportate, Esuli, Profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria
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Istituto Nazionale Ferruccio Parri, Roma, Viella, 2017, pp. 177-208.
- «La Vedetta d'Italia», 26 febbraio 1933.
Ringraziamenti
Rivolgo i miei sinceri ringraziamenti al personale e alla
direzione delle seguenti biblioteche, archivi, musei ed istituti, dove ho
potuto effettuare le mie ricerche: Archivio Municipale di Udine; Archivio di
Stato di Udine; Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli, Udine; Biblioteca
Civica “Vincenzo Joppi”, Udine; Biblioteca del Seminario arcivescovile “Mons.
Pietro Bertolla”, Udine; Biblioteca della Società Filologica Friulana, Udine;
Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine e Museo di
Villaco (Austria).
Desidero ringraziare intensamente i prestatori di documenti,
fotografie, reperti e cimeli storici per lo sviluppo delle presenti ricerche,
anche quelli incontrati nel web, come i fiumani Antonio
Nini Sardi, Massimo Speciari, Rodolfo Decleva, oltre a Silvia Cuttin, bolognese
di nascita con mamma di origini fiumane. Grazie
a Danila Braidotti, detta Nila, di
Fontanabona di Pagnacco (UD), a Nella e Giovanna Durì, di Udine. Sono riconoscente e ricordo con affetto gli artisti
citati nel progetto presente, come Michele Piva, fiumano di nascita e Sebastiano
Pio Zucchiatti.
Ringrazio, infine, gli autori delle fotografie qui riprodotte
e diffuse, come Daniela Conighi, Leoleo Lulu, Germano Vidussi e l’Associazione
Insieme con Noi di Udine, Giuseppe Mariuz, di San Vito al Tagliamento (PN),
oltre a Flamenc, di Viquipèdia
catalana.
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Rassegna stampa
Dal «Gazzettino» del 15 gennaio 2019, Cronaca del Friuli, p.
V.
Da «Il Messaggero Veneto» del 16 gennaio 2019, Cronaca di
Udine, p. 25.
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Servizio giornalistico, fotografico e di ricerca diretto da
Elio Varutti. Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio
Zucchiatti e E. Varutti.
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