martedì 10 luglio 2018

Libro di Menachem Shelah sugli ebrei jugoslavi salvati al Campo di Arbe (Rab)


È un libro importante e molto documentato questo di Menachem Shelah. È intitolato “Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei in Dalmazia (1941-1943)”. Destò un certo interesse sin dalla sua prima edizione, nel 1991, con la traduzione dall’ebraico di Gaio Sciloni. Era un pezzo di storia del tutto sconosciuto.
Il cancello nell’area Parco della Rimembranza di Arbe / Rab (Croazia). Fotografia di Giovanni Doronzo 2018

Descrive la sorprendente vicenda di 3.577 ebrei jugoslavi imprigionati, nell’isola di Arbe / Rab (oggi: Croazia) sotto la vigilanza delle truppe italiane di occupazione. Essi furono liberati quando cadde il regime mussoliniano nel 1943. Fu così che si salvarono “dalle grinfie naziste”, come ha scritto Yossef Lapid, da Tel Aviv, nel 1985, per la presentazione del volume edito nel 1991. 
Per quali motivi furono salvati, pur essendo in vigore dal 1938, con l’avallo del re, le leggi razziali fasciste contro gli ebrei? La risposta dell’autore, condivisa dal presentatore, è dovuta a motivi umanitari, col pericolo di essere denunciati all’Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo (OVRA), ossia la polizia segreta fascista.
Nel 1941-1942 molti alti ufficiali dell’esercito, il corpo diplomatico, i funzionari statali, la polizia e la Chiesa avevano ormai cognizione delle stragi e delle uccisioni di massa di ebrei perpetrate dai nazisti e dai loro complici nei territori invasi, dalla Polonia, alla Francia come, ad esempio, nella Croazia degli ustascia di Ante Pavelić, terribilmente antiserbo e antisemita.
Menachem Shelah spiega che alcuni generali dell’esercito di occupazione italiano e taluni funzionari statali, ad esempio, quelli del ministero degli Esteri, consapevoli dell’imminente crollo del fascismo, fecero la rischiosa scelta anche per calcolo politico. Nel senso che il salvataggio di quegli ebrei avrebbe potuto servir loro come salvacondotto nel momento della resa dei conti con gli alleati anglo-americani vincitori. È vero, altresì, che tale considerazione non scalfisce il valore del salvataggio compiuto, a rischio di essere spediti a loro volta nei lager nazisti, come capitò a Giovanni Palatucci, questore di Fiume, un altro italiano che aiutò gli ebrei. Egli fu ucciso a Dachau.
Nell’edizione del 2009 è contenuto un originale aggiornamento. Prima di tutto in una Presentazione alla ristampa, il colonnello Antonino Zarcone, capo Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, chiarisce che: “Il dato fondamentale che emerge dalla lettura della ricostruzione storica di Shelah è il ruolo assunto dalle Unità dell’Esercito Italiano e dei militari presenti in Croazia nel tutelare gli ebrei dalla persecuzione” (pag. IV).
Ogulin, Zona d’operazioni – Foto ricordo del 1° Squadrone del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria, 12 aprile 1941. Collezione Giulio Orgnani, Udine

Di più, Leone Elio Paserman, presidente della Fondazione Museo della Shoah, nella Prefazione alla ristampa precisa che: “Resta il fatto che il Reale Esercito, insieme con l’appoggio di alcuni diplomatici, protesse gli ebrei allora dimoranti nella Dalmazia occupata, come, anche, nello stesso periodo, nella Francia meridionale, rifiutandone la consegna ai nazisti con vari stratagemmi, salvandoli da morte certa” (p. VI).
Le righe più significative di questa iniziale parte della seconda ristampa, in ogni caso, sono riferite alle parole di Renata Conforty pronunciate nella sinagoga di Cuneo il 31 maggio 2006, nel volume pubblicate col  titolo: Testimonianza (pp. VII-VIII). La signora Renata Conforty ha detto che: “insieme alla mia mamma Olga, di 90 anni, e a mia sorella Dina, che vive in Israele, possiamo pubblicamente ringraziare il tenente colonnello Antonio Bertone, che ha salvato e protetto la nostra famiglia durante tutto il periodo bellico, dal 1941 al 1945”.
I Conforty vivevano a Zagabria, dove il capofamiglia Salvatore commerciava all’ingrosso in pellami e pelliccerie. Con l’invasione della Jugoslavia da parte di Germania e Italia nel 1941 per gli ebrei locali iniziarono le persecuzioni da parte degli ustascia con la deportazione verso i campi di sterminio. Fuggiti da Zagabria, per salvare la pelle, i Conforty, il 17 luglio 1941, si rifugiarono da parenti a Ogulin, nella zona d’occupazione dell’esercito italiano. Molti ufficiali italiani trovarono alloggio presso le famiglie ebraiche di Ogulin. Fu così che i Conforty conobbero il tenente colonnello Antonio Bertone, ospite di Elsa Hamburger in Goldner, zia di Renata Conforty.
Ogulin, Zona d’operazioni – Rancio al 1° Squadrone del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria, 12 aprile 1941. Collezione Giulio Orgnani, Udine

Bertone allora si diede da fare per far espatriare clandestinamente la famiglia ebraica, con l’aiuto di altri militari italiani, facendola arrivare in treno a Fiume. Il capo ufficio stranieri di Fiume era proprio Giovanni Palatucci, che ospitò il gruppo dei Conforty niente meno che nella soffitta della questura, finché ebbero il permesso di soggiorno. Stabilitisi a Fiume i Conforty, il 15 agosto 1942, non sentendosi abbastanza sicuri, si trasferirono assieme ad altri parenti ebrei a Sestola, Mirandola e Zocca, in provincia di Modena, sempre con l’intervento determinante di Bertone e dei mezzi che metteva loro a disposizione.
La liberazione del 1945 colse la famiglia Conforty a Valenza Po e i contatti, divenuti affettuosi, con Nino Bertone si svilupparono pure nel dopoguerra. Il 10 novembre 2005 la Commissione per la designazione dei Giusti, istituita dallo Yad Vashem di Gerusalemme, assegnò al tenente colonnello Antonio Bertone la medaglia di Giusto fra le Nazioni.
Molto importante e centrata in veste storica è la Prefazione di Antonello Biagini, ordinario di Storia dell’Europa orientale all’Università “La Sapienza” di Roma, che firma pure una chiara e limpida Introduzione alla ristampa. Il volume, dato alle stampe nel 1991 e risultante a cura dello stesso Antonello Biagini e di Rita Tolomeo, va contro una certa storiografia tesa a manipolare i fatti pronunciando la condanna dei protagonisti.
Negli scorsi decenni si è sviluppata una storiografia tendente a contrastare l’immagine del soldato italiano “brava-gente”, veicolata dal dopoguerra agli anni 1980-1990. È vero, tuttavia, che non si può generalizzare. I comportamenti di certuni furono di sentimenti nobili ed umani, mentre altri si macchiarono di certi crimini.
Josipdol, Zona d’operazioni – Festa del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria con la messa al campo, 24 giugno 1941. Collezione Giulio Orgnani, Udine

Pure alcuni storici di Belgrado, come Jaša Romano, nel 1980, accennarono al salvataggio effettuato dagli italiani di oltre 3500 ebrei del Campo di Arbe contro le pretese ustascia e dei nazisti che li pretendevano per la soluzione finale hitleriana. Si ricorda che in Jugoslavia negli anni ’30 c’erano oltre 80 mila ebrei. Dopo la guerra se ne erano salvati 13.500. Il 30 per cento di essi erano al Campo di Rab, gestito dagli italiani, che in un’altra parte della struttura avevano concentrato oppositori sloveni e croati.
Dopo l’8 settembre 1943 al Campo di concentramento di Arbe gli internati (ebrei, da un parte e sloveni-croati, dall’altra) presero il comando dei due campi. Con il colonnello Vincenzo Cujuli, comandante del Campo fu deciso che ai soldati di guardia fosse consentito di evacuare il posto, mentre il colonnello fu arrestato e consegnato ai partigiani. Egli si suicidò qualche giorno dopo la sua prigionia tra i miliziani di Tito, ma altre fonti riferiscono della sua cattura da parte dei titini, con conseguenti sevizie e fucilazione.
Gli ex internati, munitisi di armi italiane, addirittura ebbero la forza fisica di organizzarsi in varie unità partigiane (ebraica e croato-slovena). La formazione ebraica contava 240 combattenti. Quelle slave, di oltre 1.400 elementi (dati del Parco della Rimembranza ad Arbe / Rab, allestito in memoria dalla Repubblica slovena), potevano contare pure su diverse decine di personale sanitario ebraico, come medici ed infermiere.
Karlovac, Zona d’operazioni – Posto di blocco con soldati italiani al carro veloce CV33, chiamato poi L3/33 o tankette, 5 aprile 1942. Collezione Giulio Orgnani, Udine

Il Parco della Rimembranza di Arbe fu istituito nel 1953, su progetto dell’architetto sloveno Edvard Ravnikar. C’è tuttavia un aspetto conturbante riguardo al Memoriale di Rab, come si legge nella relativa scheda del sito “A Est Ovest, Osservatorio dei Balcani”. Vero è che fu edificato in onore delle vittime del Campo di concentramento fascista, ma ciò avvenne con il lavoro forzato degli internati di una altro campo di detenzione. Erano essi i detenuti politici rinchiusi sulla vicina isola di Goli Otok (Isola Calva), utilizzata dal regime comunista jugoslavo come carcere per dissidenti, compresi i 2.500 italiani stalinisti, emigrati dal 1946-1948 dai cantieri di Monfalcone, in provincia di Gorizia, verso i cantieri ormai jugoslavi di Fiume e di Pola, convinti di contribuire alla edificazione del paradiso socialista di Tito. Ancora una volta la storia di Arbe / Rab si tinge di sangue e di violenza politica. Il memoriale nel 1953 diviene strumento del regime autoritario di Tito, anziché un sito solenne dove onorare i morti.
La struttura di detenzione di Arbe era alle dipendenze del Regio Esercito Italiano, II Armata, Intendenza. Il Comandante era Vincenzo Cujuli, Tenente colonnello, dal luglio 1942 all'8 settembre 1943. Il Corpo di guardia era costituito da circa duemila tra militari e carabinieri. Il numero complessivo degli internati, secondo i dati del sito “Campi fascisti”, era circa di 10 mila individui, non presenti contemporaneamente. Il numero accertato dei detenuti deceduti nel campo è di 1.477.
Il volume di Menachem Shelah si chiude con una breve galleria fotografica dei principali personaggi citati nel testo e con un doveroso indice dei nomi.
Sabotaggio dei ribelli (ovvero i partigiani) sula linea ferroviaria Karlovac-Fiume. Il 1° Squadrone del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria è sul luogo, 22 maggio 1942. Didascalia originale. Collezione Giulio Orgnani, Udine
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Menachem Shelah, Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei in Dalmazia (1941-1943), ristampa anastatica della I edizione – Roma 1991, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 2009, pp. 192, fotografie b/n.
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Nota sulle immagini qui riprodotte
Il tenente Giulio Orgnani (Udine 1912-1988) era inquadrato del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria di stanza a Palmanova (UD) nella seconda guerra mondiale. Fu impegnato a Fiume, in zona d’operazioni militari dell’Esercito Italiano. Secondo i suoi album fotografici, in possesso ai discendenti, il Reggimento Cavalleggeri di Alessandria fu occupato, nel periodo 1941-1943, nelle seguenti località di occupazione italiana: Barilovic, Jaškovo, Josipdol, Karlovac, La Plat Plaski, Ogulin, Oshalj e Voinic. Nel presente articolo si pubblicano alcune immagini di Ogulin, la stessa città degli ebrei Hamburger, Conforty e dei loro parenti, menzionati nella edizione del 2009 del volume di Menachem Shelah.
Alfredo Patti, Il tenete colonnello Giulio Orgnani del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria, carboncino su cartone, cm 25 x 35, 1942, “XX”. Collezione Giulio Orgnani, Udine

Dopo l’8 settembre 1943, essendo in convalescenza in Friuli, Giulio Orgnani, di spirito monarchico, fu ricercato dalle Waffen SS per internarlo in Germania, come accadde a molti militari italiani. Allora egli si mise alla macchia a Colza di Maiaso, in comune di Enemonzo (UD) in Carnia. Col nome di battaglia di “Riccardo” – in base alle ricerche presso l’Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli, sito a Udine – collaborò, in zona carnica, con le Brigate partigiane Osoppo, ispirate all’area cattolica e del Partito d’Azione. Nel 1976 a Udine sposò, in seconde nozze, l’esule fiumana Helga Conighi (1923-2000).
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Sitologia
- Marco Severa, Il campo di concentramento di Rab, on-line dal giorno 11 marzo 2018.  

E. Varutti, Ebrei al Campo di concentramento fascista di Arbe,1942-1943, on-line dal 4 aprile 2018.
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La copertina del libro di Menachem Shelah

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Recensione e servizio fotografico di Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Gerolamo Jacobson e E. Varutti. Si ringrazia per la collaborazione riservata Carlo Cesare Montani, esule da Fiume. Per le fotografie del 2018 si è riconoscenti a Giovanni Doronzo e, per quelle storiche, ai familiari di Giulio Orgnani di Udine, che si ringraziano per la gentile partecipazione e per la concessione alla diffusione e pubblicazione nel blog.


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