È un libro importante e molto documentato questo di Menachem Shelah. È intitolato “Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra
l’Esercito Italiano e gli Ebrei in Dalmazia (1941-1943)”. Destò un certo interesse
sin dalla sua prima edizione, nel 1991, con la traduzione dall’ebraico di
Gaio Sciloni. Era un pezzo di storia del tutto sconosciuto.
Il cancello nell’area
Parco della Rimembranza di Arbe / Rab (Croazia). Fotografia di Giovanni Doronzo 2018
Descrive la sorprendente vicenda di 3.577 ebrei jugoslavi
imprigionati, nell’isola di Arbe / Rab (oggi: Croazia) sotto la vigilanza delle
truppe italiane di occupazione. Essi furono liberati quando cadde il regime
mussoliniano nel 1943. Fu così che si salvarono “dalle grinfie naziste”, come
ha scritto Yossef Lapid, da Tel Aviv, nel 1985, per la presentazione del volume
edito nel 1991.
Per quali motivi furono salvati, pur essendo in vigore dal 1938,
con l’avallo del re, le leggi razziali fasciste contro gli ebrei? La risposta
dell’autore, condivisa dal presentatore, è dovuta a motivi umanitari, col
pericolo di essere denunciati all’Opera di Vigilanza e di Repressione
dell’Antifascismo (OVRA), ossia la polizia segreta fascista.
Nel 1941-1942 molti alti ufficiali dell’esercito, il corpo
diplomatico, i funzionari statali, la polizia e la Chiesa avevano ormai
cognizione delle stragi e delle uccisioni di massa di ebrei perpetrate dai
nazisti e dai loro complici nei territori invasi, dalla Polonia, alla Francia
come, ad esempio, nella Croazia degli ustascia di Ante Pavelić, terribilmente
antiserbo e antisemita.
Menachem Shelah spiega che alcuni generali dell’esercito di
occupazione italiano e taluni funzionari statali, ad esempio, quelli del
ministero degli Esteri, consapevoli dell’imminente crollo del fascismo, fecero la
rischiosa scelta anche per calcolo politico. Nel senso che il salvataggio di
quegli ebrei avrebbe potuto servir loro come salvacondotto nel momento della
resa dei conti con gli alleati anglo-americani vincitori. È vero, altresì, che tale
considerazione non scalfisce il valore del salvataggio compiuto, a rischio di
essere spediti a loro volta nei lager nazisti, come capitò a Giovanni Palatucci, questore di Fiume, un altro italiano che aiutò gli ebrei. Egli fu ucciso
a Dachau.
Nell’edizione del 2009 è contenuto un originale
aggiornamento. Prima di tutto in una Presentazione
alla ristampa, il colonnello Antonino Zarcone, capo Ufficio storico dello
Stato Maggiore dell’Esercito, chiarisce che: “Il dato fondamentale che emerge
dalla lettura della ricostruzione storica di Shelah è il ruolo assunto dalle
Unità dell’Esercito Italiano e dei militari presenti in Croazia nel tutelare
gli ebrei dalla persecuzione” (pag. IV).
Ogulin,
Zona d’operazioni – Foto ricordo del 1° Squadrone del Reggimento Cavalleggeri
di Alessandria, 12 aprile 1941. Collezione Giulio Orgnani, Udine
Di più, Leone Elio Paserman, presidente della Fondazione Museo della Shoah, nella Prefazione alla
ristampa precisa che: “Resta il fatto che il Reale Esercito, insieme con
l’appoggio di alcuni diplomatici, protesse gli ebrei allora dimoranti nella
Dalmazia occupata, come, anche, nello stesso periodo, nella Francia
meridionale, rifiutandone la consegna ai nazisti con vari stratagemmi,
salvandoli da morte certa” (p. VI).
Le righe più significative di questa iniziale parte della
seconda ristampa, in ogni caso, sono riferite alle parole di Renata Conforty
pronunciate nella sinagoga di Cuneo il 31 maggio 2006, nel volume pubblicate col titolo: Testimonianza
(pp. VII-VIII). La signora Renata Conforty ha detto che: “insieme alla mia mamma Olga, di 90
anni, e a mia sorella Dina, che vive in Israele, possiamo pubblicamente
ringraziare il tenente colonnello Antonio Bertone, che ha salvato e protetto la
nostra famiglia durante tutto il periodo bellico, dal 1941 al 1945”.
I Conforty vivevano a Zagabria, dove il capofamiglia
Salvatore commerciava all’ingrosso in pellami e pelliccerie. Con l’invasione
della Jugoslavia da parte di Germania e Italia nel 1941 per gli ebrei locali
iniziarono le persecuzioni da parte degli ustascia con la deportazione verso i
campi di sterminio. Fuggiti da Zagabria, per salvare la pelle, i Conforty, il
17 luglio 1941, si rifugiarono da parenti a Ogulin, nella zona d’occupazione
dell’esercito italiano. Molti ufficiali italiani trovarono alloggio presso le
famiglie ebraiche di Ogulin. Fu così che i Conforty conobbero il tenente
colonnello Antonio Bertone, ospite di Elsa Hamburger in Goldner, zia di Renata
Conforty.
Ogulin, Zona d’operazioni – Rancio al 1° Squadrone del
Reggimento Cavalleggeri di Alessandria, 12 aprile 1941. Collezione Giulio
Orgnani, Udine
Bertone allora si diede da fare per far espatriare
clandestinamente la famiglia ebraica, con l’aiuto di altri militari italiani,
facendola arrivare in treno a Fiume. Il capo ufficio stranieri di Fiume era
proprio Giovanni Palatucci, che ospitò il gruppo dei Conforty niente meno che
nella soffitta della questura, finché ebbero il permesso di soggiorno.
Stabilitisi a Fiume i Conforty, il 15 agosto 1942, non sentendosi abbastanza
sicuri, si trasferirono assieme ad altri parenti ebrei a Sestola, Mirandola e
Zocca, in provincia di Modena, sempre con l’intervento determinante di Bertone
e dei mezzi che metteva loro a disposizione.
La liberazione del 1945 colse la famiglia Conforty a Valenza
Po e i contatti, divenuti affettuosi, con Nino Bertone si svilupparono pure nel
dopoguerra. Il 10 novembre 2005 la Commissione per la designazione dei Giusti,
istituita dallo Yad Vashem di Gerusalemme, assegnò al tenente colonnello
Antonio Bertone la medaglia di Giusto fra le Nazioni.
Molto importante e centrata in veste storica è la Prefazione di Antonello Biagini,
ordinario di Storia dell’Europa orientale all’Università “La Sapienza” di Roma,
che firma pure una chiara e limpida Introduzione
alla ristampa. Il volume, dato alle stampe nel 1991 e risultante a cura
dello stesso Antonello Biagini e di Rita Tolomeo, va contro una certa
storiografia tesa a manipolare i fatti pronunciando la condanna dei
protagonisti.
Negli scorsi decenni si è sviluppata una storiografia
tendente a contrastare l’immagine del soldato italiano “brava-gente”, veicolata
dal dopoguerra agli anni 1980-1990. È vero, tuttavia, che non si può
generalizzare. I comportamenti di certuni furono di sentimenti nobili ed umani,
mentre altri si macchiarono di certi crimini.
Josipdol, Zona d’operazioni – Festa del Reggimento
Cavalleggeri di Alessandria con la messa al campo, 24 giugno 1941. Collezione
Giulio Orgnani, Udine
Pure alcuni storici di Belgrado, come Jaša Romano, nel 1980, accennarono al salvataggio effettuato
dagli italiani di oltre 3500 ebrei del Campo di Arbe contro le pretese ustascia
e dei nazisti che li pretendevano per la soluzione finale hitleriana. Si
ricorda che in Jugoslavia negli anni ’30 c’erano oltre 80 mila ebrei. Dopo la
guerra se ne erano salvati 13.500. Il 30 per cento di essi erano al Campo di
Rab, gestito dagli italiani, che in un’altra parte della struttura avevano
concentrato oppositori sloveni e croati.
Dopo l’8 settembre 1943 al Campo di concentramento di Arbe
gli internati (ebrei, da un parte e sloveni-croati, dall’altra) presero il
comando dei due campi. Con il colonnello Vincenzo Cujuli, comandante del Campo fu deciso
che ai soldati di guardia fosse consentito di evacuare il posto, mentre il
colonnello fu arrestato e consegnato ai partigiani. Egli si suicidò qualche
giorno dopo la sua prigionia tra i miliziani di Tito, ma altre fonti riferiscono della sua cattura da parte dei titini, con conseguenti sevizie e fucilazione.
Gli ex internati,
munitisi di armi italiane, addirittura ebbero la forza fisica di organizzarsi
in varie unità partigiane (ebraica e croato-slovena). La formazione ebraica
contava 240 combattenti. Quelle slave, di oltre 1.400 elementi (dati del Parco
della Rimembranza ad Arbe / Rab, allestito in memoria dalla Repubblica slovena),
potevano contare pure su diverse decine di personale sanitario ebraico, come
medici ed infermiere.
Karlovac, Zona d’operazioni – Posto di blocco con soldati
italiani al carro veloce CV33,
chiamato poi L3/33 o tankette, 5 aprile 1942. Collezione Giulio Orgnani, Udine
Il Parco della Rimembranza di Arbe fu istituito nel 1953, su
progetto dell’architetto sloveno Edvard Ravnikar. C’è tuttavia un aspetto conturbante riguardo al Memoriale di
Rab, come si legge nella relativa scheda del sito “A Est Ovest, Osservatorio
dei Balcani”. Vero è che fu edificato in onore delle vittime del Campo di
concentramento fascista, ma ciò avvenne con il lavoro forzato degli internati
di una altro campo di detenzione. Erano essi i detenuti politici rinchiusi
sulla vicina isola di Goli Otok (Isola Calva), utilizzata dal regime comunista
jugoslavo come carcere per dissidenti, compresi i 2.500 italiani stalinisti, emigrati
dal 1946-1948 dai cantieri di Monfalcone, in provincia di Gorizia, verso i
cantieri ormai jugoslavi di Fiume e di Pola, convinti di contribuire alla
edificazione del paradiso socialista di Tito. Ancora una volta la storia di
Arbe / Rab si tinge di sangue e di violenza politica. Il memoriale nel 1953
diviene strumento del regime autoritario di Tito, anziché un sito solenne dove
onorare i morti.
La struttura di detenzione di Arbe era alle dipendenze del
Regio Esercito Italiano, II Armata, Intendenza. Il Comandante era Vincenzo
Cujuli, Tenente colonnello, dal luglio 1942 all'8 settembre 1943. Il Corpo di
guardia era costituito da circa duemila tra militari e carabinieri. Il numero
complessivo degli internati, secondo i dati del sito “Campi fascisti”, era
circa di 10 mila individui, non presenti contemporaneamente. Il numero
accertato dei detenuti deceduti nel campo è di 1.477.
Il volume di Menachem Shelah si chiude con una breve galleria
fotografica dei principali personaggi citati nel testo e con un doveroso indice
dei nomi.
Sabotaggio
dei ribelli (ovvero i partigiani) sula linea ferroviaria Karlovac-Fiume. Il 1° Squadrone del Reggimento
Cavalleggeri di Alessandria è sul luogo, 22 maggio 1942. Didascalia originale. Collezione
Giulio Orgnani, Udine
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Menachem Shelah, Un
debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei
in Dalmazia (1941-1943), ristampa anastatica della I edizione – Roma 1991, Roma,
Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 2009, pp. 192, fotografie b/n.
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Nota sulle immagini qui
riprodotte
Il tenente Giulio Orgnani (Udine 1912-1988) era inquadrato
del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria di stanza a Palmanova (UD) nella
seconda guerra mondiale. Fu impegnato a Fiume, in zona d’operazioni militari
dell’Esercito Italiano. Secondo i suoi album fotografici, in possesso ai discendenti,
il Reggimento Cavalleggeri di Alessandria fu occupato, nel periodo 1941-1943,
nelle seguenti località di occupazione italiana: Barilovic, Jaškovo, Josipdol, Karlovac, La Plat Plaski, Ogulin, Oshalj e
Voinic. Nel presente articolo si pubblicano alcune immagini di Ogulin, la
stessa città degli ebrei Hamburger, Conforty e dei loro parenti, menzionati nella
edizione del 2009 del volume di Menachem Shelah.
Alfredo
Patti, Il tenete colonnello Giulio Orgnani
del Reggimento Cavalleggeri di Alessandria, carboncino su cartone, cm 25 x
35, 1942, “XX”. Collezione Giulio Orgnani, Udine
Dopo l’8 settembre 1943, essendo in convalescenza in Friuli,
Giulio Orgnani, di spirito monarchico, fu ricercato dalle Waffen SS per internarlo in Germania, come accadde a molti militari
italiani. Allora egli si mise alla macchia a Colza di Maiaso, in comune di
Enemonzo (UD) in Carnia. Col nome di battaglia di “Riccardo” – in base alle
ricerche presso l’Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli, sito a Udine – collaborò,
in zona carnica, con le Brigate partigiane Osoppo, ispirate all’area cattolica
e del Partito d’Azione. Nel 1976 a Udine sposò, in seconde nozze, l’esule
fiumana Helga Conighi (1923-2000).
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Sitologia
- Marco Severa, Il campo di concentramento di Rab, on-line dal giorno 11 marzo 2018.
E. Varutti, Ebrei al Campo di concentramento fascista di Arbe,1942-1943, on-line dal 4 aprile
2018.
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La copertina del libro di Menachem Shelah
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Recensione e servizio fotografico di Elio Varutti. Ricerche e
Networking a cura di Gerolamo Jacobson e E. Varutti. Si ringrazia per la
collaborazione riservata Carlo Cesare Montani, esule da Fiume. Per le
fotografie del 2018 si è riconoscenti a Giovanni Doronzo e, per quelle
storiche, ai familiari di Giulio Orgnani di Udine, che si ringraziano per la gentile partecipazione
e per la concessione alla diffusione e pubblicazione nel blog.
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