Visualizzazione post con etichetta bambini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta bambini. Mostra tutti i post

domenica 16 gennaio 2022

Il mio amico Antonio. Una storia dal Centro raccolta profughi di Laterina, 1958

Ecco un tragico racconto scritto da Dino Radolovich, nato a Marzana (Pola) nel 1947 e dimorante al Crp di Laterina (AR) dal 1957 al 1960, poi in quello di Tortona (AL) prima di approdare a Seriate (BG). Lo ringraziamo per questo originale brano di grande umanità. È la dimostrazione pratica dell’integrazione dei profughi giuliano dalmati nell’ambiente aretino degli anni ’50, che li spinge a tentare di salvare un giovane autoctono annegato nell’Arno. Non è la prima volta che un giuliano dalmata si tuffa nelle acque del fiume per salvare dall’annegamento un aretino. Teresa Arrigucci, classe 1919, di Laterina nel 2004 ha ricordato di essere stata salvata da una slava profuga nell’Arno, dov’era caduta, con la figlia, rischiando di affogare dopo il cedimento di una passerella; vedi pag. 24 di Mentre l’Arno scorreva, edito dal Comune di Laterina, in Bibliografia. Mi è capitato di parlare con la bambina salvata in quel frangente. Si chiama Silvana Rossi, poi maestra pure lei e amica degli esuli di Zara. La donna che ci ha salvato dall’affogamento – ha detto la maestra Rossi – si chiamava Gigliola, poi da Laterina emigrò a Genova; ci si telefonava e me la ricorderò sempre. Vedi: La patria perduta, p. 58.

Campo profughi di Laterina, merenda per i giovani profughi con le maestre e don Bruno Bernini vicino alla canonica, 1959. Dino Radolovich è davanti col pallone, suo fratello è il secondo a destra. Fotografia di Dino Radolovich

Dino Radolovich è autore di: Senza patria, Parma, Helios edizioni, 2021, disponibile nel web. È un libro che tratta le vicissitudini personali e di migliaia di famiglie istriane divenute profughe quando, nel 1947, l'Istria (oggi regione della Croazia) passò dal Regno d'Italia alla Jugoslavia di Tito, oltre a descrivere la vita tribolata nei Campi profughi. Dino Radolovich, nei contatti intrapresi per la presente diffusione nel blog, mi ha comunicato di essere transitato per il Centro smistamento profughi di Udine, da dove passano oltre 100mila esuli, dal 1945 al 1960.

Le fotografie del Crp di Laterina sono di Dino Radolovich (ANVGD di Bergamo). Quelle della lapide di Antonio Chini, ricercata nel 2015 da Claudio Ausilio Manlio Giadrossich e Claudio Picchioni, nipote di Egidio Rocchi, esule di Rovigno, sono dell’ANVGD di Arezzo.  (a cura di Elio Varutti).

--

Noi ragazzi del C.R.P. di Laterina non ci si annoiava mai: eravamo talmente tanti che qualche passatempo lo si trovava sempre, specialmente nel periodo estivo. Ma non eravamo mai tutti insieme, si formavano sempre dei gruppetti spontanei a seconda di ciò che qualcuno di noi proponeva di fare. Questo, però, succedeva solo qualche giorno dopo l’inizio delle vacanze scolastiche, quando ci si rendeva conto che non c’erano più i compiti da fare.

Si cominciava sempre col gioco a carte, il solito sette-e-mezzo, per vincere i giornalini che ogni giocatore metteva in palio. Il posto prescelto era, per lo più, lo spazio antistante la baracca 21 che sino alla fine dell’anno scolastico 1956-1957 era occupata dalla maestra Pasqua Benvegnù Sponza e la sua famiglia. Dinanzi all’abitazione c’era una stretta aiuola e qualche pianta che ci forniva una giusta ombra, e per di più la baracca si trovava in una zona centrale del campo e quindi ben visibile a tutti gli interessati.

Con l’avanzare delle belle giornate nei gruppi avveniva un’ulteriore suddivisione: c’erano quelli che andavano a fare le prime nuotate nell’Arno mentre altri preferivano dedicarsi alla pesca e portare, trionfanti, alle mamme le proprie prede infilate in un rametto di ginestra. Al pomeriggio e fino all’ora di cena ci si dedicava al gioco del pallone, ma non sempre sul campo centrale (bello grande, pianeggiante e con le porte vere) ma sul praticello di fianco alla nostra chiesetta perché il “vero” campo se lo accaparravano i giovanotti che si dovevano allenare per le sfide contro le squadre dei paesi vicini.

Solamente al campicello mi accorgevo che al nostro Centro, oltre a noi maschietti, c’erano pure le femminucce che facevano dei giochi che a noi non interessavano per niente. Per la verità me n’ero accorto benissimo che in classe c’erano pure loro, ma una volta fuori dalla scuola è come se sparissero, perché elettrizzato dalle nuove compagnie e dai nuovi passatempi non mi rendevo minimamente conto che ci fossero anche loro.

L’inizio delle vacanze dell’anno 1958, però, non sono riuscito a godermele completamente perché, avendo voluto frequentare le scuole medie, all’esame d’ammissione sostenuto ad Arezzo ero stato rimandato a settembre. E sì che per essere ben preparato avevo cominciato a ricevere lezioni private già prima dell’inizio del terzo trimestre.

Io ero l’unico profugo con queste “grandi” mire di studio, però avevo scoperto subito che ero sì l’unico profugo ma non l’unico del Centro con queste intenzioni. Nella mia classe, infatti, c’era un altro ragazzo di quinta che vedevo piuttosto isolato, alla mia sinistra, in fondo al tavolaccio che ci serviva da banco, e che parlava l’italiano bene come la nostra maestra. Diceva le doppie proprio come bisognava pronunciarle, solo alcune parole che iniziavano con la lettera “C” le pronunciava come fossero delle “H”, ma la maestra sembrava non badarci. Questo ragazzo si chiamava Antonio, era un tipo tranquillo, non ha mai giocato a carte con noi, abitava dietro alla chiesa nella baracca 18 e si univa al nostro gruppo solo quando giocavamo a pallone nel campetto che confinava col suo alloggio. Mi ricordo che, come sentiva i nostri schiamazzi, usciva di casa e dopo un minuto veniva fuori anche la sua mamma tenendo per mano una bambinetta.

Antonio Chini, immagine dalla lapide. Fotografia di Claudio Ausilio del 2015

Mai avrei pensato che questo coetaneo e compagno di classe sarebbe diventato presto uno dei miei più affiatati amici, nemmeno quando, una sera, mio padre mi disse che per andare alle medie avrei dovuto esprimermi in italiano puro e non in dialetto triestino e che per questa ragione aveva contattato un maestro di Laterina. E fu sempre quella sera che mi riferì, oltretutto, che sarei andato assieme ad Antonio che era (lo seppi proprio allora) il figlio del magazziniere signor Chini, toscano purosangue, responsabile del magazzino da cui uscivano e rientravano i materiali necessari ai profughi: brande, coperte, stoviglie, sedie e tavoli (se ce n’erano). Era proprio il periodo in cui mio padre dava una mano in quel magazzino ed era diventato amico e braccio destro del responsabile così come io divenni subito amico del figlio.

Da quel momento io e Antonio divenimmo inseparabili. Andavamo e tornavamo sempre assieme dal maestro Carlo Staderini che abitava in una bella casa subito sotto il paese, di fianco alla strada che scende verso la via Aretina e appena poco prima delle scuole elementari. Ricordo che oltre a noi due c’erano altri due ragazzi con questo problema delle lezioni supplementari: uno, di nome Giorgio, disse di essere figlio del guardiano della centrale elettrica, il secondo era un nipote del maestro Carlo e si chiamava Egisto. Era la prima volta che sentivo il nome Giorgio e mi piaceva come suono; il nome Egisto, invece, mi dava un senso di severità e mi sembrava adatto a persone importanti e non a un ragazzo.

Loro tre mi sembrarono molto più preparati di me, lo confidai ad Antonio subito il primo giorno che stavamo tornando a casa e lui m’incoraggiò dicendomi che ce l’avrei fatta di sicuro anch’io. E mi confidò, in quello stesso giorno, che lui avrebbe voluto diventare un sacerdote e per questo motivo, per frequentare il seminario, doveva andare alle medie.

Sia all’andata che al ritorno facevamo lo stesso percorso: usavamo un viottolo, lastricato con ciottoli di fiume, che a pochi metri dall’uscita del campo profughi saliva quasi dritto verso Laterina sbucando vicino a un pianoro che i ragazzi del paese adoperavano come campo da gioco. Mi ricordo che delle volte si fermavano in quello spiazzo anche dei piccoli circhi e delle giostre. Io e Antonio ci andammo un paio di volte: una volta al circo e l’altra alle giostre. Queste ultime ci divertirono di più perché facemmo tanti “giri premio” vinti afferrando un pupazzetto che veniva appeso in alto sopra il giro che compivano i sedili. Antonio stava sul seggiolino dietro al mio e al momento opportuno mi dava una bella spinta e io, distendendomi, riuscivo a prenderlo.

Mi è rimasto però sul gozzo una melagrana che non riuscimmo a gustarci. La pianta di melograno era cresciuta nella siepe del viottolo che percorrevamo ogni giorno e quel frutto l’abbiamo visto crescere e maturare. Se non che, rimanda oggi rimanda domani per coglierlo alla maturazione giusta, successe che qualcuno ci precedette e se lo gustò al posto nostro. Ci guardammo sconsolati e ci promettemmo che la prossima volta non avremmo più fatto un errore simile. 

Purtroppo, quella promessa non servì a molto perché alla fine di quell’anno scolastico (1957-1958) avvenne un fatto che nessuno di noi due avrebbe minimamente immaginato: era estate piena, era una calda domenica d’agosto e praticamente tutti gli ospiti del nostro Centro erano a rinfrescarsi sulle sponde dell’Arno. Io, mio fratello e altri amici sguazzavamo nel fiume andando un po’ di qua e un po’ di là, senza un posto fisso. A un certo punto vedemmo, nella zona dei pioppi, un’agitazione strana: persone che s’incrociavano tra loro, confabulavano e poi correvano verso il Campo, altre che dal Campo correvano verso i pioppi.

Cos’era successo nella zona dei pioppi? Ci chiedemmo preoccupati e curiosi.

Quel giorno erano andati a prendere il fresco all’ombra di quegli alberi anche i miei genitori; decisi allora di raggiungerli per chiedere cosa stesse succedendo. Arrivato là, tra la sponda destra dell’Arno e i filari dei pioppi vidi subito i miei genitori che schiacciavano la schiena di un bambino, poi lo rivoltavano e gli schiacciavano il petto, lo mettevano a gambe in su e lo battevano ancora sul petto e sulle spalle. Mi feci spazio tra la gente e raggiunsi i miei: stavano cercando di salvare il mio amico Antonio. Non mi servì chiedere cosa fosse successo, era ben chiaro: era annegato.

I commenti della gente erano i più svariati: probabilmente aveva appena mangiato, forse aveva battuto la testa, avrà trovato della corrente più fredda, magari era il cuore… Dopo un po’ arrivò anche il dottor Fiore, il medico del Campo; fece distendere il bambino all’ombra, gli controllò le pupille, guardò i miei (supponendo che fosse il loro figlio) posò la mano sulla spalla del mio papà e disse scuotendo la testa: “Non c’è più niente da fare”. Guardando la gente radunata intorno, allargò le braccia come per scusarsi e se ne andò facendo lo slalom tra i presenti rimasti tutti scioccati.

Il dottore aveva senz’altro ragione, lui aveva studiato, sapeva se c’erano ancora speranze o meno, ma mio padre, memore forse della sua esperienza di quando si era bruciato da soldato e del comportamento dei medici in quell’occasione, non si arrese. E nemmeno mia madre. No! Non potevano rinunciare così; forse il dottore si era sbagliato, forse si poteva ancora risvegliare quel corpicino inanimato che adesso, coi muscoli rilassati e non rispondenti agli stimoli, mi sembrava più piccolo di come era in realtà.

Laterina, lapide del giovane Antonio Chini, nato ad Arezzo il 26.1.1947 e morto a Laterina il 3.8.1958. Fotografia di Claudio Ausilio

Fecero di tutto per farlo tornare a respirare: gli chiudevano il naso e gli soffiavano in bocca, gli schiacciavano ritmicamente il petto, gli muovevano contemporaneamente le braccia e le gambe, lo mettevano con la pancia per terra e premevano sulla schiena, con le gambe per aria e davano delle pacche sul sedere come ai neonati in sala parto. Erano sudati e stravolti, e ansimavano.

Sapevo che mio padre aveva letto libri e aveva imparato tante cose, ma mia madre non la immaginavo così esperta nell’eseguire tutte quelle azioni in perfetta sincronia col papà.

A un certo punto due dei presenti, con gli occhi lucidi, s’avvicinarono a mio padre e gli appoggiarono, con grande rispetto, una mano sulla spalla dicendo: «Radolovich, xe tuto inutile. Lassèmolo ai sui» [Radolovich, è tutto inutile. Lasciamolo ai suoi (genitori)]. Dov’erano i suoi, per la verità, non lo so. Forse erano lì accanto ma io non li vidi, forse avevano fiducia nei miei e non osavano intervenire.

In mezz’ora, non so come, la notizia si sparse per tutto il Campo e oltre; vidi arrivare tante persone da Laterina e fra queste anche il nostro maestro Carlo Staderini con la sua Lambretta azzurro chiaro. Ma non ho proprio presenti i genitori di Antonio. Il funerale si svolse nella loro città, ad Arezzo. 

Quando trent’anni anni dopo ritornai a vedere il nostro Campo, volli arrivare sino all’Arno e naturalmente sino ai pioppi. Le sponde del fiume mi sembrarono melmose e l’acqua torbida; non c’era più il boschetto ordinato dei pioppi e non avrei saputo riconoscere neanche il punto dov’era successa la disgrazia se non fosse stato per una piccola lapide di marmo, con la foto il nome e cognome, messa dalla famiglia di Antonio per ricordare il figlio agli amici del Campo che cercarono di salvarlo.

La piccola lapide era abbandonata e quasi coperta dai rovi, dall’erba alta e dalle zolle dei campi arati.

Nessuno più la vede, nessuno più ricorda l’accaduto. Forse solo noi del Campo che, quando possiamo e per non dimenticare, almeno una volta siamo tornati in seguito a rivedere il nostro primo impatto con la terra d’Italia.

Dino Radolovich

Laterina, Manlio Giadrossich e Claudio Picchioni sulla riva dell'Arno in veste di "tagliatori di erbacce" alla ricerca della lapide del giovane Antonio Chini, 2015. Fotografia di Claudio Ausilio

Cenni bibliografici e di sitologia

-  Comune di Laterina, Scuola Primaria di Laterina, Istituto Comprensivo “F. Mochi” di Levane, Mentre l’Arno scorreva. Memorie orali sull’Arno e i suoi affluenti raccolte nel territorio di Laterina, Arezzo, 2006.

- Giuliana Pesca, Serena Domenici, Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello, Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

- Dino Radolovich, Senza patria, Parma, Helios edizioni, 2021.

- E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Aska edizioni, Firenze, 2021.

- E. Varutti, L’esodo di Egidio Rocchi da Rovigno al Centro profughi di Laterina e Torino, 1949, on line dal 5 dicembre 2021 su   varutti.wordpress.com

--

Note – Autore principale: Dino Radolovich, ANVGD di Bergamo. Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Altri testi di: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Dino Radolovich. Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:    https://anvgdud.it/


Planimetria ricostruita del Crp di Laterina, con appunti di Dino Radolovich, in colore viola. Collezione Dino Radolovich


venerdì 20 marzo 2015

I platani del vial de Palma, Udine 1960-1965

Da bambino mi è capitato di accarezzarli, i platani. Col loro tronco possente e la corteccia così fragile. Con quei nodi, improvvisi e solenni, grossi come dei bubboni. Con quei mimetismi lobati della parte esterna del fusto. Oh, che bei colori! Mi fanno ancora sognare, per la varietà di toni marrone, grigio e verde. Mi vengono in mente i grigi infiniti dei quadri di Afro Basaldella.
I platani sono quelli di Udine in Viale Palmanova, detto pure “Vial de Palma”, in dialetto udinese, oppure “Viâl di Palme” in friulano. Per i più vecchi è “la strade par Palme”. Ci ho giocato attorno per tanti anni. Con gli altri bambini della zona abbiamo costruito certe capanne di rami e fogliame, vicino ai platani. Giocavamo di pellerossa e di guerra. Ci si riferiva alla Seconda guerra mondiale.

Udine, piazzale Palmanova, vecchio toponimo di piazzale D'Annunzio o Porta Aquileia. Cartolina del 1938

Uno più grande di noi, Enrico, una volta si fermò vicino ai platani e alle nostre capanne. Eravamo tutti maschi, dai dieci ai tredici o quattordici anni. Enrico ci disse che alla nostra età, lui andava già a ragazze. Veramente disse: “Cosa fate qui, con quelle piume in testa, come dei cretini, piuttosto andate in cerca di femmine!”. Mi sembra di aver letto che l’educazione sessuale può essere trasmessa da diverse agenzie pedagogiche. Enrico, per noi bambini, si è dimostrato una spavalda agenzia pedagogica. Così, secondo lui, dovevamo abbandonare i nostri bei costumi da pellerossa, per andare a donne.
Certo, qualcuno di noi aveva delle miserabili penne di colombo, attorno alla testa, tenute da vari nastri colorati. Essi nastri venivano asportati artatamente dai cesti di sartoria che molte mamme di Via delle Fornaci avevano poiché, per arrotondare il magro reddito familiare, si occupavano di piccoli lavori da sarta, come molte mamme istriane. Quelli con le penne di piccione venivano considerati dei giovani guerrieri. Ci si arrangiava con ciò che si trovava vicino ai platani. Qualche altro fortunato aveva i copricapo alla Toro Seduto, con una corona di penne nere di corvo imperiale, oppure marroni di poiana. Io avrei dovuto lasciare lo scudo che mi ero dipinto a colori vivaci, come quelli delle antiche civiltà mesoamericane, per cercare le femmine e il sesso? A volte è proprio strana l’educazione sessuale.
Altra storia è quella di Daniele. Era uno della banda di Via dei Medici, un gruppo piccolo e male organizzato. Daniele quando era bambino a scuola leggeva sempre. Anche quando la maestra faceva la sua lezione, lui leggeva, perché gli piaceva tanto. Con lui giocavamo di “indiani e cow boys”. Una volta la mia banda riuscì a farlo prigioniero nel nostro territorio, dove la sua ghenga aveva osato scorrazzare, con grida di guerra Sioux. 
Con un vecchia corda lo avevamo legato ad un albero, come un vero prigioniero. Era pure a torso nudo e con i segni di guerra sul viso. L’abbiamo liberato solo verso sera, quando sua madre era venuta a cercarlo, oltre i platani. Gridava il suo nome come un’ossessa. E gli prometteva: “un tango di chei che tu ti visarâs”. Mi ricordo, che poi lo pestò proprio per bene, perché non riusciva a trovarlo. Mi dispiace ancor oggi per quel fatto, perché lei riuscì a distruggergli tutti i paramenti da pellerossa.

Ricordo, poi, uno spaventoso incidente, avvenuto alla fine degli anni Cinquanta contro un platano. È quello che sta a sinistra, entrando in città, appena si inizia la salita del cavalcavia. Tronco poderoso. Una chioma enorme e splendida che io mi gustavo in tutti i suoi colori dalla primavera, con una miriade di gradazioni di verde, fino ai gialli, agli aracioni e ai marroni dell’autunno. Ci finì contro una Fiat di quel tempo, con cinque giovani dentro che tornavano da una festa. Tutti morti! La gente diceva che sul tettuccio dell’automobile c’erano parti del cervello di qualcuno di quei poveri disgraziati.
I platani di viale Palmanova a Udine 
fotografia di:  www.lavitacattolica.it

Quello fu solo l’anticipo della “strage del sabato sera”. Tale evento si sviluppò prevalentemente negli anni Ottanta, Novanta e pure dopo il 2000, quando al ritorno dalle serate passate in discoteca, contro i platani, che si trovano lungo la strada per Grado, andavano a sbattere le automobili dei ragazzi, lasciandoci la vita. Nei giorni successivi c’era il rito delle pagine di cronaca nera sul quotidiano locale e dei mazzi di fiori portati dagli amici affranti lì, vicino al platano assassino. Il sabato seguente tutto ricominciava daccapo. Discoteca, voglia di sballare, alcol, droga e poi alle sei di domenica mattina quello che guidava, s’addormentava e portava un’altra automobile contro il platano. Con altre vittime.
Il poeta Elio Bartolini su fatti analoghi, accaduti lungo la strada statale n. 13, la cosiddetta Pontebbana, che va da Venezia a Pontebba e poi in Austria, ha scritto le seguenti parole, nell’ultima parte della sua poesia intitolata “Corot par un di vinc’ ains”:

            “(…) Invessit a’ murin.
                        E nol è nancje un sigo a durâ
                        sot il fueam dai platanos
                        di lunc la Pontebane, ma
        Nel fiore dei suoi vent’anni –
‘pene un lament”.



Vedi: Elio Bartolini, Poesiis protestantis, 1982. Si riporta la traduzione della poesia “Lamento funebre per un ragazzo di vent’anni”. “(…) Invece muoiono. / E non è nemmeno un grido quello a durare / sotto il fogliame dei platani / lungo la Pontebbana [strada statale], ma / – Nel fiore dei suoi vent’anni – / appena un lamento”.

I primi platani che affiancano il viale Palmanova furono piantati a metà dell’Ottocento, in applicazione della delibera del Consiglio Comunale del 21 aprile 1846, come ha scritto monsignore Aldo Moretti nel suo: “Il viale Palmanova e i suoi platani”, nella pubblicazione intitolata Baldasseria ’91. Dovevano servire, nel 1846, a dare un po’ di ristoro, con l’ombra delle loro grandiose chiome, ai viaggiatori in carrozza per la strada di Palma. Ho conosciuto don Aldo Moretti, perché operò nella parrocchia di San Pio X, dove sono nato. Lui era “aiutante” del parroco dal 17 ottobre 1971 al 1992. Fu compagno di studi e amico di mio padre, Giacomo Varutti, che conservò alcune sue lettere. Furono assieme anche nella Resistenza, pur occupando posizioni, evidentemente, assai diverse, visto che lui era un capo.
Nel 1995, don Moretti lo vedevo nelle riunioni della Società Filologica Friulana, dove si accendevano grandi discussioni sul modo di trovare una grafia comune per la “marilenghe”. Una volta gli parlai di mio padre. “Sono il sesto figlio di Giacomo” – gli dissi. E lui pronto a ribattere: “Ah, il plui piçul… la code!”. Ebbene sì, ero la “coda” della famiglia, il più coccolato. Gli epiteti in italiano e in friulano potrebbero continuare, ma non vado oltre. Mi pare più importante, qui, raccontare la vita di don Aldo, che riprendo dal volume pubblicato per il 50° anniversario della fondazione della parrocchia di San Pio X a Udine.

Vedi: Franco Sguerzi – Elio Varutti, La nostra Parrocchia di San Pio X a Udine 1958-2008. Cinquant’anni di memorie condivise, Academie dal Friûl, Udine, 2008. Per informazioni questo è l’indirizzo: Parrocchia di San Pio X, Via Aurelio Mistruzzi, 1 - 33100 Udine.

Don Aldo Moretti era nato a Tarcento il 20 novembre 1909 da Antonio e Giuseppina Rumiz, ultimo di dodici figli. Studiò a Tarcento, Mels e Udine. A Roma fu ospite del 1928 al 1935 del Pontificio Seminario lombardo per gli studi universitari. Vi conseguì il dottorato in filosofia scolastica all’Accademia S. Tommaso (1931), il dottorato in teologia all’Università Pontificia Gregoriana (1932) e al Pontificio Istituto Biblico (1935). Fu consacrato sacerdote da Mons. Giuseppe Nogara nella metropolitana di Udine il 26 marzo 1932. Tenente cappellano del 40° Reggimento fanteria “Bologna”, con cui partecipò alle campagne di guerra in Africa Orientale.  Il 26 novembre 1941 ferito e catturato, fu prigioniero in Egitto. Rientrò in Italia per uno scambio di prigionieri nel 1942.
Dal 1943 al 1945 fu cappellano dei partigiani delle formazioni Osoppo Friuli e componente dell’Esecutivo militare del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL). Il suo nome di battaglia fu Don Lino.
Don Aldo Moretti, DON LINO - Fotografia di: www.anpigiovaniudine.org

Medaglia d’oro al valore militare con Decreto del 27 ottobre 1950. “Cappellano militare presso un reggimento di fanteria impegnato in aspri combattimenti si prodigava al di là di ogni umana possibilità, a capo di squadre porta feriti, per raccogliere ed assistere numerosi feriti sotto violento fuoco avversario. Mentre assolveva la sua pietosa missione riportava gravissime ferite ad una mano e ad una gamba. Pur stremato di forze rifiutava ogni soccorso fino a quando non si era assicurato che non vi fossero accanto a lui altri feriti da raccogliere. Catturato quasi privo di sensi, e trasportato in ospedaletto da campo, appena in grado di farlo, riprendeva la sua missione a conforto dei compagni connazionali. Rimpatriato come mutilato, appena inizia la lotta di liberazione contro i germanici in Friuli, si prodigava con grave pericolo, nell’organizzare, guidare ed assistere le formazioni partigiane del gruppo divisioni d’assalto Osoppo – Friuli. Magnifico esempio di ardente patriottismo e di sublime carità cristiana.
Africa Settentrionale, novembre 1941 – fronte della Resistenza 1943-45”.
Fu docente di Sacra Scrittura, Catechetica e Teologia del Sacerdozio presso il Seminario dal 1935 al 1971 e assistente dei Laureati Cattolici nel 1938 e della Federazione Universitari Cattolici Italiani (Fuci) dal 1945. Divenne delegato vescovile dell’Azione Cattolica e Opere Cattoliche dal 1947 al 1955. Fu direttore della Scuola Cattolica di Cultura dal 1955 al 1962, Canonico Teologo del capitolo Metropolitano di Udine dal 1960 al 1971. Fu fondatore del Carmelo di Montegnacco, presidente della sezione provinciali dell’Associazione Mutilati di Guerra dal 1969 al 1979. Divenne vicepresidente dell’Istituto Friulano di Storia del Movimento di Liberazione di Udine dal 1970 al 1991. Fece parte del Consiglio Generale della Società Filologica Friulana. Dopo il pensionamento fu ospite del Seminario dal 5 settembre 1973. Monsignore Aldo Moretti morì a Udine il 26 luglio 2002.
Ho visto dei bellissimi platani anche in Provenza. Ero in vacanza a Cavaillon nell’agosto del 2008. Che bella gente! Che bei posti pieni di storia. Davanti all’Hotel du Parc c’erano dei possenti alberi con i rami potati in modo da fare più ombra possibile alla facciata stessa dell’albergo. Era il depliant della struttura ricettiva, dato che i bei platani da poco erano stati tagliati del tutto, per fare più spazio ai parcheggi. Accidenti all’invasione delle automobili!
Un altro platano mitico era quello di Piazza del Pollame, a Udine, tanto decantato da Renzo Valente nel suo libro “Udine 16 millimetri”, del 1987. Fu anche fotografato in vari decenni, con la gente lì sotto a fare mercato. L’albero morì col Novecento, se ricordo bene. Oggi c’è una pianta giovane al suo posto. C’è sempre lo stesso fervore nella piazzetta tra Via del Gelso, Via Zanon e Via Poscolle.

Udine - Piazza del Pollame, antico toponimo di via Zanon; fotografia del 1915, archivio Brisighelli.

Una strada costellata di alberi è pure Via Marangoni a Udine. Fu lì che D., un mio amico sindacalista decise di farla finita col mondo, gettandosi nel canale Ledra che scorre lì appresso. Il suo corpo fu recuperato dai pompieri. Non ricordo bene se era il 1998 o l’anno seguente. Posso dire che pure lui visse accanto ai platani di Viale Palmanova. Forse ne accarezzò la corteccia, come capitava pure a me di farlo. E giocò con noi, “mularie” delle bande di Via delle Fornaci.

Riproduco qui di seguito l'articolo di don Aldo Moretti su "Il Viale Palamanova e i suoi platani", pubblicato sul numero unico della parrocchia di San Pio X di Udine, per la sagra di Baldasseria del 1991.


IL VIALE PALMANOVA E I SUOI PLATANI

Il Viale Palmanova “Stradon di Palme” come allora si chiamava, ideato e costruito nel secolo scorso, quando il nome Aquileia, nonostante la Porta Aquileia e il “Borc d’Olee”, era sfumato nei ricordi come le nebbie della Bassa e lontano perché oltre confine, nell’Impero Austriaco, non si chiamò strada per Aquileia, ma strada per la più vicina e veneta Palma. Adir vero allora sia Palmanova che Aquileia erano Austriache; ma la prima apparteneva, come Udine al Regno Lombardo– Veneto, mentre Apparteneva alla “Principesca contea di Gorizia e Gradisca", austriaca dunque di seria A.
Sull’origine di questa grande strada di comunicazione ho trovato su gentile segnalazione del Dr. Renzo Moreale di Cussignacco, una Delibera del Consiglio Comunale  di Udine che val la pena di riportare integralmente [con la grafia del tempo].

Consiglio Comunale della regia città di Udine – seduta del 21 aprile del 1846 (al XIII punto dell’o.d.g.) piantaggione pella strada r. da Udine a Cussignacco.
Leggesi al Consiglio il Delegazio Decreto 31 marzo pp. 8792 ed il successivo 16 aprile corr. N. 9821 coi quali viene chiamato il Comune all’assunzione delle spese pella impiantaggione dei platani lungo la R. Strada Postale che ora si costruisce dalla Porta Aquileia ai Casali Papparotti oltre Cussignacco arrivando la spesa stessa a lire 798,30.
Ciò premesso il Municipio col rapporto 19 corr. N. 2197/2540 facendo conoscere come la R. Delegazione nel proporre alla Superiorità la piantaggione suddetta non fece che secondare i desideri degli abitanti, e come la piantaggione stessa sia necessaria per iscorrere la strada fra mezzo a campagne la maggior parte nude, oltrechè di abbellimento per essere strada di pubblico passaggio per indursi alla vicina frazione di Cussignacco, propone che il Consiglio adotti la spesa pel tratto però da Udine a Baldasseria, intendendo che ciò basti per pubblico passeggio , con che però il Comune debba usufruire dei vantaggi derivabili dalle ordinarie potature delle piante.
Il Consigliere cav. Beretta facendo plauso alla proposizione Municipale manifesta il suo avviso che il Comune assuma invece la spesa totale per la impiantaggione fino alla strada che dalla R. Postale mette a Cussignacco anzichèlimitarsi soltanto fintai Casali di Baldasseria, sia perché il tratto da raggiungersi è piccolo, come a motivo per la passeggiata dei Cittadini essendo per solito fino a Cussignacco, sarebbe innoportuno il privarli della grata ombra dei platani prima di giungere al convegno.
Essendo quasi unanime il voto manifestato a favore di questa proposizione, il Presidente pone a partito di assumere la spesa pella impiantaggione dei platani a destra e a sinistra della nuova Strada dal piazzale di Porta Aquileia fino alla strada divergente per Cussignacco nella avvisata somma di lire 798,30.
Girato il Bosslo e raccolti i voti si trovano favorevoli n. 29, contrari uno.
Il Presidente Doimo Conte Frangipane.

Dunque nel 1848 questa “nuova strada R(egia) Strada Postale” si stava costruendo. D’altronde se siamo alla “piantaggione dei platani”, si è già alla fase finale. Ma i lavori devono aver occupato almenouna ventina d’anni. Cel lo fa presumere, per non far altre ricerche, la iscrizione che sovrasta all’interno, la porta d’ingresso alla chiesina di Baldasseria ( rif. 150 anni senza tramonto di Don Aldo Moretti).In data 1831 vi si afferma che quella chiesina è la ricostruzione in forma più ampia di un sacello “haud procul eversum” (cioè: abbattuto non lungi da qui), alludendo all’ancona “della madonetta” che diede il nome alla strada della Madonetta. Poiché l’erigenda strada per Palma passava proprio per il luogo occupato da quel sacello, esso dovette venir abbattuto. Così prima del 1831… Ma, almeno la tradizione, dà questo Viale per “napoleonico”: del 1810. Può ben darsi che a tale data risalga la prima progettazione, se è vero che fra il dire e il fare ci passa del tempo. C’è in proposito un singolare accostamento. Dopo che alla ferrovia per Trieste si aggiunge nel 1879, quella per Pontebba, le sbarre del passaggio a livello che separava la Porta Aquileia dal Viale Palmanova restano abbassate oltre 20 volte al giorno, (rif. cent’anni fa: la ferrovia pontebbana e Cavalcavia di Porta Aquileia di Arduino Cremonesi) e per quel grave inconveniente la progettazione del Cavalcavia si iniziò nel 1896, ma attuazione è di 30 anni dopo e il Cavalcavia, che rese libero l’accesso a un traffico fino allora strozzato, avvenne nel 1926.
Siamo dunque intorno al 1840, quando questa Regia Strada Postale fu aperta. A dare il nome onorifico di Regia era allora Ferdinando d’Asburgo-Lorena Imperatore d’Austria dal 1935 e Re del Lombardo-Veneto dal 1938. Il consiglio della città di Udine – anch’essa Regia Città – deve decidere se affrontare o meno la spesa di lire 798,30 per la “impiantaggione” richiesta dalla Delegazione  - noi diremmo – Amministrazione della Provincia.
Nella mappa del catasto del 1844, che ho potuto consultare, sono segnate anche le piante di cui qui si parla: per il tratto dall’inizio del viale fino alla strada che immette a Cussignacco vi sono – uno più uno meno – 190 puntini. Non si può dire che contassero molto allora altrettanti platani, sia pure di pochi anni, da mettere a dimora per lire 798,30! Tuttavia se non ci fosse stato l’intervento del Consigliere Cav. Beretta – come recita il verbale – il Consiglio, con la buona ragione che Cussignacco faceva allora comune a sé si sarebbe limitato a pagare solo per il tratto iniziale fino al confine del territorio del comune di Udine, confine che per il Viale era all’incrocio con l’attuale Via Tre Galli – Via Lavariano.
Il cav. Beretta riuscì a far votare a favore del prolungamento con 29 sì e uno solo no ricordando che quella strada era frequentata dai cittadini per le loro passeggiate fino a Cussignacco e che perciò “sarebbe innoportuno” il privarli della grata ombra dei platani prima di giungere al convegno. Il quale convegno, da informazioni offertemi dal già citato studioso di storia locale dott. Renzo Moreale, sarebbe stata una rinomata “locanda” od “osteria” di Costantino Disman. Ma a rendere gradevole la passeggiata era anche il fatto che il rettifilo attraversava pacifiche e silenti campagne salvo il suburbio iniziale e i tratti – ma sempre verso l’inizio – dove si stava scavando l’argilla. Beata pace di tempi che furono.
Don Aldo Moretti, 1991