sabato 23 aprile 2022

Preso dai titini, papà si toglie la vera e la dà alla mamma. La fine del finanziere Giuseppe Covella

Mi racconta Vittorio Covella, che suo papà Giuseppe Covella, detto Pino, classe 1905 finanziere, è stato catturato dai titini e portato in un campo di concentramento jugoslavo in Croazia, nella zona tra Ogulin e Karlovac, nel 1945. “Sono entrati in casa armati, avevano la stella rossa sul berretto – ha detto Vittorio Covella – e hanno preso mio padre per portarlo via, allora lui si è tolto la vera dal dito e l’ha consegnata a mia madre, neanche sapesse la fine tragica che poteva fare”.

Giuseppe Covella, 1905-1947. Collez. fam. Covella

Poi cosa accade? “Mia mamma, con l’aiuto di una conoscente
drugariza (partigiana slava) – ha aggiunto Vittorio Covella, Zebi per gli amici – è riuscita a vederlo nel campo di concentramento titino, ma, uscito dal gulag slavo, è morto di stenti nel 1947 e ora i suoi resti riposano a Sissano, comune di Lisignano, in Istria”.

La signora che riceve l’anello nunziale è Maria Garboni (1918-2007), mamma di Vittorio e Federico. Loro, nel 1945, lasciano Fiume per rientrare a Sissano e a Pola. Il loro esodo dall’Istria risale al mese di agosto del 1946. Fanno tappa a Trieste, passando per il Centro raccolta profughi del Silos. Altri loro parenti vanno al Crp di Padriciano. Poi dal Territorio Libero di Trieste giungono a Cervignano del Friuli, in provincia di Udine, accolti nella caserma della Guardia di Finanza. Uno zio del signor Vittorio, Bruno Garboni parte per Melbourne, in Australia. Resta a Sissano, in Istria,  il suocero di Vittorio, di nome Michele Gabrović, detto Miho. Le famiglie si rifrequentano e si scrivono sin dagli anni 1949-1950, ma sulla corrispondenza che giungeva dalla Jugoslavia a Cervignano c’era la gara a “sbregar el bolo col muso de Tito”. Il signor Vittorio studia e si diploma all’Istituto Tecnico Industriale “A. Malignani” di Udine. Poi inizia a lavorare con successo in Estremo Oriente. “Sono rientrato da poco dal Congo – ha spiegato Covella – ma ho lavorato in tante parti del mondo, anche con la Danieli di Buttrio, nel settore del metalmeccanico, come in Arabia Saudita, Siria, USA, Canada, Argentina e Gibilterra. Pensi che il mio primogenito Luca è nato in Svezia e lavora in Giappone, mentre mia figlia Francesca è nata in Alabama, negli Stati Uniti”.

Siete mai ritornati in Istria? “Sì, dai parenti sin dagli anni 1949-1950, assieme a mio fratello Federico e, dagli anni 1980-1985, mia moglie Daniela Bradaschia, una furlanuta dell’ex Friuli austriaco – ha spiegato Vittorio Covella – tornava coi bambini nella casa avita a Sissano, io li raggiungevo quando ero libero dal lavoro, così lei si è appassionata all’Istria e a Fiume più di me che ci sono nato e ho vissuto là, come il mio padre, contadino di mestiere, che da ragazzo, nel 1922, si trasferì da Bari, fino quassù al Confine orientale, volendo entrare nella Guardia di Finanza a Pola, ma lo respinsero poiché ancora diciassettenne, così si mise ad aiutare nel lavoro dei campi la gente di Sissano e si innamorò di mia mamma, Maria, poi divenne finanziere con compiti di servizio da Pola a Fiume. Negli anni 1980-1990, siamo andati regolarmente a Sissano, con i miei figli. Pure loro sin da bambini piccoli, quindi, senza interruzione”.

Sissano 1939 - sposi Giuseppe Covella e Maria Garboni nella chiesa parrocchiale dei Santi Felice e Fortunato. Collez. fam. Covella

Signor Vittorio, posso chiederle come ha affrontato la morte prematura di suo padre, ufficialmente deceduto nel 1947, a causa della prigionia nel lager titino? “È evidente. Sono rimasto scioccato – ha riposto il testimone – mio padre, fortunatamente, uscì vivo dal lager titino, ma profondamente segnato nel fisico. Sarà per quel fatto che, come dice mia moglie, non riesco a star fermo in un posto, come nel lavoro che ho fatto sempre in giro per il mondo”.

Storia di una famiglia dalmato-pugliese, i Covella - Erano della Terra di Bari i Covella, secondo le ricerche di famiglia – come ha detto Vittorio, assieme alla moglie Daniela Bradaschia – ma una parte della famiglia nell’Ottocento e nei primi del Novecento viveva in Dalmazia, tra Spalato e Ragusa, avendo intrecciato diverse relazioni nella regione absburgica.

Intorno al 1920, almeno una parte del ramo dalmata si trasferisce in Puglia. Ciò accade nel contesto di quello che viene definito come primo esodo dalmata. Le condizioni socio-economiche nel periodo 1918-1921 sono molto difficili per l’intera famiglia. Pino è un adolescente, non ha buoni rapporti in famiglia. Conclude con successo le prime 4 o 5 classi elementari e si forma come tappezziere, ossia lo stramazer in Istria, Fiume e Trieste. Lavora per qualche tempo nei dintorni in questo settore, andando a bottega, oltre a continuare pure il lavoro agricolo, senza grandi successi e stabilità. All’età di 16 anni, ancora minorenne, lascia definitivamente la famiglia. Pima di compiere 17 anni, nel 1922, giunge da solo a Pola, utilizzando tutti i miseri risparmi racimolati, dove trova una nuova dimora.

Tenta ancora il mestiere di stramazer – hanno spiegato i testimoni – e ottiene qualche occasionale impiego e lavoretto, ma di lì a breve, evidentemente spinto dalla necessità, entra nella scuola della Guardia di Finanza di Pola, arruolandosi giovanissimo tra le Fiamme Gialle. Una volta entrato in servizio effettivo, resta per qualche tempo a Pola (città amata da tutta la famiglia), per poi essere trasferito al distaccamento di Medolino, poco distante da Pola, sulla punta meridionale estrema dell’Istria.

Lì svolge servizio di finanza marittima. La caserma è sul mare, con un proprio molo. Il vecchio edificio ed il pontile esistono ancora, sono tutt’oggi chiamati dai locali, pure i croati: [La] Finanza. La struttura è all’interno di un campeggio turistico. La casa ospita da molti anni un noto bar-ristorante sul mare dal nome Financa (traslitterazione croata / ciacava istriana di “Finanza”).

Maria Garboni con i figli Federico (1940) e Vittorio (1942) verso la fine degli anni ‘40. Collez. fam. Covella

Il servizio di finanziere del mio papà – ha aggiunto Covella – consiste nel pattugliare il tratto di fascia costiera tra la baia-porto di Medolino a sud e Porto Badò a nord, dove pure esiste tuttora sulla riva il vecchio edificio e molo già della Finanza italiana. È un tratto di costa affacciato al Basso Quarnero, per la maggior parte incontaminato e selvaggio. Il servizio giornaliero è svolto da una coppia di due militi, a volte tre. Il più delle volte percorrono l’intero tratto a piedi o in bicicletta, lungo i sentieri bianchi e polverosi della linea di costa, circondati da campi e dal fitto bosco del Prostimo. Una squadra parte da Badò, un’altra da Medolino, incrociandosi a metà percorso, presso Monte Madonna. A volte effettuano pure il servizio in mare, su una delle piccole imbarcazioni in dotazione dei due distaccamenti.

Durante questi anni di servizio – ha spiegato Covella – Pino conosce e apprezza la località di Sissano ed i suoi abitanti. È il paese di mia madre, posto all’interno della sua zona operativa. Mia madre Maria, classe 1918, aveva 12 anni e mezzo meno di lui ed era ancora giovane. È il parroco di Sissano a farli conoscere, tramite il padre di lei, Michele, detto Miho o Micel Strigo, qualche anno più tardi, quando mia madre ha 15 anni. Si fidanzano poco dopo. È una sorta d’unione combinata, voluta dal padre di lei e dal parroco del paese. La coppia si sposa alla fine del 1939, in occasione del trasferimento di Pino a Fiume. Nel 1940 nasce il loro primogenito Federico, per tutti semplicemente Rico, che oggi è pensionato, nonno e vive tra Miami (USA), l’Istria ed il Friuli. Nel 1942 nasco io, Vittorio, Zebi per gli amici.

Pino e Maria si sposano a Sissano nella chiesa parrocchiale dei Santi Felice e Fortunato. Per qualche settimana vivono in una stanza nella casa familiare di lei, risalente al 1895, subito fuori paese, sulla strada verso il mare. Nel dicembre 1939, per motivi di servizio di lui, si trasferiscono  in pianta stabile a Fiume.

Nona Matia Zivolich, del 1887, co i so do pici sameri (asini), sun la cal de Monte Madona, devanti casa de famea Covella Garboni a Sisan.  Si chiamava proprio così: Mattia. Non "Mattea", come taluni la chiamavano e come si trovava scritto su alcuni documenti. Forse, al momento del battesimo, i genitori (e lo stesso prete) non si preoccuparono troppo che quel nome fosse solitamente maschile. (didascalia di famiglia). Primi decenni del ‘900. Collez. fam. Covella

Bombardamenti a Fiume, 1944 - Dopo la prima residenza a Fiume, a partire da dicembre 1939, al terzo piano di un palazzo in via E. De Amicis (oggi: Dolac), in coabitazione col professor Ugo Terzoli e suo figlio, la famiglia Covella si trasferisce in un alloggio più adatto e comodo per l’aumentato numero dei componenti, visto che in quegli anni nascono i figli Rico, nel 1940, e Vittorio nel 1942, entrambi battezzati nella Cattedrale di San Vito, come raccontano i Covella. Viene quindi assegnato loro un alloggio a Cosala/Borgomarina, adiacente alla caserma della Guardia di Finanza, dove Pino prestava servizio, proprio di fronte al mare.

Col 1944 iniziano i bombardamenti aerei alleati, che bersagliano particolarmente Fiume. In effetti si ritrova in letteratura la descrizione dei bombardamenti anglo-americani, come da molte fonti orali. Col 7 gennaio 1944 (Ballarini A, Sobolevski M 2002 : 61) iniziano i ventisette bombardamenti aerei alleati su Fiume, contro la ferrovia, il porto, il silurificio ed altro. Ciò provoca vittime e danni agli impianti portuali e industriali, nonché agli edifici civili (Decleva R 2017 : 59). Erano arrivati di sorpresa quei maledetti, con gli aeroplani, anche il giorno di Pasqua del 1945, anche se c’era ben poco d’importante da demolire nella nostra povera Fiume. La contraerea taceva, eravamo inermi, dovevamo subire e basta, non suonarono nemmeno l’allarme, tanto non ce n’era bisogno, ce lo avevano dato gl’inglesi (Tardivelli B 2015 : 1). Certi testimoni menzionano le “mastodontiche bombe che i bombardieri alleati rovesciavano sulla zona industriale” (Sabucco J 1953 : 7).

Fortunatamente i rifugi antiaerei del rione erano poco distanti dall’abitazione dei Covella: devono visitarli di frequente in quei mesi, con le sirene che suonano continuamente. In occasione di uno di questi allarmi, Maria coi due figli piccoli si ripara in rifugio assieme ad una moltitudine di altri residenti della zona, specie donne, bambini ed anziani. Poco dopo li raggiunge fortunatamente pure Pino, che era appena smontato dal servizio. Al termine dei bombardamenti durante quella tremenda notte, quando possono finalmente uscire dal rifugio, li coglie una triste sorpresa: la caserma della Guardia di Finanza (GdF) e la loro abitazione adiacente sono ridotte ad un ammasso fumante di macerie.

Tutto era distrutto, tutte le loro cose perdute, ma loro erano tutti vivi, sani e salvi. Un aneddoto di quei giorni di Rico è che in un precedente bombardamento che aveva colpito poco distante, lui e Vittorio si sono protetti sotto il materasso del letto, mentre attorno cadono calcinacci e s’alza la polvere. In quei giorni di scarsissime provviste alimentari, vista l'estrema difficoltà a procurarsele, quando pure tutte le verze e le patate sono state mangiate, il piccolo Rico in un paio d’occasioni si riduce per fame a mangiare addirittura le radici delle verze e le bucce delle patate! Dopo quel tragico bombardamento, la famiglia si trasferisce quindi in un’ulteriore abitazione in periferia.

Vittorio, detto Zebi, con zio Giovanin Recia. Sissano, primi anni ‘70 sul biroc col samer, sulla strada verso il mare (didascalia di famiglia). Collez. fam. Covella

L’arresto di Pino e le ruberie dei titini - Continua così il racconto dei Covella. Dopo il bombardamento della casa a Cosala, sfollano fuori città in un’abitazione a Laurana, dove rimangono per qualche tempo. Rientrano quindi a Fiume, dove trovano un alloggio in una casa in periferia. Era una bella villa signorile a due piani, d’epoca absburgica, con una gradinata all’ingresso, orto e giardino.

È davanti questa casa che Pino viene prelevato dai militi titini il 3 Maggio 1945, lo stesso giorno in cui gli jugoslavi occupano Fiume, debellando gli ultimi presidi tedeschi. Gli jugoslavi hanno preso controllo e possesso della città già dal mattino. Dopo mezzogiorno, forse l’una, Pino è fuori casa, dedicandosi a qualche lavoro nell’orto, Maria è in cucina coi bambini e sta mettendo assieme qualcosa per pranzo.

Un gruppetto (3 o 4) di militi jugoslavi che percorre la via, si ferma davanti l’abitazione, nota Pino e dopo un brevissimo scambio verbale, entrano di forza in casa, formalmente per una “normale perlustrazione”, ma di fatto non fanno altro che derubare la famiglia dei pochi soldi contanti trovati in casa. Gli unici miseri risparmi posseduti che permettono ai Covella di sopravvivere di giorno in giorno, nonché tutta una serie di effetti personali, alcuni molto cari a Pino e Maria, lasciando tutto a soqquadro. Decidono quindi di arrestare Pino e portarlo via con sé.

Il finanziere ha solo il tempo di levarsi la fede di matrimonio, affidandola di nascosto alla moglie. Poi bacia e rassicura un po’ i due bambini di 5 e 3 anni, prima di essere sequestrato.

Maria ha raccontato che Pino mentre lavorava nell’orto indossava una vecchia camicia della GdF. Tale indumento forse ha attirato l’attenzione dei miliziani titini in transito davanti casa. La verità è molto meno accidentale. Lo conferma la testimonianza rivelata, molti anni dopo, da zio Carlo di Sissano. Carlo Garboni, classe 1927, all’inizio del 1945, pochi mesi prima della fine del conflitto, appena diciottenne, si arruola nelle formazioni partigiane titoiste in Istria, più per necessità e pressione degli stessi partigiani che per convinzione o affinità ideologica, ma era certamente intimorito dai tedeschi e voleva combattere la loro occupazione militare.

Durante quei mesi tra i partigiani, Carlo può visionare delle liste di proscrizione compilate dai locali comandi partigiani e diffuse tra i miliziani con numerosissimi nominativi di abitanti della regione da ricercare, arrestare (sequestrare) e, se necessario, liquidare, poiché considerati fascisti, collaborazionisti, criminali, nemici del popolo ed altro. Tra i molti nomi, Carlo nota subito pure quello di Giuseppe Covella. Il fatto lo colpisce e preoccupa a tal punto, che appena ha l’occasione, si reca a Fiume per informare del grave pericolo i suoi parenti Pino e Maria.

Non si sa esattamente come andarono le cose: se Pino sottovaluta e vuole ridimensionare l’avvertimento del cugino, o se c’è poco che lui possa fare, se non sperare.

Si sa che in quell’occasione risponde di aver la coscienza pulita, di non aver mai commesso alcun  crimine o sopruso, di non aver mai causato la morte di nessuno, di non aver alcun ruolo e coinvolgimento politico, pur vestendo una divisa militare italiana. È solo un umile appuntato al tempo. Al momento della morte, nel 1947, è appuntato scelto. È un pesce piccolo ed anonimo insomma, non un comandante o una personalità in vista. Dice che non sussistono davvero ragioni da parte di alcuno per arrestarlo, processarlo e condannarlo.

Questo significativo precedente però potrebbe verosimilmente rivelarci che alcune settimane più tardi, in quel 3 maggio 1945, quei partigiani che si fermano davanti casa loro, non lo fanno per caso o solo perché attirati dalla camicia da finanziere, ma proprio perché sono venuti lì a prelevarlo di proposito, evidentemente dopo essere stati informati del suo indirizzo. Al di là della vicenda personale di Pino, la testimonianza di Carlo Garboni è tutt'oggi preziosissima anche nel contesto più ampio di quella guerra e del triste dopoguerra. Innanzitutto si tratta della testimonianza diretta, non solo di un testimone contemporaneo, ma esterno, civile ed estraneo ai fatti, ma proprio di un partigiano, quindi una fonte interna. È molto significativa pure nel dibattito storiografico odierno perché ci dà conferma delle liste di proscrizione redatte dal movimento titoista già durante la guerra. Esse includevano non solo criminali di guerra (reali o presunti), comandanti ed ufficiali, personalità politiche, cariche istituzionali, convinti ed impegnati fascisti e collaborazionisti dei tedeschi/nazisti, ma pure centinaia e centinaia di comuni ed anonimi cittadini della regione.

Secondo la famiglia Covella è un fatto non da poco, se è vero che ancor oggi esistono alcune voci giustificazioniste e riduzioniste, pure in Italia, che continuano a negare l’esistenza di tali liste nere, spacciandole per pura propaganda fascista e reazionaria.

Sin dal Novecento certi studiosi hanno dimostrato l’esistenza delle liste d’arresto dei titini per effettuare la pulizia etnica contro gli italiani a Fiume. È l’OZNA, la polizia segreta di Tito ad organizzarle con l’intervento dei Comitati Popolari di Liberazione (CPL), talvolta più incarogniti degli stessi duri agenti OZNA. Sono notori il furto e la rapina di soldi e preziosi, prima dell’arresto del malcapitato destinato ad un gulag di Ogulin, o di Karlovac, nonché la devastazione della casa italiana da parte slava (Molinari F 1996 : 47-51). Si è saputo, inoltre, del campo di concentramento titino di Vršac, in Vojvodina, dove sono reclusi un centinaio di ufficiali italiani dal 1945 al 1947. È un campo di rieducazione antifascista, ma la mortalità dei reclusi è del 14 per cento (Varutti E 2022 : 1).

Vittorio Covella, Zebi, nato a Fiume nel 1942, testimone della vicenda. Fotografia del 12 febbraio 2022 in occasione del Giorno del Ricordo a Cervignano. Foto E. Varutti

Il gulag titino tra Ogulin e Karlovac - In seguito all’arresto Pino è incarcerato a Fiume. Dopo, per qualche tempo, è a Sussak. È quindi destinato ad un campo di prigionia-concentramento in Croazia, nella regione tra Ogulin e Karlovac. Nelle memorie familiari si è perso il nome e la precisa localizzazione di tale campo. A questo punto si svolge un’altra vicenda alquanto sorprendente della storia familiare.

Maria non ottiene alcuna risposta dalle autorità jugoslave in città. Non rassegnandosi all’arresto-sequestro del marito e padre dei suoi piccoli figli, di cui non riusciva ad avere più alcuna notizia, decide di portare i bambini al sicuro in Istria a casa dei nonni e quindi di ripartire subito alla volta di Fiume alla ricerca del marito. In questa coraggiosa ricerca si unisce ad un piccolo gruppo di altre donne fiumane ed istriane, tutte alla disperata ricerca di mariti e figli. In particolare è con lei una sua amica pure in cerca del marito prelevato dagli jugoslavi.

Grazie alle informazioni passate loro da una conoscente drugarica (una partigiana), si avviano all’interno della Croazia, tra mille impedimenti, disagi, fatiche e pericoli, specie in quei giorni per un piccolo gruppo di donne sole, disarmate, e considerate straniere.

Di quei giorni Maria ricorda il lungo tragitto a piedi in un territorio sconosciuto, l’estrema difficoltà a reperire informazioni, indicazioni ed un po’ di cibo dai contadini del luogo. Ci sono i rischi, il timore, la diffidenza ed il sospetto che circola tra tutti, sia tra loro donne che tra i civili del luogo. Soprattutto c’è il problema di scansare coloro che vogliono approfittarsi di loro. Una donna del gruppo, in cerca di cibo e informazioni, viene minacciata, ricattata e stuprata. Pure Maria rischia da vicino una tragedia simile. La salva la prontezza. Un uomo cui lei aveva chiesto informazioni e del cibo le dice che può aiutarla, che conosce il luogo in cui si trova il marito e che le avrebbe fornito del cibo, incitandola a seguirlo verso dei casolari isolati poco più avanti. Maria si tiene a debita distanza dall’uomo, capisce subito che c’è qualcosa di sospetto e che in quei casolari non avrebbe trovato ciò che le era stato promesso e con una scusa si allontana nella direzione opposta.

Le aiuta invece il fatto che sia Maria, sia ancor più la sua amica, parlano discretamente pure il croato, o meglio: il ciacavo istriano. Ciò permette loro di comunicare sufficientemente con le autorità e gli abitanti croati, una volta uscite da Fiume. Questo coraggioso peregrinare dura alcune settimane, ma infine Maria è capace di trovare il campo in cui era detenuto Pino. Si separa quindi dalla sua amica, che prosegue in cerca del proprio marito.


Sissano, anni '40. Immagine Archivio Arena di Pola

Maria vede Pino nel gulag titino - Una larga parte dei prigionieri del campo sono o paiono italiani – ha continuato la famiglia Covella.  Quasi tutti sono ridotti in pessime condizioni, ombre degli uomini che erano stati fino ad alcune settimane o mesi prima. Per rancio mangiano una brodaglia e le condizioni igienico-sanitarie del campo sono miserevoli.

Il complesso è circondato da una recinzione che almeno da un lato è circondata da un fossato d’acqua torbida e maleodorante, dove venivano scaricati a cielo aperto le latrine e tutti i rifiuti e scarti del campo. Attraverso la rete di recinzione, diversi prigionieri supplicano Maria, chiedendo in italiano: “Prego, un poco di pane”. La testimonianza è analoga alla tragica prigionia del tenente Raffaele Covatta, scampato al gulag jugoslavo di Vršac (Varutti E 2022).

Giusto il giorno prima dell’arrivo di Maria, Pino, ormai esasperato e stremato, decide di lasciarsi morire, ponendo fine a tale pena. Ha quindi smesso di bere l’acqua e di mangiare. Maria lo avvista attraverso la rete, riconoscendolo appena. È riverso a terra e di aspetto scheletrico. La vista di Maria naturalmente lo rinfranca molto. Lei prova a rifocillarlo come può attraverso la rete, con quel poco che ha nel suo sacco.

Deve stare attenta a cosa dargli, i prigionieri in quelle condizioni sono infatti molto deboli e debilitati, con gli stomachi chiusi e non possono mangiare immediatamente cibi solidi e troppo sostanziosi. Alcuni infatti erano morti per essersi rifocillati senza fare attenzione, mossi dalla fame estrema. Quel giorno gli dà solo un uovo da bere. E in seguito un frutto tenero colto dagli alberi incontrati lungo il tragitto. Maria poi tenta d’intercedere con alcune guardie per far liberare il marito, ma senza successo.

Le informazioni che ha la famiglia di questi frangenti sono abbastanza approssimative, ma fortuna vuole che in quegli stessi giorni c’è un intervento della Croce Rossa, che evidentemente aveva individuato e monitorava pure questo campo. Un certo numero di prigionieri, tra cui Pino, vengono quindi liberati. È il principio di agosto del 1945. Non essendo in grado di camminare speditamente e per lunghi tratti, la coppia rientra lentamente a Fiume con mezzi di fortuna. Dal momento dell’arresto-sequestro a Fiume il 3 maggio, Pino trascorre in prigionia 3 mesi circa. Esce dal campo pesando solo 37-38 kg, col fisico e la salute estremamente provati.

Silva Vellenich, Canal di Leme, acrilico su carta, cm 56x76, 2022, courtesy dell’artista.

Il ritorno a Fiume, in Istria e il trasferimento in Friuli - A Fiume restano poco, giusto il tempo che Pino si rimetta in sesto. Rientrano quindi in Istria, ricongiungendosi con i due figli a casa dei nonni a Sissano. Qui Maria ed i suoi genitori si prendono cura di Pino come meglio possono: lui sembra molto malato. Per rimettersi gradualmente, mangia solo frutta tenera, in particolare fichi e susini maturi e beve latte e uova fresche crude, alimenti che non mancano nella fattoria della famiglia.

Dopo poco tempo, temendo di incorrere nuovamente nelle maglie dell’apparato politico-militare jugoslavo che ormai controlla il territorio, decide di trasferirsi nell’enclave di Pola, a pochi chilometri da Sissano. Pola è posta, allora, sotto occupazione inglese nella Zona A dell’amministrazione militare Alleata della Venezia Giulia: giugno 1945 - settembre 1947. Lì può stare più al sicuro da eventuali azioni dei titoisti.

Va a Pola da solo. Moglie e figli restano invece nella casa dei nonni a Sissano, andando ogni tanto a visitarlo in città, in particolare con la nonna, che quasi ogni mattina di buonora, trasporta e vende a Pola il latte fresco di mungitura e qualche altro prodotto, con un carretto a due ruote (biroc’, in sissanese) trainato da un asino (samero, in sissanese).

Da Pola Pino prende di nuovo contatto con le autorità italiane ed il comando regionale della GdF. Gli viene offerta la possibilità di essere reintegrato in servizio, esodando dall’Istria verso una nuova destinazione italiana. Dopo un primo tempo, raggiunge Trieste via traghetto e viene quindi assegnato al distaccamento della GdF di Cervignano del Friuli (UD).

I suoi superiori del Comando GdF gli avevano offerto la possibilità di scegliere tra più stazioni, tutte dislocate nel Nordest. È Pino a scegliere proprio Cervignano, poiché è il luogo più vicino all’Istria, posto lungo la ferrovia e la strada che conducono direttamente a Trieste e da lì a Pola. A quel tempo possiede ancora un piccolo porto fluviale con tradizionali collegamenti verso le località costiere giuliane. Evidentemente in quei giorni è ancora vivo il proposito o la speranza di rientrare presto in Istria in pianta stabile.

Tanto più che Pino aveva già molti anni prima confidato alla moglie che il suo desiderio era di congedarsi un giorno dalla GdF e dedicarsi completamente al suo mestiere di tappezziere (stramazer) a Pola o nella stessa Sissano, avvalendosi dell’aiuto di Maria come sarta. Contava di farlo già al termine della guerra, se non fossero intervenuti la prigionia, gli stravolgimenti politici e nazionali e l’esodo.

Ricevute notizie della sistemazione di Pino, nell’estate del 1946, verso tardo agosto, anche Maria, Rico e Vittorio prendono la strada dell’esodo. Lasciano Sissano con pochissime cose al seguito. S’incamminano a piedi e da soli verso Trieste. È un tragitto lungo e faticoso sia per i bambini piccoli che per la madre e certamente non privo di rischi e pericoli. Ma fortunatamente non s’imbattono in alcun particolare imprevisto o pericolo. Da Trieste raggiungono quindi Cervignano col treno. La parentesi friulana di Pino dura però solo poco più di un anno. L’uomo non si era mai completamente rimesso dopo la prigionia, ma si era ammalato. Maria in quei giorni lo ricorda sempre stanco e piuttosto debole. Torna a casa ogni giorno con le camicie madide di sudore, cosa che non gli capitava prima della prigionia.

Una mattina di novembre del 1947, mentre svolge il suo usuale servizio in bicicletta assieme ad un collega, è verosimilmente colto da un infarto mentre percorrono una strada di campagna subito fuori dal paese. Cade nel fosso di lato la strada, morendo sul colpo. Ha appena compiuto 42 anni. È allora sepolto nel cimitero di Cervignano. In seguito, negli anni ‘90, dopo la disgregazione della Jugoslavia, è stato traslato nella tomba di famiglia del cimitero di Sissano, dove riposa tutt’oggi a fianco della sua Maria, mancata alla fine del 2007.

A Cervignano, dal 1946 la famiglia ha trovato un primo alloggio presso una casa contadina ai margini sud del paese. Vi vive pure una famiglia contadina originaria del luogo di solida fede comunista, alcuni dei cui membri avevano partecipato alla guerra partigiana. Verso la fine della guerra c’è stato anche un caduto: un partigiano fucilato dai tedeschi in ritirata sulla strada, proprio davanti la loro abitazione. Sul luogo vi è oggi un cippo in memoria del fatto di sangue.

In quei primi anni dopo il loro arrivo come profughi e dopo la morte di Pino, uno di questi nuovi vicini di casa in più occasioni, forse scherzando con umore nero e forse in preda all’alcol, indicando un grosso albero del cortile, ripeteva a Vittorio e Rico, in friulano: “Lo vedete quell’albero? Lì ho trovato il ramo giusto dove impiccheremo vostra madre esule”.

La qual cosa fa scoppiare in lacrime il piccolo Vittorio, già traumatizzato dalla recente morte del padre e dallo stravolgimento della loro vita causato dall’esodo. A parte questo episodio e qualche altra battuta di natura politico-ideologica, Maria e i due bambini hanno sempre serbato belle memorie di quella famiglia contadina, che ricordano in fondo come generosi, accoglienti e ben disposti. C’era un aiuto reciproco, pur nella generale miseria del primo dopoguerra. Non hanno contrastato, ma anzi forse pure contributo a favorire il non semplice inserimento della famiglia esule nel nuovo ambiente sociale. Hanno così mantenuto sempre buoni rapporti con loro anche dopo essersi trasferiti da quell’abitazione, diversi anni più tardi.

La Cala vicino a casa dei Covella, a Sissano, in Istria. Foto del 2022. Collez. fam. Covella

L’eccidio di Sissano, 1945 - La famiglia Covella intende menzionare un episodio macabro dell’immediato dopoguerra accaduto presso Sissano, non distante dalla casa di famiglia, di cui poco o nulla di sa e che viene tutt'oggi citato da pochissime fonti.

Nel maggio del 1945 la guerra in Europa era appena finita. Proprio in quel periodo, fine maggio-giugno 1945, Maria affida i due figli ai genitori per tornare a Fiume e continuare la ricerca del marito. I partigiani titini, ovvero l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, ormai dilaga in tutta l’Istria e prende il controllo dell’intero territorio con poche eccezioni. Trieste, Muggia, Pola, sono occupate dagli Alleati a partire dalla metà di giugno 1945. In Istria si è nel pieno della caccia all’uomo, delle purghe, dei regolamenti dei conti.

Tra le altre azioni, le milizie titoiste operanti nell’Agro Polese, sezione più meridionale della penisola istriana, sono così riuscite a rastrellare e catturare in quelle settimane diverse decine di italiani e filo-italiani che pare avessero costituito l’ultima resistenza/opposizione armata alla conquista jugoslava, o avessero collaborato e sostenuto la stessa. Sono stati poi indicati generalmente come fascisti, o della Milizia di difesa territoriale (MDT o Landschutz-Miliz, come la definivano i tedeschi). Diversi di questi prigionieri tra giugno e luglio sono trasportati a Sissano e rinchiusi temporaneamente, sotto stretta sorveglianza, in un’abitazione del paese appartenente a collaboratori/simpatizzanti degli jugoslavi.

Un giorno, ben legati ed incolonnati, sotto scorta armata, sono condotti verso il mare, lungo la strada di campagna che passa proprio davanti alle case della famiglia Covella. Attraversando campi ed il bosco costiero, la strada conduce in Cala, una baietta della costa sissanese ed al resto della costa.

I prigionieri sono una ventina, o trentina di uomini, per lo più giovani, alcuni pare abbiano solo 17-18 anni, quindi minorenni. Giunti sul fondo della Cala – hanno aggiunto i Covella – in un luogo denominato dai sissanesi La Tesa (dove la stradina che costeggia la Cala, attraversa la vallicola che scende dal bosco con un’ampia curva e presenta quindi un rato, una salita di alcuni metri, per poi proseguire nel bosco), i prigionieri vengono legati in gruppi agli alberi circostanti. Viene posizionato tra loro dell’esplosivo: dinamite o simile. Dalla casa dei nonni, non più di 2 km a monte, si ode chiaramente il frastuono dell’esplosione, grossomodo un’ora dopo aver visto transitare la colonna di prigionieri davanti casa.

Stando alle poche testimonianze, nessuno del paese ha il coraggio e la voglia quel giorno di scendere in Cala a vedere cos’era successo. Uno dei primissimi a farlo, se non  proprio il primo, grazie pure alla maggiore vicinanza al luogo della sua abitazione, è nonno Miho (Micel), il mattino del giorno successivo. Non porta con sé naturalmente i due nipotini, Rico e Vittorio. Quanto vede presso la Tesa, in fondo alla Cala, è impressionante e perturbante. Quel tratto di boschetto mediterraneo è stato completamente sventrato dall’esplosione. C’è nell’aria un cattivo odore, misto a bruciato. Sopra la risacca delle onde, si sente solo il rumore, lo stridio, degli animali predatori. I gabbiani e altri uccelli, ratti ed altro si contendono i sanguinolenti brandelli umani sparsi tutto attorno: sul suolo, sui sassi, o penzolanti dai rami degli alberi. È tutto ciò che resta di quegli uomini. Nonno Miho per diverso tempo non vuole raccontare nulla a nessuno di quanto aveva visto.

Lo dice a suo figlio minore Bruno (allora diciottenne), un paio di settimane più tardi, quando questo rientrò a casa, dopo una permanenza forzata tra i partigiani. Bruno, molti anni dopo, ci ha raccontato questi dettagli, hanno concluso i Covella. Di questa vicenda la ricerca storiografica non se ne è ancora occupata dettagliatamente. Le uniche fonti sono le poche testimonianze del paese, dei pochi non riluttanti a parlarne e con qualche cognizione sull’accaduto. Tanti dettagli ancora non si conoscono, o sono vaghi e dubbi. Non si conoscono i nomi delle vittime. Né quelli esatti degli esecutori. Pare solo che tra quelle vittime non vi fossero sissanesi. Provenivano da altri paesi dell’Istria.

Cartolina di Fiume, primi del '900. Foto diffusa da Alessandro Filippo de Lisi in Facebook

Da un rapporto del 30 dicembre 1946 del Central Intelligence Group (CIG) degli USA, de-secretato nel 1999, inizia ad operare, con istruttori sovietici, la missione “Juris”, diretta emanazione dell’OZNA, il servizio segreto jugoslavo. “The aim of the ‘Juris’ Group is to terrorize the population in Zone ‘A’ with a view to organizing a future terrorist policy in areas which are predominantly Italian” (Lo scopo dei Gruppi Juris è di terrorizzare la popolazione nella Zona A [della Linea Morgan, compresa tra Plezzo, Comeno, Sesana, Trieste e l’exclave di Pola, NdR] al fine di organizzare una futura politica terroristica nelle aree a predominanza italiana).

Fonti orali e digitali – Per la sua intensa storia familiare Vittorio Covella, con la collaborazione del fratello Federico e della moglie Daniela Bradaschia, si è avvalso delle informazioni raccolte da sua madre Maria Garboni (1918-2007) e da altri membri della famiglia, come Bruno e Carlo, entrambi classe 1927. Poi c’erano lo zio Micel, Miho, del 1919, le zie Fume (1918), Maria (1921) e zia Lina (1928), prima che scomparissero tutti. Ecco le persone intervistate da Elio Varutti.

– Vittorio Covella, detto Zebi, Fiume 1942, int. a Cervignano del Friuli (UD) del 12 febbraio 2022. – Federico Covella, detto Rico, classe 1940 (figlio primogenito di Maria e Giuseppe, fratello maggiore di Vittorio), residente tra Sissano, Miami - Florida (USA) e Cervignano del Friuli, notizie raccolte dai familiari con email del 15-22 aprile 2022. – Daniela Bradaschia, Cervignano del Friuli 1954, int. a Cervignano del 12 febbraio 2022 e email del 18 febbraio 2022 con altri familiari.

Cenni bibliografici e del web

- Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) / Zrtve talijanske nacionalnosti u rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, 2002.

Central Intelligence Group  (CIG) degli USA, Intelligence report, 30 dicembre 1946, dda reg. 77/1763, dal web.

- Rodolfo Decleva, Piccola storia di Fiume 1847 – 1947, II edizione, Sussisa di Sori (GE), impaginato da ilpigiamadelgatto, 2017.

- Fulvio Molinari, Istria contesa. La guerra, le foibe, l’esodo, Milano, Mursia, 1996.

- Janni Sabucco, …si chiamava Fiume, Perugia, «Quaderni di Centro Italia», s.d. [1953].

- Bruno Tardivelli, La Pasqua di 70 anni fa, testo in Word, 2015, pp. 2. Collez. privata.

- Elio Varutti, Arrigo Di Giorgio, morto a Fiume nel 1944 sotto le bombe USA, on line dal 13 ottobre 2016 su   eliovarutti.blogspot.com

- Elio Varutti, Tenente Raffaele Covatta nel gulag titino di Vršac, in Vojvodina, 1945-'47. La lista dei reclusi, on line dal 12 aprile 2022 su  evarutti.wixsite.com

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Note – Interviste a cura di Elio Varutti, docente di Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata all’Università della Terza Età (UTE) di Udine. Ricerche e Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Vittorio Covella, Daniela Bradaschia e professor Enrico Modotti. Grazie all’artista Silva Vellenich, di Pola, esule in Friuli. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private delle famiglie Covella e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/


mercoledì 6 aprile 2022

Chiasalp di Moimacco. Una ricerca di toponomastica friulana

Il toponimo di Chiasalp, in Comune di Moimacco (UD) è formato da Chiasa e da alp. Si può dire che Chiasa è una forma friulana del tipo comune diffuso in Italia (Caselle, Casette) derivante da Casa. In Friuli c’è, ad esempio, Chiasottis in Comune di Mortegliano. Federico Vicario cita un “Pyeri di Chyasottis” annotato nel Registro della Confraternita dei Pellicciai di Udine (Vicario F 2010 : 507).

Chiasa è un etimo trasparente dal latino Casa. In friulano è: cjase. Nel contesto del Comune di Moimacco sta ad indicare un insieme di dimore al di fuori del centro abitato. La villa rustica romana era costruita in aperta campagna, con adeguati spazi per gli addetti all’agricoltura. La domus era abitazione di un ricco patrizio dell’antica società romana, mentre le classi povere (i plebei) risiedevano in edifici chiamati insulae. Col termine Alp-e si intende la parte più grande dell’altura di un paese, o di un agglomerato edilizio (Cinausero Hofer B, Dentesano E 2011). In effetti i “Casali Chiasalp” sono citati nella tavola IGM di Cividale del Friuli, Comune di Moimacco, come ha riportato Ermanno Dentesano nel 2005. La zona è pianeggiante, con un’altitudine che varia dai m. 118 di Moimacco ai 125 di Bottenicco e ai m. 119 di Chiasalp. Ecco che con -alp deve intendersi in questo frangente un casolare invece di un rilievo, pur mite, del terreno.

A Moimacco la Villa dei Conti De Puppi è in una cartolina del 1931.

È noto che Moimacco sia un toponimo prediale formato da un patronimico latino e dal tipico suffisso aggettivale celtico in –acco (in antico: –accus) invece della forma latina Mommejanus, col suffisso in –ano, o –anus, alla latina. Mommejus, oppure Mummius sarebbe il nome dell’antico proprietario del podere, passato poi a designare, nella sua forma di aggettivo, il paese intero (Visintini M 1980 : 12). Si sa pure che la pronuncia più antica di Moimacco era: Momiaco. Secondo Cornelio Cesare Desinan la dizione primigenia è mutata per una “metatesi”, o rovesciamento fonemico (Desinan CC 2005 : 132).

La citazione più antica di Moimacco rilevabile nei documenti medievali risale al XII secolo, come ha notato Pio Paschini. Con una bolla del 24 novembre 1192 papa Celestino III conferma i diritti e i possedimenti capitolari della Collegiata di Cividale; fra le varie chiese ad essa sottoposte c’è proprio quella di Moimacco (Gaberchek C 1980 : 77). Il toponimo Moymas è menzionato pure negli anni successivi.

Le scoperte del 1821 di Michele della Torre

È del 1821 la scoperta di ampie vestigia romane a Chiasalp. Michele della Torre, a poca distanza di una grande villa a Moimacco di tipo urbano-rustico affiorata dopo uno scavo di decine di giorni, trova un secondo gruppo di costruzioni di epoca romana. Precisamente tra Togliano e Moimacco, nel n. di mappa 1.553 presso i campi dei conti de Puppi, detti “Chiasalp”, egli rileva due edifici separati dal torrente Rucco. Rimane il disegno di quegli scavi archeologici conservato presso il Museo Archeologico di Cividale del Friuli (Libro III, Tavola XIV, come annota Maria Visintini, pag. 29). I due antichi edifici paiono suddivisi in vari vani. C’è persino un’area con trenta sarcofagi accostati a coppie. Nello scavo furono trovati frammenti di mosaici, di urne fittili, un frammento di macinino in pietra, un’insegna militare di legione e ferro grossi ad uso di carro (Visintini M : 30).

I frammenti musivi fanno supporre l’esistenza di una villa signorile, mentre gli altri reperti inducono a pensare a dimore di lavoranti e a locali di servizio. Potrebbero essere l’una ipotesi e l’altra vissute in tempi diversi. C’è persino un locale absidato a forma di exedra, sorta forse in una seconda fase della villa, dopo la metà del III secolo e il V secolo d.C., come emerso in certe ville di Ostia; detta ipotesi è formulata dalla Visintini. Altri rinvenimenti fanno avvalorare la tesi che si tratti di una villa romana. Si è notato un settore riscaldato a suspensurae, analogo al tepidarium dello stabilimento termale pubblico di Forum Iulii, nome romano di fondazione di Cividale del Friuli. Si sono trovate varie monete e ciò porta a dire che fu abitata dal I secolo a.C. fino al IV secolo d.C. La villa, a nord-ovest di Cividale, fu in un secondo tempo destinata a sepolcreto. Fin qui la Visentini (p. 30).

Una interpretazione assai suggestiva è proposta dallo stesso scopritore del sito archeologico: Michele della Torre. Gli edifici di epoca romana di Chiasalp, a suo dire, potrebbero essere niente meno che un tempio di Nettuno. “Egli giunse a questa identificazione – ha scritto la Visintini – seguendo il parallelo topografico Roma-Cividale, in base al quale l’acqua Vergine di Roma, che scorre presso il Quirinale e sbocca a Campo Marzio, corrisponderebbe al Torrente Rucco, che scorre ai piedi dei colli a nord-ovest di Cividale. Poiché presso l’acqua Vergine sorgeva il Tempi di Nettuno, anche a Cividale si sarebbe ripetuta la stessa topografia” (Visintini M : 31-32).

Chiasalp romana. Tavola dalle ricerche archeologiche di Michele della Torre, vicino al torrente Rucco. Museo Archeologico di Cividale del Friuli, Libro III, Tavola XIV, riprodotta nel saggio di Maria Visintini.

Per avvalorare la sua teoria Michele della Torre, friulano illustre, sostiene che “le trenta sepolture a cassa, ritrovate in un’ala del grade cortile del fabbricato proverebbero l’esistenza del supposto tempio di Nettuno poiché …per istituto di luoghi sacri alle Deità tenevansi vicini i loro defunti, così è per il Direttore argomento di asserire con maggior fiducia, che ivi possa essere stato il Tempio di Nettuno” (Idem).

Sempre ai tempi del Regno Lombardo Veneto, sotto il dominio austriaco, c’è una notizia del 1831 riguardo ai beni e proprietà da vendersi nelle Provincie Venete, tratta dal Foglio d’Annunzj della Gazzetta privilegiata di Milano. Il giornale milanese comunica la messa in vendita del borgo Chiasalp con la seguente dicitura: “Distretto di Faedis. Partita di Chiasalp di 7 case, 72 pezzi di terra di pertiche 739, con 124 annualità perpetue della cassa di ammortizzazione” (pag. 1.302).

Riguardo al suffisso –alp, –alpis, si aggiunga che Giovanni Frau attesta in Svizzera, nel Vorarlberg, in luoghi di primitive regioni celtiche, dal 1368 un alpis de Madrixio. La seconda parola è riconducibile alla base latina mater, unita al suffisso –is(i)us, ma è la prima che ci interessa (Frau G 2010 : 279).

C’è un’ultima considerazione da proporre come ipotesi di ricerca su Chiasalp. Sarà solo un’assonanza, ma –alp si avvicina alla parola friulana Aip, Laip, Agplus e Alpis. Come si vede nel vocabolario “Nuovo Pirona”, aip, con le citate varianti, sta ad indicare un trogolo (parola non a caso di origine longobarda), ovvero una vasca di abbeveraggio animale. Il tutto ci porta al corso d’acqua (torrente Rucco) e al Tempio di Nettuno, dio delle acque appunto, adombrato da Michele della Torre, ma non si vuol correre troppo con la fantasia.

Nome strano e tante riflessioni

Qui di seguito c’è il gradito contributo di Barbara Cinausero Hofer e Ermanno Dentesano sul tema.

“Chiasalp è un nome alquanto strano, che si presta a molte riflessioni, senza con ciò escludere che la soluzione possa essere delle più banali, nascosta dietro un angolo. Ovviamente si tratta di un nome composto, come scritto poco sopra, la cui prima parte è trasparente e probabilmente di origine moderna, che non si esita a collocare nella prima metà del secondo millennio, se non ancor più tarda.

Il problema è quell’alp che compone la seconda parte sembra avere proprio l’origine citata. La questione pone però qualche dubbio perché in tal caso dovrebbe trattarsi di un toponimo originatosi in epoche veramente molto antiche. La base ha infatti sì prodotto molti toponimi, anche in tempi a noi più vicini, ma quasi sempre con riferimenti a luoghi pascolivi di alta quota. A ciò si aggiunga che la diffusione di tale base pare essere avvenuta da est con propagazione verso ovest, sfiorando dapprima a nord delle Alpi, per poi valicarle e diffondersi a sud. In tale movimento avrebbe aggirato l’area più orientale delle Alpi, lasciando scoperto il settore delle Giulie (Rousset PL 1991: 185). La spiegazione si attaglierebbe quindi bene a Stavoli Posalalp di Ovaro, per esempio.

A ciò si aggiunga una ulteriore difficoltà, legata a una base simile e parimenti antica, che però ha valore idronimico (Beretta C 2003: 26, 37) e a tale proposito ci sovviene un Rio Costalp di Zuglio.

Anche in assenza di difficoltà del tipo appena indicato, è sempre preferibile avanzare ipotesi di basi più recenti, ma in questo caso non è semplice.

Potremmo in effetti pensare a un latino albus ‘bianco’, ma con una forte limitazione: se si tratta di un aggettivo legato alla prima parte, che è femminile, dovrebbe essere alba che in forme più recenti e in alcune aree sarebbe diventata albe. Poiché la vocale “a” non cade mai nel passaggio al friulano, è impossibile che alba sia diventato alb con successivo assordamento della consonante finale (>alp). Non resterebbe allora che pensare a un maschile o neutro album, come aggettivo retto da un appellativo, poi caduto. L’aggettivo si sarebbe così sostantivato e sarebbe stato poi assunto come specificativo con l’introduzione del nuovo appellativo Cjase.

A questo punto bisogna dire che tale processo, benché possibile, è piuttosto arduo da sostenere. Un’ultima possibilità, anch’essa piuttosto labile, è che la consonante finale del termine alp sia di restituzione, come è successo con i termini lacum>lâc>lât, stomachum>stomi(t), ma anche con toponimi come Carpacco/Cjarpât, Casiacco/Cjasiât e qualche altro. In questo caso la difficoltà sta nel fatto che mentre le consonanti di restituzione di questi nomi sono tutte precedute da una vocale, nel caso di alp essa sarebbe preceduta da “l”, che però è liquida e sostanzialmente semivocale. Ciò renderebbe possibile la realizzazione, ma è chiaro che il processo formativo sarebbe complesso”.

Con queste righe di riflessione, composte da Barbara Cinausero Hofer e Ermanno Dentesano, si conclude, per il momento la ricerca presente. Pare interessante accennare, infine, al fatto che da qualche decennio il borgo Chiasalp è un accogliente agriturismo, gestito dalla famiglia Nicolini  Giorgio, i cui avi, come la famiglia Pontoni Giorgio, sono impegnati in attività agricole dalla fine dell’Ottocento.

L'agriturismo Chiasalp, da una fotografia del 2013 dal sito web aziendale.

Bibliografia

- Barbara Cinausero Hofer, Ermanno Dentesano, Dizionario toponomastico. Etimologia, corografia, citazioni storiche, bibliografia dei nomi di luogo del Friuli e della provincia di Trieste, con la collaborazione di Enos Costantini e Maurizio Puntin [S.l., a cura dell’A.], Palmanova (UD), Officine Grafiche Visentin, 2011.

- Michele della Torre, Prospetto storico, V, cap. XLI, pp. 120-121, Archivio Museo Archeologico di Cividale del Friuli (UD).

- M. della Torre, Libro III, Tavola XIV, Archivio Museo Archeologico di Cividale del Friuli (UD).

- Ermanno Dentesano, Raccolta dei toponimi del Friuli riportati sulle tavolette IGM 1/25.000, la bassa, Associazione per lo studio della friulanità del Latisanese e del Portogruarese, Latisana (UD), S. Michele al Tagliamento (VE), 2005.

- Cornelio Cesare Desinan, “Atôr atôr di Cividât”, in Cividât, a cura di Enos Costantini, Claudio Mattaloni, Mauro Pascolini, Societât Filologjiche Furlane, 76n Congres, 26 setembar dal 1999.

- Foglio d’Annunzj della Gazzetta privilegiata di Milano, vol. II, 23 novembre 1831.

- Giovanni Frau, “Rivisitazioni toponomastiche”, in: Il mestri dai nons: saggi di toponomastica in onore di Cornelio Cesare Desinan, a cura di Franco Finco e Federico Vicario, Udine, Società Filologica Friulana, 2010, pp. 275-281.

- Carlo Gaberschek, “Dal Medio Evo ai giorni nostri”, in: Carlo Gaberscek, Maria Visintini, Moimacco: storia e ambiente [S.l. : s.n.], Udine, Arti grafiche friulane, 1980, pp. 75-170.

- Pio Paschini, Storia del Friuli, vol. I, Udine, Libreria editrice “Aquileia”,1953.

- Giulio Andrea Pirona, Ercole Carletti, Giovanni Battista Corgnali, Il nuovo Pirona: vocabolario friulano (1.a edizione: 1932), Udine, Società filologica friulana, II ediz. II ristampa, 2011.

- Federico Vicario, “In lu lù chu si clama. Presenze toponomastiche nelle carte friulane antiche”, in: Il mestri dai nons: saggi di toponomastica in onore di Cornelio Cesare Desinan, a cura di Franco Finco e Federico Vicario, op. cit., pp. 503-517.

- Maria Visintini, “Un angolo di Friuli romano riscoperto nei manoscritti di Michele Della Torre”, in: Carlo Gaberscek, Maria Visintini, Moimacco: storia e ambiente, op. cit., pp. 7-72.

Una cartolina di Cividale del Friuli, viaggiata nel 1954. Collez. privata.

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Note – Progetto e attività di ricerca di: Elio Varutti, docente di Sociologia del ricordo alla Università della Terza Età (UTE) di Udine. Networking di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Barbara Cinausero Hofer, Ermanno Dentesano, che si ringraziano per il contributo scientifico portato alla fine dell’articolo. Rivolgo i miei autentici ringraziamenti al personale e alla direzione delle seguenti biblioteche per la collaborazione riservata: Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine e Biblioteca del Seminario arcivescovile “Mons. Pietro Bertolla”, Udine. Grazie alla dott.ssa Katia Bertoni, della Biblioteca della Società Filologica Friulana, Udine.