giovedì 29 dicembre 2016

Da Besozzo giovani parrocchiani alla foiba di Basovizza

Dalla provincia di Varese, in Lombardia, hanno fatto una visita pellegrinaggio con Padre Giuseppe Andreoli il 28 dicembre 2016. 
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una cronaca della visita dei ragazzi della parrocchia di Besozzo, in provincia di Varese, al Sacrario Nazionale di Basovizza, in provincia di Trieste. Dal 1 settembre 2013 don Giuseppe Andreoli è stato nominato Vicario della Comunità Pastorale “San Nicone Besozzi”, in Besozzo (Varese).
La cronaca della visita pellegrinaggio a Basovizza contiene alcuni commenti personali di Carlo Cesare Montani – esule da Fiume – riguardo al Trattato di pace del 1947 fra Italia e le potenze alleate vincitrici nella Seconda guerra mondiale, oltre alla data del 10 febbraio, definita per legge come Giorno del Ricordo. Per pura combinazione il signor Carlo Montani si trovava con familiari ed amici al Sacrario di Basovizza ed hanno assistito e partecipato alla «commovente preghiera ed una benedizione in onore di tutti i caduti». Poi, ai piedi della stele è stato posato un piccolo albero di Natale.
Il titolo dell’articolo e il testo seguente sono stati stilati dallo stesso Autore, che ringraziamo per la diffusione e pubblicazione. (elio varutti)
Parrocchiani di Besozzo, in provincia di Varese, in pellegrinaggio al Sacrario Nazionale di Basovizza, in provincia di Trieste.

ARIA NUOVA PER IL CONFINE ORIENTALE
Illusioni labili e speranze emergenti ad un settantennio dal Diktat

Il 10 febbraio 2017 ricorrono settant’anni dalla firma del trattato di pace che sottrasse iniquamente all’Italia tutta la Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia, ed il 30 marzo si compiono 13 anni dalla promulgazione della Legge istitutiva del Ricordo (individuato proprio nel 10 febbraio di ogni anno) approvata dal Parlamento italiano con voto quasi unanime, per cancellare la vergogna di un lungo ostracismo e di un colpevole oblio, volutamente programmati dalle vecchie forze politiche in ossequio al dialogo con la Repubblica federativa jugoslava, e dopo la sua dissoluzione, a quello con le nuove realtà statuali di Slovenia e Croazia.

Sono due anniversari importanti e convergenti: da una parte, per la necessità di onorare la storia nella sua essenza manzoniana di “guerra contro il tempo” avente lo scopo di conoscere le origini per comprendere come si possa costruire un avvenire migliore; e dall’altra, per il bisogno altrettanto ineludibile di ottimizzare ed attualizzare il Ricordo, che strada facendo ha assunto il carattere sempre più palese di una mera ritualità ripetitiva.

Occorre una presa di coscienza critica e matura circa le prospettive avvenire di un popolo che, a suo tempo, fu oggetto di un vero e proprio genocidio, ben dimostrato dai 350 mila Esuli e dalle 20 mila Vittime innocenti, o meglio, colpevoli dell’imperdonabile “delitto di italianità”. Un popolo che ha dovuto confrontarsi con la legge di natura, nel senso che la prima generazione dell’Esodo è quasi scomparsa, e che quelle successive sono state pesantemente condizionate dalle dispersioni di una diaspora in parte inevitabile, ma in parte non meno consistente, pianificata da Governi di varia estrazione politica.
Cippo di Basovizza, sopra la foiba, o pozzo minerario che dir si voglia

Da questo punto di vista, il nuovo millennio coincide con una svolta storica. Da un lato, persistono le lamentazioni di quanti sono costretti a constatare la crisi in cui si dibattono le Organizzazioni e la stessa stampa giuliana e dalmata in Esilio, attribuendone la responsabilità prioritaria al disimpegno della “Casta” senza tenere conto che gli anni migliori erano stati quelli in cui il supporto finanziario delle Istituzioni era di là da venire, quasi a sottolineare la priorità del problema, non solo generazionale, della formazione etica e politica e del conseguente apporto volitivo. Da un altro lato, invece, si cominciano ad intravvedere commendevoli spunti innovativi, ad iniziativa di una base più ampia, lontana anni luce dalle illusioni - per non dire peggio - dei vecchi padroni del vapore.

Chi si fosse trovato a visitare il Sacrario Nazionale di Basovizza in un qualsiasi pomeriggio invernale come quello del 28 dicembre, avrebbe potuto aprire il cuore alla speranza nel vedere il composto pellegrinaggio giovanile della Parrocchia di Besozzo (Varese), guidata per l’occasione da Padre Giuseppe Andreoli: un nome che vale la pena di menzionare a futura memoria, se non altro per le attenzioni suscitate in una cinquantina di ragazzi, non soltanto studenti, nei confronti di una tremenda sciagura nazionale come quella dell’Esodo e delle Foibe, troppo spesso dimenticata, o nella migliore delle ipotesi, oggetto di qualche riferimento transeunte, assimilabile a quello dell’acqua sui tetti.

Le immagini di compostezza e di deferente ossequio sono visibili nelle fotografie, ma non dicono ancora tutto. Bisogna sapere, infatti, che al termine del pellegrinaggio tutti i presenti, compresi altri visitatori casuali, si sono uniti in preghiera ed hanno ricevuto la Benedizione, in un’ideale comunanza con le Vittime della grande tragedia storica dei massacri indiscriminati e delle fughe per la vita. Attenzione, rispetto e desiderio di apprendere sono stati condivisi in modo ineccepibile, che deve essere sottolineato con favore, al pari dell’accortezza con cui la regia del pellegrinaggio aveva predisposto la sosta al Sacrario.

Non si è trattato di un episodio unico, anche se di spessore molto particolare per la contestualità dell’esperienza di fede. Infatti, già nella scorsa primavera, un gruppo di analoghe dimensioni, scelto fra i migliori studenti degli Istituti superiori bresciani pervenuti alla maturità, aveva compiuto una visita analoga, con la guida della stampa locale e con un’opportuna esegesi storica, certamente competitiva con quella che, nella media, viene offerta dalle strutture scolastiche, troppo spesso carenti di specifica preparazione, tanto più che parecchi libri di testo propongono interpretazioni riduttive di Esodo e Foibe, se non anche autentici falsi storici, come quello secondo cui nel 1947 la Venezia Giulia e la Dalmazia sarebbero state “restituite” alla Jugoslavia, che invece non vi aveva potuto esercitare la propria sovranità per una ragione molto semplice: la propria inesistenza fino all’indomani della Grande Guerra.
I giovani di Besozzo davanti alla stele di Basovizza

Nell’ambito delle Organizzazioni giuliane, istriane e dalmate, qualcuno ha sollevato dubbi sulle celebrazioni avvenire del Ricordo, alla luce del disimpegno finanziario del Governo nei confronti della stampa dell’Esilio (pur appiattita su posizioni politicamente corrette), come se esistesse un rapporto sinallagmatico fra erogazioni e manifestazioni, senza il quale resterebbero soltanto l’impotenza, ed a seguire, il “de profundis”. Si tratta di un ragionamento che chiarisce al di là di ogni dubbio la logica che presiede ad una certa tipologia di Ricordo, e che sottolinea la necessità di esorcizzarla a favore di una memoria condivisa dai non addetti ai lavori, ed in primo luogo dai giovani: ciò, nel quadro di un arduo ma indilazionabile recupero dei valori “non negoziabili” di civiltà e di giustizia per cui troppi Martiri diedero la vita e che ripropongono, anche ai giorni nostri, lo stesso imperativo categorico.

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Servizio giornalistico e fotografico di Carlo Cesare Montani, ove non indicato diversamente.
Networking e premessa di Elio Varutti.
Una significativa immagine di Turismo FVG


mercoledì 21 dicembre 2016

Esodo da Pola nel 1947, dopo le botte

«La mia famiglia è venuta via da Pola il 2 o 3 marzo 1947 col piroscafo Toscana e siamo sbarcati a Venezia – ha raccontato la signora Giorgina Vatta – noi siamo riusciti a portare via anche i mobili e i bauli che sono stati in magazzino per cinque anni a Venezia».
Pola 1906, Erminia Chiudina Piaceri, al centro della foto, con altri bambini. Notare le maglie adornate dell'Arena di Pola e dell'Arco dei Sergi

Quanti eravate? «In quattro – replica la signora Vatta – mio papà Carlo Vatta, nato a Pola nel 1900 e morto ad Anzio nel 1991, mia mamma nata a Pola nel 1903 e morta a Udine nel 1964, mi e mia sorella Elda, che la sta a Roma».
Siete passati dal Campo profughi? E avete ripreso le vostre masserizie? «Per un mese siamo stati al Centro Raccolta Profughi (CRP) di Brescia – ha aggiunto la signora Vatta – e poi per due anni al CRP di Fasano del Garda, in provincia di Brescia, lì le suore ci facevano da mangiare… ah, se stava ben, poi si stava nelle case ammobiliate in affitto, andavo a scuola a Salò… i mobili? Sì, li abbiamo recuperati, ma i tappeti erano inumiditi e rovinati, mancavano certe cose e il mobilio era ammuffito, abbiamo dovuto ricomprare quasi tutto. Si sono salvati i bauli e i cassoni con un po’ di abbigliamento e le bambole, che oggi custodisco gelosamente. Mi ricordo anche una fotografia del 1906 dove mia madre, da bambina, partecipa ad uno spettacolo assieme ad altri bambini che sono vestiti con la maglietta con l’Arena di Pola, oppure con l’Arco dei Sergi».
La bambola dell'esodo istriano. Giocattolo del 1906 regalato alla bambina Erminia Chiudina Piaceri e partito da Pola col Toscana nel 1947; destinazione: Venezia.

Poi cosa è successo? «Mio papà Carlo Vatta e mia mamma Erminia Chiudina Piaceri volevano andare al CRP di Vicenza – ha risposto la testimone – per restare in Veneto, vicin de l’Istria, a Trieste non era sicuro, perché troppo vicino al confine coi sciavi, dopo, nel 1952, ci hanno assegnato la casa al Villaggio Giuliano di Udine e qui ci siamo stabiliti».
Cosa ricorda di Pola? «Me ricordo che son nata vicin della Arena – ha spiegato la signora Giorgina – in Via San Martin, vicin de la ciesa de Sant’Antonio, dopo c’è da dire che mio papà lavorava, col suo negozio di meccanico di biciclette a Pisino e ci eravamo trasferiti là, ma dopo el ribalton [ossia dopo l’8 settembre 1943] alle cinque de matina i sciavi titini i xe vignudi in cinque per ciaparlo e portarlo nelle prigioni del Castel de Montecuccoli».
Carlo Vatta (25 luglio Pola - Anzio 4 marzo 1991). Fotografia tratta da "L'Arena di Pola", 23 marzo 1991.

Ha rischiato di finire ucciso e gettato in foiba? «Sì, proprio così – ha risposto Giorgina Vatta – erano in 80 nelle carceri di Pisino e solo in quattro sono stati salvati dai tedeschi che hanno occupato l’Istria, prima i gà avertido che i bombardava, dopo i gà bombardà Pisino, gà occupà el paese e i sciavi titini scampava. Tutti gli altri civili italiani prigionieri dei titini sarà morti in foiba. Gò visto i soldati italiani abbandonare le armi e scampar mezzi vestiti da civile e mezzi da militare. Allora i miei genitori gà deciso de tornar a Pola dai parenti e semo restadi fin al 1947».
Bambole dell'esodo istriano. Questo giocattolo è di Giorgina Vatta, quando era bambina, chiuso in un baule, ha viaggiato da Pola col Toscana nel 1947 per Venezia.

A Pola cosa succedeva? C’erano violenze contro gli italiani dopo la guerra? «Sì, mio papà xe stado bastonado dai sciavi – ha detto la signora Vatta – lo spetava vicin de casa, a bosco Siana, dove gavevino la bandiera tricolor senza la stella rossa nel mezzo, così lo gà fermà e giù botte coi bastoni, lui cascando xe gà  riparado con la bicicletta e gà fatto el morto, così xe andadi via e lui xe gà salvado, anche se con un po’ de ossa rotte. Gavevimo un rifugio antiaereo vicin de casa e lì gavemo tignudo nascoso un ufficial italiano per due giorni el xe gà salvado anche lui».
Giorgina Vatta, al centro dell'immagine, tratta da "L'Arena di Pola" del 14 novembre 1992.

Qualcuno di famiglia è rimasto a Pola? «Sì, mia nonna Giorgina De Destales, sposata Vatta, resta a Pola – ha precisato la signora Vatta – in una casa con cinque camere, col fio Mario che el iera cieco, de famiglia se stava ben, me ricordo che la nona pagava el medico sciavo con un vaso de porcellana del Giappone, perché el suo primogenito, mio zio Alberto Vatta iera in marineria, navigava per l’Oriente e portava tanti regali a tutti i familiari, come i vasi de porcellana giapponesi».
Ha dei conoscenti all’estero o in giro per l’Italia? «Son vignuda via a diciassette anni – ha concluso Giorgina Vatta – ho perso le amicizie, le simpatie, le conoscenze, lori xe tutti per l’Italia, sarà anche morti… o anche negli Stati Uniti d’America e in Australia… eh! i istriani xe dappertutto».

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Fonte orale: Giorgina Vatta, Pola 1929, intervista effettuata a Udine il 21 dicembre 2016 a cura di E. Varutti.
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Le fotografie, ove non altrimenti indicato, sono della Collezione Giorgina Vatta, esule da Pola, Udine.
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Silvio Cattalini tra due esuli: a destra Giorgina Vatta, da Pola e, a sinistra Egle Tomissich, venuta via da Fiume nel 1948. Natale dell'esule a Udine 2016. Fotografia di E. Varutti.

Cenni bibliografici
Maria Zanolli, “In fuga da Tito, profughi a Brescia. Il giornalista Paolo Cittadini e il suo libro: «I miei nonni hanno vissuto nel campo profughi di via Callegari»”, «Corriere Della Sera», Cronaca di Brescia, 12 febbraio 2012.

lunedì 19 dicembre 2016

Natale dell’esule giuliano dalmata a Udine, 2016

«Pochi, ma boni». Queste parole, dell’ingegner Silvio Cattalini, presidente del Comitato Provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), riassumono bene la giornata di festa, di ricordo e di auguri natalizi del 18 dicembre 2016.
Monsignore Ottavio Belfio, accompagnato dall’Aquileiensis Chorus, diretto dal maestro Ferdinando Dogareschi

L’incontro degli esuli giuliano dalmati, trapiantati in Friuli, ha avuto inizio all’Oratorio della Purità di Udine, in Piazza Duomo, come ormai vuole la tradizione. La santa messa è stata celebrata da monsignore Ottavio Belfio, accompagnato dall’Aquileiensis Chorus, diretto dal maestro Ferdinando Dogareschi, con organo e voci. 
Al termine della cerimonia religiosa, con la bandiera dell’ANVGD sull’altare, monsignore Luciano Nobile, parroco del Duomo, ha voluto portare agi astanti il suo saluto personale e i graditi auguri di Buon Natale, come fece negli anni scorsi.
Savina Fabiani, segretaria dell'ANVGD di Udine e l'ingegnere Silvio Cattalini, presidente dello stesso sodalizio dal 1972

Poi il coro si è esibito in un mini-concerto con tre brani natalizi, uno dei quali di impronta istriana: “Siam venuti in questa casa…”. Oppure noto come: “El xe nato il venticinque”, secondo la trascrizione di V. Benussi. Il canto era noto tra le Tabacchine di Rovigno, ovvero tra le operaie della Manifattura Tabacchi istriana.
Poi la comitiva si è trasferita nel vicino ristorante Astoria Italia, per un pranzo con menu di tradizione natalizia, per «29 coperti, dato che molti dei nostri soci xe maladi – ha spiegato Cattalini».
Nello stesso Salone del Caminetto dell’Hotel Astoria Italia, poco dopo le ore 15, l’attore Giorgio Amodeo e il suo gruppo, tra i numerosi applausi dei presenti, hanno intrattenuto gli esuli giuliano dalmati con una originale recita a leggio. 
Tratto da testi di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, adattati e aggiornati da Giorgio Amodeo, il Gruppo Teatrale per il Dialetto, diretto da Gianfranco Saletta, ha presentato “La valisa de carton”. Le musiche dal vivo alla fisarmonica sono state eseguite dal maestro Carlo Moser. Gli attori sul palco, oltre a Giorgio Amodeo, erano Mariella Terragni e Riccardo Beltrame.
 Il caloroso saluto di monsignor Nobile, parroco del Duomo di Udine

La valisa de carton
La consolidata formula dello spettacolo a leggio viene riproposta ormai dal Gruppo Teatrale per il Dialetto da oltre dieci anni in tutta la regione, sempre con lusinghieri risultati. L’autore della recita ha voluto prendere in esame, nel consueto tono ironico e scherzoso, ma mai debordante, il fenomeno dell’emigrazione. 
Un tempo riguardava il nostro territorio, per il grande numero di giovani che lasciavano le proprie terre in cerca di fortuna economica. Da qualche decennio il fenomeno della migrazione è salito alla ribalta delle cronache per la necessità di dare assistenza ai migranti che raggiungono l’Europa.

Nello spettacolo, partendo da fatti storici che hanno spinto i nostri avi ad emigrare, si arriva ai giorni nostri. Come in altri spettacoli similari il Gruppo Teatrale per il Dialetto coglie l’occasione per fare piccole notazioni etimologiche, di sapore didascalico, sul dialetto istro-veneto. Questa parte dell’esibizione è seguita attentamente dal pubblico che scopre alcune novità, dando dei segni approvazione. 
È chiaro che gli attori vanno intervallando gli aspetti meramente culturali, con briosi ritornelli, accompagnati dalla musica popolare e  battute di spirito, tra le risate del pubblico contento. Vengono proposte anche alcune simpatiche “Serbidiole”, ossia le poesiole del Noneto, personaggio tipico dei borghi dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Non potrebbero mancare, naturalmente, alcune esilaranti Maldobrie a tema, tratte dal formidabile repertorio teatrale dei grandi Carpinteri & Faraguna.
Tra le scenette ridicole e assurde, c’è persino la storiella di una suocera istriana, “el gendarmo” che, per una disgrazia, viene addirittura mangiata da un alligatore, portato dall’America ancora nell’uovo da schiudere…
Come accaduto negli anni passati, alla fine dello spettacolo, alcune veraci signore istriane – capitanate da Onorina Mattini, da Pinguente e Maria Giovanna Copic, con avi di Dignano d’Istria e di Portole – hanno chiesto agli attori di cantare assieme. Quelli non si son fatti tanto pregare e il pomeriggio non poteva concludersi meglio se non intonando “La mula de Parenzo”.
 Silvio Cattalini presenta Giorgio Amodeo

Il Gruppo Teatrale per il Dialetto
Il Gruppo Teatrale per il Dialetto, diretto da Gianfranco Saletta, da anni è specializzato nel recupero e nella valorizzazione delle tradizioni culturali degli avi, nonché dei testi degli autori dialettali, allestendo in ogni stagione vari spettacoli che ottengono forti riconoscimenti di pubblico, anche nelle rappresentazioni eseguite al di fuori del territorio regionale.
Riccardo Beltrame, Mariella Terragni e Giorgio Amodeo in una delle scene da leggio de "La valisa de carton", applauditi a Udine


La valisa de carton” è una produzione allestita per essere rappresentata anche negli spazi no n prettamente teatrali. Continua una lunga serie di allestimenti del gruppo teatrale di Trieste e Gorizia, sorto verso il 1998, più volte ripresi e replicati con successo popolare negli anni. 
Tutto iniziò con “Prosit”, del 2004. Poi ci sono stati: “Xe più giorni che luganiche” (2006), “Amor no xe brodo de fasoi” (2007) e “La strada ferata” (2008). Poi tra l’eccitazione del pubblico, sono seguiti i seguenti spettacoli: “Bordesando, bordesando” (2009), “Se no i xe mati no li volemo” (2010), “El carigo de cope” (2011), “Ma cos’è questa crisi?” (2012) e “L’anima del commercio” (2013).

Il maestro Carlo Moser alla fisarmonica, con Giorgio Amodeo

Silvio Cattalini tra due esuli: a destra Giorgina Vatta, da Pola e, a sinistra Egle Tomissich, venuta via da Fiume nel 1948

Al centro del tavolo Bruna Zuccolin, vice presidente del Comitato di Udine dell'ANVGD vicino all'ingegner Silvio Cattalini, storico presidente del sodalizio di esuli giuliano dalmati mentre il Gruppo teatrale per il dialetto si sta esibendo a leggio.
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Servizio giornalistico, di fotografia e di networking di Elio Varutti.

sabato 17 dicembre 2016

Premio Firenze a Francesco Tromba, esule istriano

Figlio di un infoibato di Rovigno d’Istria, ha scritto la sua storia “da adulto, ma le considerazioni e i sentimenti che vengono dal cuore sono quelli dell’adolescente” (p.77).
Francesco Tromba

Lo scorso 3 dicembre 2016, per il suo libro, Francesco Tromba, classe 1934, ha ricevuto un prestigioso riconoscimento istituzionale e culturale a Firenze, a Palazzo della Signoria, alla presenza di autorità e di un folto pubblico. La pagina della citazione suddetta si riferisce alla quinta edizione del volume: Francesco Tromba, Pola cara, Istria terra nostra. Storia di uno di noi Esuli Istriani, Trieste, Libero Comune di Pola in esilio, 2013.
Si tratta di un evento eccezionale per il mondo degli esuli e dei loro discendenti. Accade che il racconto della morte di un italiano nella foiba diventi letteratura. È un fatto che fa riflettere. L’Autore usa toni pacati, senza recriminazioni. Chiede rispetto e preghiera per i morti.
La madre dell’Autore viene imprigionata dai miliziani titini nel giugno 1945, assieme ad altri italiani. Il padre era Giuseppe Antonio Tromba, nato a Rovigno d’Istria il 26 giugno 1899. Fu prelevato dai partigiani di Tito il 16 settembre 1943; erano in sette “tutti rovignesi”. Non fece più ritorno.
L’utilizzo del dialetto istro-veneto in alcune parti del volume premiato è assai espressivo. Il dialetto, usato per il racconto della madre imprigionata e disperata, assume qui una forza estetica particolare, oltre a rappresentare in modo precipuo il pathos. Certi brani del volume di Francesco Tromba vanno a sfiorare i canoni dell’epica. Forse anche per tale motivo il libro, che ha raggiunto la settima ristampa, ha ottenuto il Premio Firenze 2016.

A questo punto, avendo ricevuto, volentieri pubblichiamo l’originale articolo scritto da un’esule di Pola – Laura Brussi – sulla premiazione a Firenze del signor Francesco Tromba, del 3 dicembre passato.
(Elio Varutti)


XXXIV PREMIO LETTERARIO FIRENZE
Palazzo della Signoria, 3 dicembre 2016
Significativo riconoscimento ad un Esule istriano: Francesco Tromba, figlio di un Infoibato

Nel mondo contemporaneo, preda della globalizzazione e del consumismo “usa e getta” anche in campo culturale, non capita spesso che un’opera letteraria possa fruire di sette edizioni nel giro di quindici anni; a più forte ragione, nell’ambito della pubblicistica sul grande esodo giuliano, istriano e dalmata, la dolorosa diaspora dei 350 mila e la tragedia delle foibe: una produzione quasi infinita, ma circoscritta, nella maggior parte dei casi, a circolazioni episodiche, se non anche filiformi. 
Non è il caso di “Pola cara: Istria terra nostra” di Francesco Tromba, la cui prima edizione vide la luce nell’anno 2000, a cura dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, e che poi è stata seguita da altre sei uscite, tra cui quelle promosse dalla Famiglia di Rovigno (Unione degli Istriani) e dal Libero Comune di Pola in Esilio, e l’ultima, ad iniziativa del Lions Club, opportunamente ampliata ed aggiornata (Art Group, Trieste 2016, con prefazione di Silvio Mazzaroli).
Ora, l’opera di Tromba ha ottenuto un nuovo riconoscimento di grande spessore e di forte condivisione con il conferimento del Premio letterario Firenze, promosso ed organizzato dal Centro Culturale “Marco Conti” col patrocinio - fra gli altri – del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Comune di Firenze. Con l’iniziativa del 3 dicembre 2016 il Premio è giunto alla XXXIV edizione nella prestigiosa e suggestiva cornice del Salone dei Cinquecento, presenti il Sindaco di Firenze, onorevole Dario Nardella, con il Gonfalone municipale, ed il Presidente del Centro “Marco Conti”, onorevole Marco Cellai, al cospetto di un pubblico assai attento e numeroso.

Ebbene, quando il professor Enrico Nistri, nella sua qualità di Presidente della Giuria, ha dato lettura delle motivazioni per cui l’opera di Francesco Tromba è stata ritenuta meritevole del conferimento, riassumibili nella lucida evocazione del suo dramma personale, parte integrante di quello vissuto da un intero popolo, e nella capacità di offrire alle meditazioni del lettore un valido contributo di commendevole oggettività, l’applauso del Salone è stato particolarmente affettuoso e cordiale. Nistri, nello stringere la mano a Tromba, ha soggiunto di sentirsi onorato per la sua presenza e per la sua testimonianza, al pari della Giuria.
Nel mondo dell’esodo, l’opera premiata - come si diceva - era stata oggetto da tempo di ampie attenzioni, oltre che di altri riconoscimenti, con particolare riguardo alle ultime due edizioni, in cui il generale Silvio Mazzaroli, già Sindaco del Comune di Pola in Esilio, ha dato atto a Tromba di avere espresso in modo encomiabile la sua “istrianità” e la sua italianità, mentre l’Autore, nella premessa, aveva sottolineato come il suo messaggio (anche a seguito del suggerimento venutogli dal professor Augusto Sinagra, dell’Università “La Sapienza” di Roma) non fosse finalizzato soltanto al pur commosso ricordo, ma nello stesso tempo, anche a contenuti cristiani e patriottici di impegno e di speranza: una sintesi davvero felice di prassi e di pensiero, che non è azzardato presumere di rilievo importante nelle valutazioni di una Giuria competente e consapevole come quella del Premio Firenze. In questo senso, si può ben dire che, grazie a Francesco Tromba, la pubblicistica circa esodo e foibe abbia fatto un ulteriore salto di qualità, ponendosi all’attenzione generale con una sintesi non certo facile di storia e di ethos.
In questa ottica, è sempre fonte di emozione e di partecipazione il rileggere pagine angoscianti come quelle in cui Francesco descrive la cattura del papà Giuseppe Antonio da parte di una banda di partigiani, la sua successiva scomparsa, quasi certamente nella foiba di Vines (Albona), il calvario della mamma nella vana ricerca del consorte ed in un’altrettanto allucinante prigionia, la grande tragedia del 18 agosto 1946 in cui si consumò la strage di Vergarolla, la durezza dell’esilio e le difficoltà familiari nella difficile ricostruzione di vite spezzate; ma nello stesso tempo, è motivo di sicuro apprezzamento ed a tratti di stupore, constatare come Tromba sia uomo di fede adamantina e di metodo storiografico tanto chiaro quanto oggettivo, nella misura in cui riesce a sublimare un immenso dolore, elevandosi a spazi che, se confrontati con quelli degli assassini infoibatori, esprimono una distanza per lo meno siderale, sia sul piano etico che su quello civile.

È cosa buona e giusta che quest’opera rimanga negli annali di un’iniziativa di forte impegno culturale come il Premio Firenze e nelle biblioteche pubbliche, a testimonianza, anche nel lungo termine, della grande tragedia istriana, giuliana e dalmata del Novecento, e dell’impegno di tanti Esuli che, senza indulgere alla tentazione di piangersi addosso, così frequente e gettonata nel mondo contemporaneo, seppero confrontarsi attivamente con la sventura e diventare un grande esempio, come nel caso di Francesco Tromba, di valori professionali, di alto memento storico e di straordinaria forza morale.

Laura Brussi – Esule da Pola

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Riferimenti bibliografici e sitologici

-          Laura Brussi, “POLA CARA – ISTRIA TERRA NOSTRA. Storia di uno di noi Esuli istriani. Un libro di Francesco Tromba”, «Il Giornale del Friuli», 23 luglio 2013.


-          Incontro a Bibione “L’esodo degli istriani e dalmatidopo la II guerra mondiale e la tragedia delle foibe”, «Il Giornale del Friuli», 28 ottobre 2013.

-          R. P., “Un libro su Rovigno: “Premio Firenze” al tipografo Tromba”, «Messaggero Veneto», Cronaca di San Michele al Tagliamento, 11 dicembre 2016


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Servizio giornalistico di Laura Brussi.
Ipertesto di Sebastiano Pio Zucchiatti.
Premessa, cenni bibliografici e networking di Elio Varutti.
Servizio fotografico di “New Press Photo – Firenze”.


venerdì 16 dicembre 2016

Il sito archeologico di Bene Vagienna, Cuneo

Augusta Bagiennorum è un insieme di resti romani per visitatori trender. Non è un luogo molto noto, messo lì nella Piana della Roncaglia, a 2 chilometri dalla cittadina attuale (di 3.600 abitanti), ma è ricco di fascino storico dell’antichità.
Bene Vagienna - Il teatro romano

Uscendo dalla cittadina odierna di Bene Vagienna, il sito archeologico si trova in località Roncaglia, seguendo le indicazioni stradali in direzione Narzole – Bra. Julia Augusta Bagiennorum era la capitale dei liguri Vagienni, una popolazione di origine iberica.
Se chiedete oggi dove si trova il sito archeologico a qualche abitante di oggi di Bene Vagienna, provincia di Cuneo, potrebbe rispondervi con un sorrisino, perché non è molto valutato da qualcuno degli stessi cittadini. Per i più autocritici e, soprattutto, per certi abitanti dei paesi limitrofi non si tratta che di «quattro sassi in mezzo ai campi».
La chiesa di San Pietro all'inizio del percorso nell'area archeologica di Bene Vagienna

Non hanno tutti i torti. Intendiamoci: da che mondo è mondo uno scavo archeologico mette in mostra vecchie pietre ritrovate, che costituivano la struttura delle abitazioni, dei palazzi o dei luoghi istituzionali, come il tempio, il foro, il teatro, le porte arcuate, l’anfiteatro e la necropoli. È l’archeologia stessa ad essere intesa come una scienza che studia le antiche civiltà, come quella romana, mediante l’analisi dei monumenti e, se non resta altro, dei reperti, dei ruderi, ritrovati per mezzo degli scavi.
Bene Vagienna, resti del foro romano e, a sinistra, del tempio

Nel museo civico, nella sezione archeologica, a Palazzo Rorà, in Via Roma 125, si possono vedere i pezzi di valore ritrovati, come una coppa mosaicata in vetro, del I secolo d.C., vasi, monete, piatti, anfore, bottiglie, bicchieri ed altre vestigia romane.
Julia Augusta Bagiennorum è stata ritrovata per la passione di due suoi illustri e benemeriti cittadini. Tra il 1892 e il 1909, infatti, Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta svolsero una serie di operazioni di scavo. I due studiosi benesi, nonostante l’esiguità dei ritrovamenti, non si rassegnavano e continuarono, anno dopo anno nella loro opera, prendendo in affitto i terreni dai contadini, anche a proprie spese. Documentavano con precisione i ritrovamenti, anche con schizzi e disegni personali, poi reinterravano ciò che avevano scoperto, per evitare la rovina del tempo, trafugamenti o vandalismi.
Bene Vagienna - Il teatro romano

Con una pazienza piemontese riuscirono a identificare la struttura urbana dell’antica città. Julia Augusta Bagiennorum fu fondata nel 25 a.C. secondo lo schema tipico utilizzato dai Romani per le città di fondazione coloniale. L’imperatore Augusto inviò qui alcune migliaia di veterani, con le rispettive famiglie e fece spartire i terreni.
Assandria e Vacchetta scoprirono gli assi stradali ortogonali fra di loro – il decumano e il cardo – dotati, sotto la pavimentazione stradale, di condotti per lo smaltimento delle acque reflue. Le strade erano pavimentate in ciottoli, provenienti dal vicino torrente Mondalavia. Erano demarcate da marciapiedi in terra battuta, in isolati di forma quadrata, di metri 70 x 70, oppure rettangolare, di m 80 x 100. Sono stati individuati il foro, il tempio, la basilica civile (tribunale), le terme, l’anfiteatro, e il teatro con un quadriportico retrostante il palco di scena (“porticus post scaenam”), oltre alla cinta muraria.
Pietre accumulate forse dai contadini che lavorano i terreni ove sorgeva Julia Augusta Bagiennorum

La pianta della città romana è a forma di trapezio. Era alimentata da un grande acquedotto, di cui rimangono dei resti nelle pareti della Chiesa di San Pietro, all’inizio del percorso archeologico, dotato di parcheggio autoveicolare. 
Interessante è che l’intera area sia parte dell’Ente Gestione dei Parchi e delle Riserve Cuneesi, dato che l’itinerario di visita all’aperto si snoda lungo dei sentieri carrarecci, una pedana in legno e una pista pedonale e ciclabile su strada asfaltata di scarso traffico veicolare. Il percorso turistico è adatto alle famiglie, ai passeggini e alle biciclette. La città romana misurava, tra le due porte turrite di accesso, circa m 600.
Lungo il percorso ci sono vari pannelli esplicativi in lingua italiana e in inglese.
Julia Augusta Bagiennorum, resti della la basilica cristiana

Alla caduta dell’Impero romano, la città fu distrutta dai barbari. Tra gli invasori si ricordano anche i saraceni, provenienti dalla penisola iberica. Per le loro razzie, avevano predisposto un porto sulla costa della Provenza. I profughi della vecchia città romana costruirono un nuovo borgo alla confluenza dei torrenti Mondalavia e Cuccetta, in una altura di facile difesa. Fu il nucleo primitivo dell’attuale città e fu chiamata: Bene. Essa prosperò tanto che nel 901 l’imperatore Ludovico III l’assegnò in possesso temporale al vescovo di Asti, che la mantenne per 500 anni.
Poi passò sotto il dominio dei Savoia e dei Costa di Chieri, vivendo nel Seicento lo splendore del Barocco. Alla fine del Settecento fu un presidio napoleonico, per poi ritornare ai Savoia, al Piemonte e all’Italia. Nel 1862 il consiglio comunale attribuì alla città di Bene l’attribuzione di “Vagienna” in onore degli antichi abitanti.
Un'ape, a dicembre, sta... curiosando su uno dei pannelli turistici lungo il percorso di Bene Vagienna romana

Nei pressi dell’anfiteatro romano si trova una locanda (Marsam) nel cui cortile è visitabile liberamente un curioso e intelligente “orto romano”, con le classiche erbe da cucina, inaugurato il 6 giugno 2015.
Dunque tra le langhe si trovano anche delle vestigia romane che potrete ammirare camminando in appositi spazi e in tali luoghi potrete dedicarvi alla caccia fotografica. Vi potrà capitare, ad esempio, di trovare un mattone “sgorbiato”, ossia con un segno fatto dall’artigiano che lo produsse nel I secolo d.C. chissà? Oppure potrete fotografare il teatro antico di Julia Augusta Bagiennorum. Non disdegnerete i resti della la basilica cristiana, sorta sulle tracce di un tempietto di epoca pagana. E così via.
Le langhe non sono solo celebri per i rinomati vini di alta qualità (Nebbiolo, Dolcetto, Barolo…), per i paesaggi mozzafiato e per il famoso tartufo d’Alba, anche l’archeologia vuole la sua parte.
L'orto romano, presso la locanda Marsam, a Bene Vagienna

Sitologia

Riferimenti bibliografici
Enzo Drocco, Monforte. Un paese ed un territorio dal neolitico al terzo millennio, Monforte d’Alba, provincia di Cuneo, Fondazione Mario Lattes, 2008.
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Servizio giornalistico, di fotografia e di networking di Elio Varutti.

 Un mattone “sgorbiato”, ossia con un segno fatto dall’artigiano, come un marchio di fabbrica

L'anfiteatro, visibile solo per una parte

mercoledì 14 dicembre 2016

Visita al Magazzino 18 con l’ANVGD di Udine

Ci sono stati un’emozione grandissima e tanto dolore a Trieste nel vedere il Magazzino 18, coi suoi cumuli di masserizie abbandonate dagli esuli italiani. Queste parole riassumono bene lo stato d’animo dei visitatori giunti in pullman da Udine, per l’organizzazione del Comitato Provinciale udinese dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD).
Trieste, Magazzino 18 - Franco Degrassi, presidente dell'IRCI, con cravatta chiara, assieme alla comitiva di soci dell'ANVGD di Udine. Con la cravatta rossa: Giovanni Picco, presidente regionale dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, che ha portato la bandiera storica del sodalizio cucita e ricamata nel 1924. "Xe gavemo accorti dopo che la bandiera xe ribaltada, perché la emozion del posto iera granda".

Non tutti sanno che gli esuli italiani fuggirono dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, per la paura delle violenze dei titini e dell’uccisione nelle foibe a partire dal 1943. Il loro esodo è andato avanti poco oltre il 1960 anche in forme clandestine, quando i graniciari (milizie confinarie per lo più serbe) al confine tiravano contro di loro con i mitra.
Il gruppo di 22 persone, provenienti da Udine, ha visitato il Magazzino 18 a Trieste il giorno 12 dicembre 2016 nella mattinata. È stato accolto da vari volontari guidati da Piero Delbello, direttore dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-Fiumano-Dalmata (IRCI) di Trieste.
«Vi prego di portare i miei più cari saluti – ha detto Franco Degrassi, presidente dell’IRCI – all’ingegner Silvio Cattalini, presidente del vostro Comitato Provinciale dell’ANVGD, oggi assente per malattia, come mi avete detto».
Appena arrivati al Magazzino 18

Il racconto su Cristicchi
Mentre Delbello introduce il gruppo nella prima stanza, quella delle fotografie, sbircio un nome scritto in grande dietro un mobile: Gastone Benussi. È così il Magazzino 18Duemila metri cubi di masserizie. Contiene mobilia e oggetti della vita quotidiana della gente italiana in fuga dalla Jugoslavia, poi abbandonata per l’emigrazione verso l’Argentina, gli Stati Uniti d’America o l’Australia. Oppure quella roba non stava nelle case, dove i profughi trovavano un domicilio in varie parti della penisola. Quasi ogni pezzo ha il nome o l’etichetta col nominativo dell’originale proprietario.
La roba era al Magazzino 18 o a quello n. 26, mentre i proprietari stavano al Campo profughi. L’Italia ha aperto una grande quantità di Centri di Raccolta Profughi (CRP). Secondo padre Flaminio Rocchi erano 109, invece circa 140 secondo Guido Rumici. «Venivamo qua – ha spiegato Delbello, classe 1961, quindi è un cucciolo dell’esodo – a prendere i vestiti dell’inverno, ogni famiglia aveva i mobili e le sue cose messe assieme a cubo, poi per fare la mostra abbiamo scelto di presentare i generi: le sedie, le madie, i letti, le fotografie, i piatti e così via».
Ingresso al Magazzino 18, Trieste

Delbello, molto coinvolgente, racconta che verso il 2011 un certo Simone Cristicchi volle visitare questo contenitore di vecchi e impolverati mobili e masserizie situato nel porto vecchio di Trieste. Così iniziò l’interesse del famoso cantautore per la tematica dell’esodo giuliano dalmata. «Cristicchi guardava e ascoltava molto, ma proprio molto – ha detto Delbello – saremo stati qui oltre quattro ore, poi io ho provato a dirgli di scrivere una canzone su questi fatti e lui dopo un po’ di silenzio, mi ha risposto: No ne farò uno spettacolo». In questo modo è nato lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” di Cristicchi, che ha registrato centinaia di repliche in Italia, Slovenia, Croazia, Stati Uniti, Canada, Argentina...
Trieste, Porto vecchio, Magazzino 18, la montagna di sedie

Poi Delbello descrive l’anonimato delle numerose fotografie appese alle pareti. «Solo da poco – ha spiegato – abbiamo saputo che quella donna di Capodistria è una De Manzin».
Alla visita guidata partecipa anche Giovanni Picco, presidente regionale dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, che ha portato la bandiera storica del sodalizio cucita e ricamata nel 1924. 
Nella seconda stanza ci sono alcune gigantografie con le classiche immagini dell’esodo da Pola e dagli altri luoghi degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. Osservo molte tavole di legno per fare il bucato a mano nei mastelli (“le mastele”). Addirittura ci sono dei setacci (“crivei par tamisar”) per passare le farine o le salse, le composte. C’è molta etnografia in questi spazi, c’è proprio la storia delle tradizioni popolari, degli usi e dei costumi. Sarebbe molto interessante se accanto agli oggetti esposti ci fossero i termini in dialetto istro-veneto, oltre che in italiano e, magari, in inglese, per indicare cosa sono.

È che il Magazzino 18 non è un museo nel senso classico del termine. Pur con una forma espositiva, curata dai volontari, è tuttora un semplice contenitore di masserizie, diventate di proprietà dello stato nel 1978, dopo l’ultimo manifesto indetto per andare a riprendersi le cose in esso contenute.
«Cos ti vol far con quele quatro scovaze de roba rota e sporca?» Dicevano così i profughi e i loro discendenti fino agli anni 1970-1980. L’esodo era un fenomeno di cui vergognarsi. Non si poteva parlare molto di quegli avvenimenti. Oggi gli storici dicono che dal dopo guerra c’era la congiura del silenzio, per non disturbare Tito che si era staccato dall’URSS. Si discute ancor oggi del silenzio dei profughi istriani. 
Nel terzo millennio si è perfino formata una corrente di storici negazionisti, che negano o riducono i dati sulle morti nelle foibe, sulle violenze titine e sulle prevaricazioni jugoslave contro gli italiani d’Istria, di Fiume e Dalmazia.
Il Magazzino 18 è un luogo di memoria, di storia e di etnografia. Non è un museo ufficiale, ma un contenitore culturale di alto profilo, perché evoca pensieri, eventi, vicende familiari di una comunità gettata fuori dalle proprie case con la violenza psicologica e fisica nella metà del Novecento.
Trieste, Magazzino 18, il canyon di mobili

I visitatori con le lacrime agli occhi
Si pasa in altre stanze. Ci sono pochi giocattoli o oggetti d’infanzia: un monopattino, una carriola, un passeggino, un girello e qualche bambola di pezza. E tanti bauli. Anche fatti male. Fatti di corsa dal nonno, dallo zio “con pochi ciodi, perché mancava i ciodi”.
A qualche visitatore viene la lacrima agli occhi. Baule di G. Petronio, collo n. 46. Baule: F. Stivek, CRP Trieste. Baule di Milanese Giovanni. Delbello si ferma vicino alla fotografia di una coppia al Campo Profughi di San Sabba. «Lori i xe miei cugini – ha raccontato commosso – al Campo Profughi di San Sabba a Trieste, vedè col filo spinato intorno alle baracche».
Trieste, Porto vecchio, Magazzino 18

La Risiera di San Sabba, dopo essere stata unico lager nazista in Italia per concentrare ebrei ed altri prigionieri diretti ad Auschwitz per l’eliminazione è stata utilizzata, per le baracche di legno, come Campo Profughi istriani, fiumani e dalmati. 
Del resto a Trieste sono stati aperti 18 CRP. L’ultimo a chiudere, nel 1976, è stato quello di Padriciano, dove «è morta di freddo una bambina di dodici mesi, Marinella Filippaz l’8 febbraio del 1956, anche ela mia cugina seconda, perché no se podeva far fogo nelle baracche de legno, dopo sempre al CRP de Padriciano mio nonno, nato nel 1895 e morto nel 1971 vardava dalla finestra della baracca, ma no iera niente de vardar, perché iera el bosco, nonno iera cussì, nol parlava mai, anche i miei parenti gà parlado poco dell’esodo, mi penso: per vergogna. Sarebbe interessante approfondire certe tematiche delle quali adesso si comincia a parlare, come il suicidio degli esuli, oppure come l’alcolismo degli esuli, oppure la malattia mentale degli esuli».


Marinella Filippaz, morta di freddo in Campo profughi, fotografia dal gruppo di Facebook "Esodo istriano per non dimenticare"

Ci commuoviamo un po’ tutti quando uno della nostra comitiva, il signor Flavio Fiorentin, oriundo di Veglia, trova due sedie di casa sua, legate assieme con lo spago col nome segnato sopra e il luogo di destinazione: “Fiorentin, Trieste”. Ora sono lì un pezzo del museo. C’è chi si agita e vorrebbe raccontare centomila cose, come il geometra Piccoli, coi genitori che stavano a Fiume.
Molti altri si commuovono e ricordano i propri cari, finiti nella foiba, come succede alla signora Bruna Travaglia di Albona. Il gruppo è ammutolito in un silenzio assordante. 
Nella generale commozione sento dire da una signora esule da Pola: «Più che se va drento, più che ne se ingropa el cuor».

Ricordi strazianti
Vedo il signor Celso Giuriceo, nato a Veglia nel 1936, che osserva la scritta “Marsi” dietro un mobile. «Con un cognome così – ha detto Giuriceo – sarà stato di Veglia, quasi sicuro». Si procede nella vista al museo-non museo Magazzino 18. Una stanza è piena di stufe, in un vano ci sono le macchine per cucire. «Chissà quanti sacrifici per comprarla – ha detto una signora di Pirano – e poi vadra lì, dove è finita». Molte altre visitatrici annuiscono e raccontano delle loro mamme, delle zie, delle rispettive famiglie.
Si passa nella stanza delle stoviglie. Ci sono centinaia di piatti bianchi col bordo lobato e spesso, fabbricati in Cecoslovacchia. «Sono come quelli della mia famiglia – ha detto la signora Daniela – quando stava a Fiume».
Altra stanza. Tra un gruppo di signore esce la frase tenerissima: «Varda el strucapatate!» La visita prosegue nello stanzone finale. Decine di mobili ammucchiati alle pareti. Sembra di passare in un canyon tra credenze e armadi. Ad un certo punto c’è una “muraglia” di sedie. È quella che ha ispirato una delle scenografie più toccanti dello spettacolo di Cristicchi. Migliaia di sedie ammonticchiate una sull’altra. Senza ordine, casualmente. Con qualche gamba rotta. Qualcuna mostra delle riparazioni casalinghe fatte da un papà, uno zio, un nonno. Perfino quelle con la paglia di Vienna «le gà giustade con lo spago». È una straziaria di affetti.
Etichetta su un mobile al Magazzino 18 di Trieste

Molte suppellettili hanno il nome, come già detto. In qualche caso c’è l’etichetta della prefettura di un'altra provincia, perché erano ferme in altri magazzini d’Italia e poi sono state concentrate qui a Trieste, negli anni 1965-1975.
Sono assorto. Chissà dove è finita la signora Maria Degrassi, di cui osservo la sedia, mentre mi chiamano perché è ora di andare via. C’è solo il tempo per le fotografie di gruppo e per le firme sul libro dei visitatori. «L’ingresso è gratuito – ha concluso Delbello – ma vi chiedo di apporre la vostra firma sul libro delle visite, poi stringerò la mano ad ognuno di voi».
Le firme di saluto

Al Museo Revoltella
Dopo il pranzo in un ristorante della zona, la comitiva dell’ANVGD di Udine ha visitato, con una competente guida, il Museo Revoltella e i mercatini di Natale, prima di rientrare nel capoluogo friulano.

Proprio nel giorno della suddetta visita al Magazzino 18 usciva su «Il Piccolo» di Trieste una pagina intera del giornalista Silvio Maranzana sul futuro del Museo dell’esodo istriano, comprese le masserizie del Magazzino 18, che si cita nella bibliografia.

Riferimenti bibliografici
- Sui “cuccioli dell’esodo” si veda: Michele Zacchigna, Piccolo elogio della non appartenenza. Una storia istriana, Trieste, Nonostante Edizioni, con una Postfazione di Paolo Cammarosano, 2013, pagg. 68, euro 10.
- Simone Cristicchi, Jan Bernas, Magazzino 18. Storie di Italiani Esuli d'Istria, Fiume e Dalmazia, Milano, Mondadori, 2014.
- Silvio Maranzana, “Il Museo dell’esodo istriano si sposta in Porto vecchio”, «Il Piccolo», Trieste cronaca, 12 dicembre 2016.
- Salvatore Samani, Dizionario del Dialetto Fiumano, a cura dell’Associazione Studi sul dialetto di Fiume, Venezia-Roma, 1978.

Filmografia
- Simone Cristicchi, Magazzino 18, 2013.

Sitologia
- Elio Varutti, Cristicchi a Udine, "Il Giornale del Friuli", 2014.
Ringraziamenti

Ringrazio i volontari dell’accoglienza alla visita del Magazzino 18 che mi hanno consentito di effettuare alcuni scatti fotografici.
Trieste, Museo Revoltella, i visitatori dell'ANVGD di Udine
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Servizio giornalistico, fotografico e di networking di Elio Varutti.

Il registro delle visite al Magazzino 18, Trieste

Informo il lettore che il 18 dicembre 2016 ho ricevuto questa lettera per e-mail. La riproduco senza il nome dell’autore, che era in visita al Magazzino 18. Mi ha molto colpito…

Caro prof. Varutti,
La ringrazio per il suo articolo che per me rappresenta uno splendido regalo di Natale. Esso ha reso esattamente lo stato d'animo di tutti noi visitatori di una struggente e vivissima testimonianza di un dramma che ci ha visto involontari, ma consapevoli protagonisti e che ha lasciato in ciascuno di noi una ferita che il tempo non rimargina. Complimenti per l'interpretazione di ciò che la visita e la splendida guida ci hanno fatto rivivere  e che la commozione ci ha impedito di comunicare esteriormente. Grazie ancora!
Con l'augurio di un sereno Natale e di un felice 2017.

El mucio de sedie