giovedì 30 novembre 2017

Ricordo di Angelo Tomasello, prigioniero a Mitrovica nel 1945 e esule istriano

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Laura Brussi, esule da Pola. Ha voluto scrivere un pezzo commemorativo su Angelo Tomasello (1928-2017), esule istriano, che passò le sue brutte peripezie verso la fine e dopo la seconda guerra mondiale, in mano ai partigiani jugoslavi. Era un ragazzo di Canfanaro d'Istria nel 1945, quando decise di... Ecco il testo di Laura Brussi...
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Angelo Tomasello: grande patriota italiano ed esule dall’Istria. Esempio di speranza e di fede nella tragedia epocale di un intero popolo.

Non c’è dubbio: la grande storia, che Alessandro Manzoni aveva interpretato quale grande lotta contro il tempo, avente lo scopo di perpetuare ricordi ed esempi, è costituita da quella delle idee, e dei fatti che ne derivarono, ma nello stesso tempo, da una miriade di storie e vicende individuali che contribuiscono a costituirla ed in qualche misura, a spiegarla. La tragedia del confine orientale italiano, con particolare riguardo al grande Esodo del dopoguerra, protrattosi dal 1945 fino agli anni cinquanta del secolo scorso, coinvolgendo un intero popolo di 350 mila persone, ne costituisce palese conferma.
Un caso emblematico, al pari di tanti altri, è quello di Angelo Tomasello (1928-2017), patriota istriano, combattente della Decima Mas, protagonista del dramma di Pola, esule in patria, testimone attento e partecipe. 
Era nato a Canfanaro d’Istria, e quando aveva 17 anni, mentre la guerra  volgeva al termine con orribili prospettive per la sua terra istriana, aveva dovuto prendere una decisione vitale: l’alternativa, esclusa quella partigiana - essendo già tristemente noto il trattamento che gli slavi riservavano agli italiani - era fra l’esercito tedesco (Flak) o le sue Organizzazioni di supporto logistico (Todt) da una parte, e la Decima Mas dall’altra. Angelo Tomasello non ebbe dubbi e come tanti altri fece la sua scelta all’insegna dell’italianità.
Non fu un’opzione sofferta. Anzi, si onorava di essere rimasto fedele al giuramento fino all’ultimo ammaina bandiera della Decima, che ebbe luogo a Pola il 2 maggio 1945, quando le armi vennero consegnate ad un gruppo di ufficiali del Maresciallo Tito, con cui era stata trattata la resa dei reparti istriani di Junio Valerio Borghese. Tomasello, al riguardo, ricordava sempre che il glorioso vessillo della Flottiglia fu portato in salvo da una signora italiana rimasta sconosciuta, sottraendolo a sicuro scempio; e soprattutto, che i patti, come spesso accadeva in quella stagione plumbea, non vennero rispettati. Si può ben dire che mai come allora fossero stati scritti sulla sabbia.
Era un periodo tragico, ed a suo giudizio non sarebbe stato possibile comportarsi con una scelta diversa, in specie a seguito di quanto era accaduto al padre, che nel 1943, dopo la tragedia dell’otto settembre, era stato prelevato dai partigiani, portato a Pisino con la famigerata “corriera della morte” e rinchiuso nel Castello locale adibito a carcere. Avrebbe dovuto finire in foiba, assieme ad un’altra dozzina di sventurati stipati nella sua cella, ma nel pomeriggio riuscì a fuggire grazie alla confusione creata da un bombardamento tedesco, in cui altri infelici trovarono la morte. Camminò di notte per sfuggire ai suoi aguzzini e pur essendo ferito riuscì ad arrivare a Pola, controllata dalla Wehrmacht, ed a mettersi in salvo.

I ricordi della Decima che vivevano nel cuore di Angelo Tomasello non erano molti, perché riferiti ad un periodo piuttosto breve, ma egli rammentava bene che il Comandante  Borghese seppe tenere arditamente testa al nemico, ed in qualche caso anche ai tedeschi, nonostante questi ultimi lo avessero minacciato di arresto. I combattimenti con gli slavi, certamente impari, si protrassero fino a tutto aprile: non solo per l’onore, come spesso si legge, ma prima ancora, per l’italianità dell’amatissima terra istriana. Ciò, con particolare riguardo alle battaglie di Tarnova della Selva ed all’ultima difesa di Cherso, in cui si distinsero Stefano Petris (autore del celebre testamento spirituale scritto sulla propria “Imitazione di Cristo” prima di essere fucilato) e gli uomini del suo reparto: episodi rimasti per sempre nel ricordo di Tomasello e di tutti i patrioti come lui.
All’indomani della consegna delle armi, cioè il 3 maggio 1945, i prigionieri vennero incolonnati e portati via dagli scherani di Tito: erano una sessantina. Per prima cosa, furono divisi per nazionalità e gli uomini di etnia slava avviati ad ignota ma intuibile destinazione, e conseguente “liquidazione” in quanto “colpevoli” di avere collaborato con il fascismo. I superstiti, dopo due giorni di precario accampamento, marciando sempre a piedi, vennero avviati a Fasana per essere imbarcati sulla nave cisterna “Lina Campanella” che avrebbe dovuto trasferirli in Jugoslavia, verso qualche allucinante campo di prigionia. Nel frattempo il loro numero era nuovamente cresciuto.
Dopo poche ore di navigazione, il dramma: il natante era finito su una mina, cosicché la cisterna si inclinò rapidamente dopo l’esplosione. Molti prigionieri annegarono: Tomasello ricordava con particolare angoscia la tragica sorte di un  giovane commilitone che non riuscì ad allontanarsi in tempo e venne straziato dalle eliche. Nondimeno, a salvarsi furono in diversi, perché il naufragio era avvenuto a distanza relativamente breve dalla costa, che venne guadagnata a nuoto, portando a terra anche alcuni feriti: date le circostanze, un episodio di cameratismo davvero eroico.

Venne ricostituita la colonna dei prigionieri, che fu riportata a Pola attraverso Carnizza e Dignano, ma senza i feriti, crudamente “liquidati” dai partigiani con un colpo di pistola (gli spari furono uditi subito dopo la partenza), Poi, essendo in arrivo gli Alleati, l’anabasi proseguì immediatamente verso Fiume e Susak, sempre a piedi salvo un breve tratto in treno, e quindi verso Belgrado con altri allucinanti 40 giorni di marcia: molti cadevano sfiniti, ma era vietato soccorrerli, e tanto meno si poteva impedire che venissero finiti con una scarica di mitra o di fucile. Tomasello e compagni di sventura videro più volte la morte in faccia e soffrirono una fame atroce, tanto che, se a Susak erano circa tremila, quando giunsero al campo serbo di Mitrovica non superavano il migliaio.
Dopo ulteriori angherie facilmente immaginabili, in luglio ebbe luogo l’ispezione di due ufficiali con la stella rossa, uno dei quali era un concittadino di Angelo, con cui lo stesso Tomasello era stato amico d’infanzia e di adolescenza. Fu un colpo di fortuna, o meglio della Provvidenza, perché lui ebbe il “dono” di essere rimpatriato viaggiando in treno fino a Trieste, e da qui a Pola.
A quel punto, cominciò a lavorare con gli Alleati nella località costiera di Vergarolla, dove sarebbe avvenuta la strage del 18 agosto 1946 in cui trovarono la morte oltre cento concittadini, in maggioranza donne e bambini. Tomasello conosceva bene le mine che sarebbero esplose durante la festa per il LX della Società “Pietas Julia” e che erano state opportunamente disinnescate: su quelle mine, una trentina, qualcuno giocava o addirittura si riposava, cosa che conferma, se per caso ve ne fosse ancora bisogno dopo l’apertura degli Archivi inglesi del Foreign Office (Kew Gardens), la subdola matrice terroristica dell’attentato, attribuito sin dall’inizio all’Ozna, la polizia politica di Tito, quale strumento particolarmente idoneo, nella sua perversità, ad incentivare l’esodo.
Le provocazioni slave erano uno stillicidio, con aggressioni notturne da cui era necessario difendersi in proprio perché il controllo della città da parte delle forze d’occupazione anglo-americane era decisamente “soft” in specie da quando si era saputo che l’Italia avrebbe perduto anche Pola. Fu così che il capoluogo istriano vide un esodo plebiscitario, capace di coinvolgere il 92 per cento della popolazione, e concentrato soprattutto nel primo trimestre del 1947, in buona prevalenza con il piroscafo “Toscana” che fece la spola da Pola a Venezia ed Ancona, compiendo dodici viaggi e trasportando un dolentissimo carico umano.
Angelo Tomasello dal sito di Primonumero

Durante i lugubri mesi della preparazione, Tomasello lavorò duramente - circa 12 ore al giorno - agli imballaggi ed ai trasporti delle masserizie di tanti esuli verso il celebre “Magazzino 18” di Trieste, dove avrebbero conosciuto l’infausta sorte cantata in tempi recenti da Simone Cristicchi. In tale circostanza, conobbe di persona Maria Pasquinelli, che operava presso il Comitato di Assistenza ai Profughi e che sarebbe passata alla storia perché il 10 febbraio, proprio mentre a Parigi si stava per firmare il “diktat”, uccise il Generale Robert De Winton, comandante della piazzaforte di Pola (poi sepolto nel cimitero militare di Adegliacco presso Udine), in segno di estrema protesta contro il tradimento degli Alleati che avevano consegnato a Tito l’Istria e la Dalmazia.
Alla fine, anche Angelo prese la via dell’esilio e dopo ulteriori peripezie giunse a Torino dove venne assunto in Fiat, iniziando una lunga e proficua carriera industriale non priva di soddisfazioni (avrebbe lavorato in qualità di quadro direttivo persino nello stabilimento jugoslavo di Kragujevac) conclusa a Termoli nel 1984, con il collocamento in quiescenza. Il suo esempio, al pari di tanti altri, dimostra come gli esuli, lungi dal piangersi addosso, abbiano operato con perseveranza in una ricostruzione della propria vita sin dalle fondamenta, spesso con significativi successi.
Tomasello ha sempre considerato un onore partecipare alle manifestazioni per il “Giorno del Ricordo” - istituito con apposita legge del 2004 dopo tanti anni di colpevole silenzio - e portare il contributo della sua testimonianza, con particolare riguardo alle iniziative del Libero Comune di Pola in Esilio ed a quelle organizzate in Molise e nelle Puglie presso Amministrazioni pubbliche ed Istituzioni scolastiche. Gli esuli di Venezia Giulia e Dalmazia, e lui tra loro, si erano guadagnati il convinto rispetto di tutti restando fermi difensori di umanità e civiltà, ed onorando “i valori tradizionali senza trascurare ogni buona, giusta ed indistruttibile speranza”. Sono parole che è bene affidare alla memoria comune, in quanto sintesi di una vita esemplare.
Angelo Tomasello è “andato avanti” il 27 ottobre 2017 con la vigile scolta della Bandiera tricolore e di quella istriana, lasciando un vivido messaggio di alto valore cristiano, nel segno di un’indomita fede e di un beninteso patriottismo.
Laura Brussi, esule da Pola

Trieste, Magazzino 18. Foto Varutti 2016 
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Networking a cura di Girolamo Jacobson e E.V.

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Cenno sitologico

Giovanni De Fanis,“Fuga da casa e dall’orrore. Parla uno scampato alle Foibe”, pubblicato nel web dal 10 febbraio 2006 su www.primonumero.it

lunedì 27 novembre 2017

Natale dell’esule 2017 a Udine, qui prenotazioni

Ecco il messaggio di Bruna Zuccolin, presidente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) Comitato Provinciale di di Udine. Carissimi e carissime, come da tradizione è giunto il momento che ci riunisce ogni anno per festeggiare il Natale.
Oratorio della Purità, Natale dell'esule 2015

Allora ci incontreremo domenica 10 dicembre 2017, con il seguente programma:
ore 11.00 Chiesa della Purità, Piazza Duomo Santa Messa celebrata da Don Tarcisio Bordignon. La celebrazione sarà accompagnata da canti.
ore 12.30 Ristorante Astoria Italia, Piazza XX Settembre, 24
Aperitivo di benvenuto. Pranzo tradizionale.
Seguiranno: 1) Proiezione con sottofondo musicale di momenti importanti e significativi della nostra Associazione a cura di Fabiana Burco e Lorenzo Furlano.
2) Lettura lirica dal titolo "Maria Millia da Rovigno" a cura del poeta Giuseppe Capoluongo.
3) Breve intrattenimento musicale a cura di Zaira Capoluongo: Inno dell’Istria e la “Vecia batana”.
Il prezzo del pranzo è di €. 40,00.
L'invito è esteso anche a parenti ed amici dei soci. Vi aspettiamo!

Prenotazioni (ENTRO IL 7 DICEMBRE 2017): da lunedì al venerdì presso la sede ANVGD di Udine numero telefonico 0432. 506203. La sede del Comitato Provinciale è in Vicolo Sillio n. 5. In altri orari previo appuntamento
33100 UDINE - vicolo Sillio n. 5 - Tel. e Fax 0432 506203
e-mail   anvgd.udine@gmail.com
Chi desidera prenotare in Facebook scriva in privato a Elio Varutti, vice presidente ANVGD di Udine

martedì 21 novembre 2017

Campo profughi Le Baracche e gli altri CRP di Bari

Propongo alcuni appunti per la storia del Centro raccolta profughi (CRP) di Bari, detto delle “Baracche”, sito in via Napoli e chiuso nel 1956. Ci sono anche alcune mappe per ricordare quel Campo profughi di cui oggi non rimane alcuna traccia, ma al suo posto ci sono invece moderni condomini, come si può notare dalle immagini.
Bari, 26 maggio 1950, la squadra di calcio selezionata tra i Centri Raccolta Profughi giuliano dalmati della zona. Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Lo spunto della ricerca è venuto dai messaggi in Facebook di Sergio Servi. Il 18 novembre 2017, nel gruppo “Amici profughi istriani” ha scritto: “Oggi voglio mostrarvi dove era ubicato il campo profughi di via Napoli a Bari, voglio inoltre, sempre se può interessare, mostrarvi una piantina del campo stesso così come io lo ricordo. Ho solo un paio di foto da mostrarvi, in quegli anni le macchine fotografiche erano un lusso per pochi, grazie per l’attenzione”.
Peraltro nel web si ha occasione di leggere che c’erano “insulti, fischi e sputi a Venezia e Bari quando le navi cariche di profughi attraccarono al porto” nel sito “Ricordare…”.
Riguardo al Campo di via Napoli, si legge sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 15 ottobre 1998, che era costituito da 14 vecchi capannoni in legno circondati dal filo spinato. Solo due erano i locali in muratura: per i servizi igienici e per la stalla. “L’unica latrina che serve ai profughi ivi ricoverati – prosegue il giornalista – è in uno stato di deplorevole abbandono, per cui detto luogo è assolutamente impraticabile”. Venne dismesso nel 1956 quando i profughi furono spostati al “Villaggio Trieste”, costruito dall’Istituto Autonomo Case Popolari.
La sorte di tali profughi era paradossale, si legge ancora sul giornale citato, ritenuti a torto “stranieri”, furono espulsi dai luoghi in cui erano radicati. Considerati “connazionali”, in realtà vissero da “Displaced Persons” (rifugiati) nel capoluogo pugliese. A volte, parlando con i profughi più anziani, aggiunge la «Gazzetta del Mezzogiorno», si ha la certezza che in quegli anni solo il cappellano e il medico condotto conoscessero i drammi da loro vissuti e le necessità dell’ora.

Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Ricordi viaggio. Parenzo, Trieste, Udine e Bari, 1949
Ecco il racconto di Sergio Servi quando, nel 1949, lasciò Parenzo con la famiglia per andare nei campi profughi del nord e del sud Italia. “Non ricordo bene il giorno, ma erano i primi di aprile del 1949 – è l’esordio della testimonianza – in casa c’era un gran daffare e un andirivieni di persone. Si incominciava a imballare quelle poche cose che si erano salvate dalle macerie dopo il bombardamento del 25 aprile 1945. C’era inoltre da marchiare ogni masserizia e ogni cassone col numero del passaporto provvisorio che per noi era il n. 14294. Tra le tante persone (tante forse solo per me non abituato a vederne tante in casa), la chiusura del cassoni con le “strasse” si doveva farla in presenza di due Drusi, che controllavano ogni cosa. Messo tutto in una stanza, che poi veniva sigillata, noi ci siamo arrangiati in cucina e sul pianerottolo dormendo per terra. Il mattino del giorno 9 aprile 1949, i Drusi hanno rotto i sigilli e tutte le masserizie sono state portate al porto e caricate su due dei tre pescherecci venuti apposta da Trieste. Visto che il tempo si stava guastando, sono subito ripartiti.
Dislocazione del CRP di via Napoli a Bari. Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Il terzo peschereccio era per noi. Nel primo pomeriggio tutti in dogana per il controllo personale e delle borse. A tanti hanno fatto perfino togliere le scarpe, poi tutti a bordo del motopesca. Nel frattempo il mare si era agitato e la partenza fu rinviata. A bordo eravamo in 115 persone. Non si poteva più scendere a terra e non si poteva partire. In fondo al molo Venezia hanno piazzato una mitragliatrice sul relitto mezzo affondato dall’ultimo bombardamento, una mitragliatrice sulla Riva e un’altra su di una imbarcazione all’ancora poco distante. Si doveva stare in 115 persone più tre dell’equipaggio per tutta la notte su di una motopesca di circa quindici metri. Non c’era il bagno. C’era il bugliolo (in marineria è: il secchio). Il capitano o comandante ha cominciato a raccontare de frequenti viaggi che faceva tra le coste istriane e Trieste trasportando profughi. Mi sono addormentato più tardi del solito, ma per gli adulti deve essere stata una notte interminabile.
Appena chiaro, ci hanno dato il permesso di partire e siamo arrivati a Trieste verso mezzogiorno. Per tanti di noi c’era la sistemazione al Silos [un CRP vicino alla stazione]. Per me un posto orrendo. Non ricordo di avere mai visto una lampadina accesa. Uno sgabuzzino senza finestra era la nostra nuova casa. Le latrine erano senza acqua, però per terra era sempre tutto bagnato. La cucina o dove servivano da mangiare era al piano terra in fondo a destra. C’era poca luce e i muri erano anneriti dal tempo. Non ricordo cosa ci dessero da mangiare.

Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Dopo qualche giorno, la partenza da Trieste è stata un sollievo. Finalmente a Udine. Ho dormito in un camerone dove le brande erano sistemate lungo i due muri nel senso della lunghezza. Non le ho contate, ma dovevano essere una trentina su ogni lato, senza divisori, a portata di ogni sguardo. Non ricordo di aver visto o sentito cose strane, dormivo profondamente. Una cosa mi ha particolarmente colpito in quello che forse era un campo militare o caserma: la gran quantità di filo spinato. Dopo molti anni, solo attorno al Campo profughi di Altamura ne ho visto tanto. Dopo otto giorni ci hanno trasferiti a Bari”.
Altre notizie interessanti si possono desumere dalle fotografie che Sergio Servi ha messo a disposizione della presente ricerca. Il 26 maggio del 1950 viene inaugurata la sede dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Bari con tanto di fanfara, bandiere e gagliardetti. Curioso il fatto che la sede dell’ANVGD sia vicino all’edificio del Campo profughi di Santa Chiara, oggi sede dei Beni Culturali. C’è pure una squadra di calcio a festeggiare l’evento del 1950, costituita con una selezione di calciatori dai vari CRP di Bari. I calciatori hanno la maglietta con lo stemma dell’ANVGD.
Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

La famiglia Servi da Udine a Bari
“Era il 22 aprile 1949 – ha riferito Sergio Servi – e il treno partito da Udine il giorno prima è arrivato a Bari. Ha portato la famiglia Servi e le altre di Orsera, Cervera, Rovigno, Fasana e di altre località al Campo profughi di Bari. Premetto che siamo partiti da Udine il 21 aprile alle ore 14, dopo che in stazione ci hanno rifocillati con mezza fetta di mortadella e una fetta di pane. Dopo 32 ore di viaggio, arrivati a Bari alle ore 22 circa, ci hanno messo a disposizione una angolo della sala d’aspetto di III classe e il pavimento di granito ci ha fatto da letto.
L’indomani mattina, il 23 aprile 1949, a piedi per quasi due chilometri dalla stazione al CRP di Santa Chiara. Lì c’era la direzione dei campi profughi. Ci hanno consegnato le brande di ferro, i pagliericci, qualche treccia di crine a testa, coperte e altre cose, indicandoci la strada da percorrere. Ci hanno mandati via carichi come somari. Abbiamo percorso oltre due chilometri e mezzo fino alle baracche di via Napoli. La strada era in rifacimento e soffiava un forte vento. Non si poteva neanche tenere aperti gli occhi tanta era la polvere e il terriccio trasportati dal vento.
Finalmente a casa, anzi in baracca. Due nuclei familiari, nove persone in tutto in una baracca di 36 metri quadri, con una porta e una finestra sul retro. C’era da “strefolare” [districare, sciogliere] il crine, riempire i pagliericci, fare alla meglio i letti, darsi una lavata nonché, fatto non trascurabile, provvedere al mangiare. Non ho idea di come gli adulti abbiano fatto. Noi bambini, quel giorno io compievo dieci anni, siamo crollati dal sonno. Potrò invecchiare, ma questo viaggio e questi fatti vissuti li rivivrò per sempre. Di tutto ciò che quel giorno ci hanno dato, questi sono gli unici oggetti che mi sono rimasti. Non sono il Sacro Graal, ma di sicuro hanno visto cadere delle lacrime, quelle dei miei genitori”.
Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Com'era la vita nel Campo profughi delle "Baracche" a Bari?
È ancora Sergio Servi a riferire che “la vita nel campo si svolgeva come potete immaginare. Non c'era niente da fare e non si poteva fare niente, poiché non avevamo niente. Le masserizie e tutto quello che avevamo portato via dall'Istria erano chissà dove. Le baracche erano in condizioni pietose, quasi cadenti. umidità e funghi del legno le avevano danneggiate in più punti. alcune erano puntellate. alla loro manutenzione provvedeva una squadra di operai, anche loro profughi ospiti dei Campi di Santa Chiara e di Regina Elena di Bari. Erano profughi del Dodecaneso. 
Tutte le mattine a piedi la squadra dei manutentori arrivava e si metteva al lavoro molto ma molto lentamente. Stendevano sul tetto della baracca un rotolo di cartone catramato, fermandolo al meglio e poi se ne andavano. Fu così da aprile a fine estate. Sul finire dell'estate con le prime piogge e le coperture non perfette, l'acqua filtrava cadendo sui letti". Fu così che il babbo di Sergio Servi, il fratello e altri adulti sfondarono la porta del deposito manutenzione, presero il materiale e in meno di una giornata completarono il rifacimento del tetto delle baracche più fatiscenti. Era ciò che la squadra di otto operai non era riuscita a fare in quattro mesi. All'indomani gli operai, visto il magazzino con porta sfondata, chiamarono la polizia. La storia si concluse sulle camionette dei questurini, che portarono in Questura gli ingegnosi operai della domenica e dopo un po' di chiarimenti furono tutti rilasciati. Figurarsi cosa hanno provato i figli di quegli operai troppo volontari nel vedersi il papà, il fratello portato via dai questurini. Se lo ricordano ancora.
Documento sull'accoglienza a Bari dei profughi dalmati del primo esodo, quello del 1921-1922

Tutto il Campo profughi delle "Baracche" di Bari era circondato dal filo spinato per una recinzione alta due metri. Al cancello d'entrata, c'era la garrita per la sentinelle. L'ingresso era vietato agli estranei. La corrente elettrica era disponibile solo nelle ore diurne, dalle 7 alle 21. Proibiti i fornelli elettrici, ferri da stiro. Per cucinare veniva usata una fornacella a carbone o a petrolio. Le latrine non erano dotate di acqua di scarico; nel fabbricato dei gabinetti c'erano dei vasi alla turca separati da un muretto di un metro, niente carta igienica. Qualcuno si organizzava alla meglio con un secchiello d'acqua... 
Per lavare i piatti c'era una vasca con due rubinetti. Per la biancheria c'era una vasca lunga e stretta. L'acqua spruzzava da un tubo verso il fondo della vasca, bagnando tutto ciò che c'era intorno. Chi lavava i panni dopo si trovava tutto bagnato. Non c'era la luce elettrica. Se la notte serviva il bagno veniva usata una torcia...

In terra di Bari c’erano 8 CRP
Come ha scritto Nico Lorusso “in terra di Bari i CRP erano otto”, per un totale di oltre due mila posti. Quello di via Napoli fu edificato verso il 1935, quando c’era la guerra d’Etiopia. Con l’arrivo degli alleati angloamericani prese il nome di “Campo Badoglio” e fu destinato a custodire i prigionieri tedeschi.
Scrive ancora Lorusso che il primo CRP era in piazza San Sabino alle spalle della Cattedrale, nello stabile che fino a poco tempo prima fu una caserma della Guardia di Finanza. Ospitò fino a 146 persone, nel 1952, anno dell’ultimo censimento. Di solito i rifugiati erano 120. Si veda, in merito la tabella n. 1.
Sempre a Bari vecchia c’erano altri due campi: quello di Santa Chiara, da 270 posti che fu danneggiato il 9 aprile 1945 dallo scoppio del piroscafo americano “Charles Henderson”. Poi c’era quello “Positano” nella caserma “Regina Elena”, ossia nell’ex convento di San Francesco alla Scarpa, da 328 posti. Il campo più grande era quello delle baracche di via Napoli (l’indirizzo postale era proprio: “via Napoli-Baracche”). Erano delle casette di legno costruite durante la guerra di Etiopia. Dopo l’occupazione alleata presero il nome di “Campo Badoglio” e furono destinate ai prigionieri di guerra tedeschi. Nel 1952, qui, c’erano ancora 420 persone.
Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

A Fesca c’era l’ultimo campo, nella colonia “Ferruccio Barletta” dove, nel 1952, erano ospitati 240 profughi. Era uno stabile in riva al mare, ex colonia marina dove la vita era impossibile dopo che il mare s’era infiltrato nelle fondamenta e aveva reso malsani gli ambienti.
Nel 1956 finalmente ci furono le case in muratura, tra via Pola e via Mascagni. I campi furono svuotati di quei profughi e il villaggio, composto da 296 mini appartamenti da due vani e accessori, fu presto abitato e denominato “Trieste”. Si celebrava così la piena ammissione all’Italia della città giuliana dopo la guerra, ha spiegato il giornalista Lorusso. Nel  “Villaggio Trieste”, oltre alla parrocchia di Sant’Enrico sorsero anche negozi e un “kafeneion”, un caffè dove si poteva bere, fino agli inizi degli anni Settanta, il caffè alla turca. Secondo Lorusso era un luogo “altro”, da cui i baresi volevano star lontani, anche se trent’anni dopo quel caffè divenne di moda nei pub della movida delle nuove piazze di Bari vecchia.

Tab. n. 1 – Centri raccolta profughi a Bari e vicinanze 1949-1956
Nome di CRP
Anno
Via o località
N° posti
Piazza San Sabino
1952
Bari vecchia. Dietro la Cattedrale, nello stabile di una caserma della Guardia di Finanza, poi Facoltà di Teologia
146
Santa Chiara

Bari vecchia. Qui c’era la direzione dei CRP d Bari. Danneggiato nel 1945 da scoppio nave “Henderson”, poi “Casa del Profugo”. Ora sede dei Beni culturali
270
Positano

Bari vecchia. Caserma “Regina Elena”, ex convento di San Francesco alla Scarpa, poi sede Soprintendenza
328
Le Baracche
1952
Via Napoli, ex Campo “Badoglio” per prigionieri tedeschi
420
Lido Massimo a Fesca
1952
Colonia “Ferruccio Barletta”
240
Altamura
1950

500
Barletta



Santeramo in Colle



Fonti: N. Lorusso, “Quell’esodo dei mille dall’Egeo, Noi italiani, trattati come stranieri”, «la Repubblica», 17 febbraio 2004. Katia Moro, “Il Villaggio Trieste di Bari, lì dove trovarono rifugio mille profughi”, nel web «Barinedita» dal 16 aprile 2015. Testimonianza di Sergio Servi, Bari, del 18.11.2017

Il CRP di Santa Chiara indagato dall’Archivio di Stato di Bari
Durante l’anno scolastico 2017-2018 l’Archivio di Stato di Bari (ASBa) ha proposto un’innovativa ricerca cercando di coinvolgere le scuole in un percorso storico documentario riguardo ai profughi giuliano dalmati degli anni 1950-‘56. È molto interessante che simili istituzioni accrescano la loro offerta formativa all’utenza con temi di tale natura. Il titolo del progetto verteva su “La città e la memoria: S. Chiara, Centro Raccolta Profughi di Bari”.

L’obiettivo dell’originale attività didattica è quello di effettuare una ricerca, censimento e selezione delle fonti documentarie in collaborazione con i docenti. È stato messo a disposizione anche un laboratorio di fotoriproduzione, legatoria e restauro. I destinatari sono le scuole di ogni ordine e grado. Si ricorda che l’ASBa è accessibile a persone con disabilità motoria, psico-cognitiva, uditiva e visiva.  Promozione web dell'ASBa.

Le gamelle per mangiare. Dice Sergio Servi che: 
"Il piatto e il pentolino di alluminio facevano parte del corredo che ci è stato dato il giorno del nostro arrivo a Bari". Robe da profughi.

Giorno del Ricordo a Terlizzi 2014
Il 10 febbraio 2014 Ninni Gemmato, sindaco di Terlizzi, provincia di Bari, ha presenziato presso la Biblioteca alla proiezione del documentario ‘L’Esodo’ alle ore 18,30 all’interno della rassegna “La Biblioteca Terlizzi ricorda le vittime delle Foibe”. Nel decennale dell’istituzione del Giorno del Ricordo, si è tenuta la proiezione del documentario ‘Esodo’, a cura dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, corredata dalla Mostra di documenti del Centro Raccolta Profughi di Bari Fesca.
Il documentario, che si compone delle due parti dal titolo ‘La Memoria Negata’ e ‘L’Italia dimenticata’, entrambe per la regia di Nicolò Bongiorno, e che ha riscosso il favore unanime di istituzioni e critica, già nel titolo rimanda all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, territori occupati dalle truppe di Tito. Un esodo causato dall’evento noto come eccidio delle Foibe, le insenature carsiche ove trovavano la morte tutti coloro che, durante la seconda Guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, diffidavano dal nuovo governo jugoslavo.
Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Oltre 20 mia profughi italo-tunisini
Il signor Giuseppe Rizzo, nato in Tunisia nel 1946, è pure lui un profugo italiano. È rientrato in patria nel 1960. Secondo lui, sono circa 20 mila i profughi italo-tunisini rientrati dal dopoguerra. Ecco la sua storia. “Arrivati in Italia noi profughi italiani dalla Tunisia siamo stati ospitati nel Centro raccolta profughi di Bari [non CRP delle Baracche, che chiude nel 1956]. Quando il capo famiglia, una volta individuata la città dove voleva ricostruire il futuro, avesse trovato lavoro e abitazione, allora tornava al CRP a riprendere la famiglia. Ai suoi componenti la direzione del CPR riconosceva una cifra che doveva servire secondo loro come rimborso spese per rimettere in piedi una abitazione per l’acquisto di mobili e vari per ricominciare a vivere”.
“Nel nostro caso – ha ricordato Giuseppe Rizzo – la cifra è stata di cinquantamila lire a componente, erano gli anni sessanta ma cinquantamila lire erano molto pochi per quello che dovevano servire, se considerate che un operaio specializzato prendeva in quegli anni la stessa cifra di paga al mese”.
Riporto ora un solo dato finale riguardo al “CRP di Altamura, in provincia di Bari – come ha raccontato la signora Albina Visintin – so che la gente del posto per dispetto aveva avvelenato l’acqua”.
Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Fonti orali e digitali
- Sergio Servi, Parenzo 1939, messaggi in Facebook del 18-20 novembre 2017
- Albina Alma Visintin vedova Benolich, S. Giovanni di Portole 1936, int. del 27 dicembre 2003.

Collezione privata
- Coll. Sergio Servi, Bari, fotografie, mappe (che si ringrazia per la gentile concessione alla pubblicazione e diffusione). 

Bibliografia e sitologia
- «Gazzetta del Mezzogiorno» del 15 ottobre 1998.
- Nico Lorusso, “Quell’esodo dei mille dall’Egeo. Noi italiani, trattati come stranieri”, «la Repubblica», 17 febbraio 2004.
- Katia Moro, “Il Villaggio Trieste di Bari, lì dove trovarono rifugio mille profughi”, nel web dal 16 aprile 2015.
-  Giuseppe Rizzo, “I magnaccioni dei centri”, on-line dal 13 luglio 2017.

Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Altro Campo profughi per la famiglia Servi: Bagnoli. Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

Dislocazione dei CRP a Bari vecchia su immagine odierna. Didascalia in sovrimpressione a cura di Sergio Servi

domenica 19 novembre 2017

Riccardo Bellandi parla della sua spy story a Udine

Alla libreria Tarantola di Udine, in via Vittorio Veneto, il 16 novembre 2017 c’è stata la presentazione del libro di Riccardo Bellandi edito nel 2015 da Youcanprint di Tricase (LE).
Elio Varutti, Riccardo Bellandi, Bruna Zuccolin e Angelo Rossi
L’iniziativa con la presenza dell’autore è stata promossa, oltre che dal gestore della libreria, dall’Associazione Toscani in Friuli Venezia Giulia e dal Comitato Provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD).

Ha aperto i lavori dell’incontro Angelo Rossi, presidente dell’Associazione Toscani in FVG, ringraziano i presenti, l’autore e la collaborazione tra le associazioni per la serata. Rossi ha poi ricordato gli appuntamenti del suo sodalizio. È intervenuta in seguito Bruna Zuccolin, presidente dell’ANVGD di Udine, ricordando che le iniziative culturali caratterizzano e valorizzano la buona collaborazione sorta fra le due associazioni che hanno organizzato la presentazione del volume di Bellandi.
In sala c'erano Sergio Satti, esule da Pola (primo a destra), Bruna Traversa, da Albona e Eda Flego, di Pinguente...
Il professor Elio Varutti, vice presidente dell’ANVGD di Udine, ha presentato al pubblico in sala l’opera di Bellandi, autore toscano trapiantato a Gorizia dal 2010 per lavoro.“È assai originale che un romanzo documentario si apra con due carte geografiche – ha detto Varutti – che non è facile da trovare nemmeno in taluni ordinari libri di storia”.
Una di esse è del confine orientale italiano dal giugno 1945 a settembre 1947 con la cosiddetta linea Morgan, che lasciava più terre all’Italia, Pola inclusa. L’altra mappa è sull’occupazione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse (Germania nazista e Italia fascista), dall’aprile 1941 a settembre 1943. Lo scopo è di mettere a proprio agio il lettore a digiuno di geografia, per poter inquadrare meglio i luoghi della vicenda di spie del volume ambientata a Gorizia nel 1946.
Angelo Rossi, presidente dell'Associazione Toscani in FVG porta il saluto del suo sodalizio ai presenti
Sin dal titolo, “Lo spettro greco”, l’autore evoca lo stato di guerra civile creatosi in Grecia dopo la seconda guerra mondiale. Un fatto analogo poteva accadere nell’Italia sconfitta dagli alleati anglo-americani e sull’orlo di una guerra civile fomentata dall’Armata jugoslava, che alitava ostinatamente sui confini orientali. La missione di spionaggio descritta nel volume mira a svigorire la componente filo-jugoslava e rivoluzionaria del PCI, per evitare proprio lo stato di guerra civile come in Grecia.
Ha parlato anche Riccardo Bellandi, per ricordare la sua passione per la storia e l’interesse di collegare il territorio ai fatti storici nei suoi libri. L’autore ha spiegato il perché della legenda delle sigle utilizzare nel corso degli eventi. Il pubblico ha scoperto allora che i Badogliani, in senso spregiativo, erano definiti i militi italiani che avevano seguito l’armistizio e il cambio di alleanze deciso dal re e dal governo Badoglio, divenendo co-belligeranti (non alleati) degli angloamericani. Poi c’erano i repubblichini di leva o quegli italiani che addirittura entrano come volontari nelle Waffen SS per portare a termine la follia hitleriana. Erano solo dei soldati?
Parla Riccardo Bellandi, al centro
Poi ha spiegato chi sono i Bisiacchi, ovvero gli abitanti della zona di Monfalcone. I Četnici sono quei nazionalisti serbi monarchici, che prima parteggiavano per gli alleati, poi stanno coi repubblichini e coi fascisti croati (gli ustascia) di Pavelić, in funzione anticomunista e molti altri aggregati e milizie. Proprio nelle pieghe di questo giallo si trovano spie col doppio gioco e addirittura al soldo di servizi segreti dei fautori della guerra fredda (USA e URSS), sorta secondo certi storici con l’eccidio di Pozus.
Interessante poi è stato sapere che tra il 1946 e 1947 c’è la “Central Intelligence Group” degli Stati Uniti d’America, antesignana della arcinota CIA. Ci sono tante formazioni militari che se la facevano più o meno coi nazifascisti. C’è la famigerata OZNA di Tito, ossia i servizi segreti partigiani e polizia politica dei comunisti jugoslavi, divenuta UBDA nel 1946 fino al 1992, quando la Jugoslavia si scioglie e diventa uno “spezzatino”. C’è la droga (Pervitin, una metanfetamina) che i nazisti assumevano prima delle loro azioni militari e così via.
La presentazione del libro di Bellandi da parte del prof. Elio Varutti alla Libreria Tarantola di Udine
Alla fine dell’applaudito discorso di Bellandi si è aperto un dibattito, con la partecipazione di Sergio Satti, esule da Pola, Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria, Gilberto Ganzer e molti altri, compreso un giovane neolaureato che ha raccontato del suo recente lavoro di digitalizzazione, per espandere la conoscenza, dell’archivio “Osoppo della Resistenza in Friuli”, da cui ha notato che certi partigiani si fecero rilasciare l’attestato di “attività partigiana svolta” sin dai primi di aprile 1945, quando la seconda guerra mondiale non era ancora finita. Un altro ascoltatore, appassionato giallista, dopo essersi complimentato con Bellandi, ha azzardato il collegamento della sua spy story con Giorgio Scerbanenco, autore di un giallo ambientato nella Trieste degli anni ’60.

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Nota: il presente articolo è già stato edito nel profilo Google "ANVGD di Udine" il 18.11.2017.
I migliori ringraziamenti per le fotografie soprastanti a Daniela Conighi, ove non altrimenti indicato.

Fotografie di Giorgio Gorlato


articolo a cura di Girolamo Jacobson