mercoledì 31 gennaio 2018

Corona d’alloro per le Donne resistenti in stazione a Udine

Alla stazione di Udine si è svolta una breve cerimonia domenica 28 gennaio 2018, alle ore 11, per ricordare le donne friulane che aiutarono i deportati e gli ebrei nei vagoni per Auschwitz
Stazione di Udine, Tiziana Menotti, Federico Pirone e Daniela Rosa

Davanti alla lapide delle Donne resistenti, sul piazzale della stazione dei treni, ha parlato Federico Pirone, assessore alla Cultura del Comune di Udine. Poi è intervenuta Tiziana Menotti, citando il Talmud. La Menotti ha parlato in nome del Gruppo culturale “Alfredo Orzan” della Parrocchia di San Pio X, organizzatore dell’evento, patrocinato dal Comune. Hanno collaborato l’Associazione Insieme con Noi di Udine, presieduta da Germano Vidussi e il Gruppo Alpini di Udine sud, guidato da Antonino Pascolo. L’evento rientra nel calendario delle attività del Comune di Udine per commemorare la Shoah e le deportazioni nei campi di sterminio.
La relazione ufficiale è stata tenuta dalla professoressa Daniela Rosa, presidente delle Donne Resistenti di Udine. Erano presenti anche due ragazze del 1945, che recarono aiuto ai deportati di allora, come la parrocchiana Fernanda Revelant, 90 anni, e Iris Bolzicco. “Raccoglievamo i biglietti dei deportati, per scrivere alle loro famiglie sul loro passaggio a Udine, diretti in Germania – ha detto la Revelant – e davamo loro un po’ di acqua, un po’ di cibo, un abito pulito, rischiando perché le sentinelle tedesche ci picchiavano col calcio del fucile”.
Tra il pubblico, Iris Bolzicco, in giacca scura e Fernanda Revelant, con basco rosso. Foto Vidussi

Alla piccola cerimonia era presente, tra gli altri, anche Enio Agnola, consigliere regionale e Antonella Lestani dell’A.N.P.I. di Udine, componente del gruppo del progetto Donne resistenti.
Ecco, qui di seguito, la relazione della professoressa Daniela Rosa, pronunciata davanti alla lapide delle Donne resistenti a Udine.

28 gennaio 2018 -  Per la posa della corona di fiori alla lapide delle donne resistenti
In una intervista raccolta nel 2008 dalla voce di Fidalma Garosi, la partigiana Gianna, insieme ai ragazzi della classe IV AL  dell’Istituto Zanon di Udine, la professoressa Paola Schiratti ebbe modo di sentire per la prima volta il racconto degli atti compiuti dalle donne friulane che a partire dall’8 settembre del 1943 sono intervenute attivamente per portare conforto, aiuto e sostegno agli internati militari prima, ai deportati e alle deportate poi, diretti ai campi di concentramento del Nord Europa. Prigionieri e prigioniere, racchiusi nei carri bestiame, facevano cadere bigliettini di saluto destinati alle loro famiglie; le donne, all’epoca giovanissime, si erano fatte onore di non lasciarne nemmeno uno a terra, per poi scrivere ai famigliari dei prigionieri e avvertirli del passaggio da Udine dei loro cari.
Il pubblico intervenuto il 28.1.2018. Foto Vidussi

I fatti poco conosciuti vennero presentati il 22 marzo 2010 da Paola Schiratti, all’epoca consigliera provinciale e vicepresidente della commissione provinciale  di Udine delle Pari Opportunità,  ad un gruppo di rappresentanti della varie associazioni per proporre una iniziativa nata sui banchi di scuola e assieme a me e alla collega Nadia Trovatelli, per impedire che queste azioni buone e giuste andassero perdute e per dare il giusto riconoscimento al coraggio e alla generosità di quelle donne. Si costituì informalmente il comitato “Donne resistenti” che diede avvio al progetto “Una disubbidienza civile: le donne friulane di fronte all’8 settembre 1943”. Ne facevano parte, oltre a me, Ivana Bonelli (“Donne in nero”), Carmen Galdi (Commissione PPOO del Comune di Udine), Antonella Lestani e Flavio Fabbroni (A.N.P.I.), Rosanna Boratto, Marisa Sestito e Maila D’Aronco (Ass.C.O.R.E), Amanda Tavagnacco, Francesca Tamburlini, oltre ai registi Paolo Comuzzi e Andrea Trangoni, con la collaborazione di Maria Grazia Allievi. Il progetto si articolò in tre fasi: nel 2011 la posa di una lapide in stazione di Udine, nel 2012 la produzione del docu-film “Cercando le parole” , nel 2013 con la pubblicazione del volume scritto da Rosanna Boratto e dalla sottoscritta che ha lo stesso titolo del progetto.
I fatti ricostruiti dall’intero progetto dimostrano che vi furono anche uomini a partecipare a questi episodi, ma che soprattutto le donne vi portarono quei comportamenti considerati propri della femminilità, come la cura e l’assistenza, che meritano oggi di essere ricordate per la dignità, l’umanità e la civiltà dei loro atti.
Foto Vidussi

Desidero rendere omaggio a due generazioni di donne: a quelle che furono protagoniste allora e a quelle che hanno contribuito al progetto e alla sua riuscita. Desidero ricordare Paola Schiratti citando le parole della introduzione del volume che raccoglie e commenta le interviste “Forse oggi le cittadine, i cittadini del nostro paese cercano fatti ed esperienze positivi cui riferirsi perché è necessario trovare un senso del convivere civile e morale in questa nostra Italia, un segno della direzione verso la quale rivolgersi. Queste donne hanno compiuto gesti politici nel senso della politica come costruzione del bene comune, come dedizione di sé per un bene collettivo, per rispondere alla barbarie della violenza dei regimi dittatoriali e della guerra con gesti di carità e solidarietà umana. Questi episodi di disubbidienza alle regole imposte dal fascismo alla popolazione civile sono un passaggio fondamentale, il segno che il paese aveva maturato il distacco dal regime e cercava un riscatto innanzitutto morale e sociale. Erano i comportamenti premonitori che anticiparono, poi accompagnarono e sostennero il movimento della Resistenza. Si erano poste le basi culturali, sociali e politiche che, concluso il secondo conflitto mondiale, hanno dato vita alla nostra Costituzione”.
Posa della corona d'alloro. Elio Varutti, Tiziana Corrado, Iris Bolzicco e Fernanda Revelant. Foto D&C, Udine

Dobbiamo ricordarcene ogni giorno perché i vuoti di memoria generano mostri che invece vanno contrastati con una nuova resistenza culturale come propone Lidia Menapace, con interventi capillari nelle scuole, con la difesa della Carta Costituzionale, memoria vivente della nostra Repubblica, ma soprattutto preparando una legge di iniziativa popolare che renda immediatamente agibile ciò che è scritto sul  divieto di ricostituire del partito fascista nelle disposizioni transitorie e finali della Costituzione.
Daniela Rosa, presidente di “le Donne resistenti”, Udine

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Servizio giornalistico e networking a cura di Girolamo Jacobson e E.V. Fotografie di D&C, E. Varutti e Germano Vidussi.
Foto di D&C


domenica 28 gennaio 2018

Ebrei a Udine sud, conferenza e trailer 2018

Il Giorno della Memoria nella sala parrocchiale di San Pio X a Udine si è svolto il 26 gennaio 2018 alle ore 20,30 con grande partecipazione di pubblico. L’attività è stata curata dal Gruppo culturale “Alfredo Orzan” della parrocchia stessa ed era inserita nel calendario ufficiale delle iniziative del Comune di Udine per ricordare la Shoah.
Federico Pirone, assessore alla Cultura del Comune di Udine nel suo intervento in sala parrocchiale di S. Pio X per il Giorno della Memoria, vicino a Daniela Rosa, Tiziana Menotti e Elio Varutti. Foto di Leoleo Lulu

Hanno collaborato alla buona riuscita dell’evento l’Associazione Insieme con Noi e il Gruppo Alpini di Udine sud. La sala parrocchiale, in Via Aurelio Mistruzzi, era affollata di oltre 70 partecipanti quando il dottor Guglielmo Coco, direttore del Consiglio pastorale di S. Pio X, ha aperto i lavori. “Sono qui a rappresentare don Paolo Scapin, parroco di San Pio X – ha detto Coco – che è assente per convalescenza e porta i suoi saluti a tutte le autorità presenti e alle associazioni che hanno reso possibile questo importante incontro che ci vede riuniti in chiave evangelica per essere vicino ai nostri fratelli maggiori”.
Poi ha avuto la parola Federico Pirone, assessore alla Cultura del Comune di Udine, che ha elogiato la parrocchia di S. Pio X per l’attività di ricerca sulla Shoah della zona iniziata nel 2016, sotto la guida di don Paolo Scapin. “Saluto con affetto don Scapin – ha detto Pirone – perché gli siamo molto vicini in questo momento e gli auguriamo un pronto ristabilimento, poi desidero affermare che la memoria è un patrimonio collettivo e le azioni dal basso come quella di stasera costituiscono un tessuto di vita civile e democratica”. L’assessore Pirone ha poi aggiunto che l’attività del Gruppo culturale “Alfredo Orzan” con le sue iniziative sulla tematica della Shoah sta “dando forza a tutta la città per recuperare l’ascolto, il rispetto e la tolleranza nei confronti degli altri”.

Marco Balestra, presidente dell’Associazione Nazionale Ex Deportati politici (ANED) di Udine, oltre a fare gli auguri a don Paolo Scapin, ha accennato al “Gruppo della Rosa Bianca che in Germania si è battuto per la libertà e contro il nazismo, mentre oggi stiamo vivendo un momento pericoloso con certi rigurgiti filo nazisti, come il concerto nazi-metal di Azzano Decimo, indetto proprio nel Giorno della Memoria, con grande offesa per gli ebrei”.
Ha poi preso la parola Tiziana Menotti, in nome del Gruppo “Orzan”, spiegando che i ricercatori della parrocchia di S. Pio X si sono dati quel nome nel novembre 2017 per ricordare il maestro Alfredo Orzan, definito dalla stampa locale come “il cantore di Baldasseria”, per la sua passione a raccogliere testimonianze sui piccoli fatti storici della realtà locale, che fu da lui raccontata inoltre sotto gli aspetti religiosi, naturalistici, ecologici, antropologici, linguistici e di vita sociale.
È intervenuta in seguito la professoressa Daniela Rosa, presidente dell’Associazione “le Donne resistenti” di Udine, spiegando il titolo della sua relazione che era: “Memoria storica versus nativi digitali: missione impossibile?”. In effetti il problema di fondo in simili commemorazioni è quello di coinvolgere i giovani, abituati a comunicare solo col telefono cellulare. La professoressa Rosa ha inoltre indicato in sala la presenza di due bambine del 1945 che diedero conforto e aiuto ai prigionieri dei tedeschi. Si tratta di Fernanda Revelant, novantenne di Udine sud, e di Iris Bolzicco, sedute in prima fila all’incontro, socie onorarie delle Donne resistenti.
Guglielmo Coco. Foto di Leoleo Lulu

È seguito il trailer, di una ventina di minuti, del documentario “Cercando le parole. La disubbidienza civile delle donne friulane di fronte all’8 settembre 1943” per la regia di Paolo Comuzzi e Andrea Trangoni, opera del 2013. L’ultimo intervento dello scrivente aveva per titolo: “I luoghi e i segni della Shoah a Udine sud”, basato sulle più recenti scoperte delle ricerche svolte in merito. Vedi in rete l’articolo nel blog “Shoah, ebrei di Fiume salvatisi in Friuli e il ruolo dei Mistruzzi”. Nel dibattito che è seguito è intervenuto l’ingegnere Sergio Satti, che ha voluto ringraziare gli organizzatori per aver fatto luce su una parte di storia minore sconosciuta.
Marco Balestra. Foto di Leoleo Lulu
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Servizio giornalistico e fotografico di Elio Varutti, se non altrimenti indicato per le fotografie. Ricerche e Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti. Si ringraziano per le fotografie: Leoleo Lulu e Germano Vidussi.
Foto di Leoleo Lulu

Sergio Satti. Foto di Leoleo Lulu

In prima fila, con Pirone e Balestra, Iris Bolzicco, cappotto chiaro e Fernanda Revelant, col basco bianco, le bambine del 1945

lunedì 22 gennaio 2018

Esodo istriano fiumano dalmata raccontato a Codroipo il 18.1.2018

In Friuli è ormai normale raccontare in pubblico i soprusi patiti per colpa dei titini in Istria negli anni Cinquanta. È accaduto questo fatto alla sera del 18 gennaio 2018 a Villa Manin di Passariano, in comune di Codroipo, provincia di Udine. Merito dell’iniziativa, che ha anticipato in regione il Giorno del Ricordo, è stato dello staff del Caffè letterario codroipese. L’Associazione, presieduta da Luisa Venuti, si è confermata come uno dei sodalizi culturali più attivi nel Medio Friuli, come ha scritto il «Messaggero Veneto» del 18 gennaio 2018, a p. 37.

L’incontro pubblico ha visto la partecipazione di oltre 120 persone di tutte le età. L’originale incontro è stato aperto da Edi Bazzaro, vice presidente del Caffè letterario codroipese. Faceva un certo effetto sentire i racconti su Umago, quando dopo il 1947 la situazione “peggiorava di giorno in giorno e la sparizione improvvisa di tante persone coinvolgeva tutti. Diversi umaghesi, provetti marinai fuggirono nelle notti di luna piena, tentando di superare le cinquanta miglia che li separavano da Venezia. Ad alcuni andò bene, di altri non giunsero più notizie. Qualche barca fu ritrovata al largo o fu ricondotta dalla marea in porto: lo scafo forato, crivellato di pallottole. Il mare pietoso restituiva anche molti cadaveri: le estremità, parzialmente divorate dai pesci, lasciavano intendere i segni delle corde che li avevano legati”. Questa esclusiva parte di testimonianza è di Raniero della famiglia di Ireneo (Rino) Latin, da Umago alle Villotte nel 1958.
È contenuta nell’interessante volume presentato al Caffè letterario di Codroipo. Scritto da due friulani, Nicoletta Ros e Luigino Vador, il libro del 2017 si intitola “Senza ritorno. L’esodo istriano-fiumano-dalmata” delle Edizioni Pontegobbo di Bobbio (PC).


Gli autori hanno raccolto con grande umanità e rispetto le testimonianze di 17 famiglie, quasi tutte di origine contadina, fuggite dall’Istria. Hanno dovuto lasciare le proprie case e le terre a causa delle vessazioni subite da esponenti titini negli anni Cinquanta del Novecento. Hanno voluto restare liberi e italiani. Ecco il loro obiettivo. L’accoglienza riservata nel resto dell’Italia non fu sempre delle migliori. Anzi venivano trattati con sospetto. Venivano accusati di essere fascisti, come hanno ricordato vari autori, come Simone Cristicchi. Altri italiani dicevano loro: “Andate via, che siete slavi e ci portate via il lavoro!” 
Sicuramente il libro cerca di scagionare gli esuli, se ce ne fosse bisogno, dalla pesante accusa di essere usurpatori di terre altrui. Già perché alle Villotte San Quirino, in provincia di Pordenone, dal 1957 vengono assegnati a 43 di loro dal governo un podere con qualche animale di allevamento. Altri assegnatari sono veneti (10) o friulani (3). C’era un contratto ben preciso dietro a tali assegnazioni, con patto di riscatto trentennale. Erano terre magre che pochi autoctoni volevano coltivare, per la scarsa resa agraria. Oggi sono interessanti vigneti e frutteti. Poi tutti loro, gli istriani, uscivano dalle condizioni inaudite dei Campi profughi, dalle baracche o vecchie caserme riattate sparse per tutta Italia. Molti di essi sono transitati per il Centro di smistamento profughi di Udine, che ne accolse oltre cento mila dal 1945 al 1960, quando chiuse i battenti.
Questo libro è un poema di dolore, per tutte le sue 228 pagine. Sono stati bravi gli autori. È da leggere pagina per pagina, per capire fino dove arrivasse la cattiveria e la violenza di chi imponeva la fuga ai propri conterranei, ai vicini di casa, solo per idee politiche diverse. Oltre a un breve filmato sulle fattorie così come sono oggi e a un po’ di musica istriana, gli autori hanno provveduto a leggere alcuni brani del volume, coadiuvati da Chiara Sartori.
Al microfono Edi Bazzaro, vice presidente del Caffè letterario di Codroipo, Chiara Sartori e Luigino Vador

Prosegue così il racconto di Raniero della famiglia di Ireneo (Rino) Latin: “Il 16 aprile 1950 fu stabilito il giorno del libero voto nella Zona B. Libero! Era in realtà una beffa: appena l’elettore aveva votato e girava la schiena, ritiravano la scheda dall’urna e la controllavano. Noi conoscevamo bene l’intenzione di papà: “La deporrò bianca” aveva detto il giorno prima delle votazioni. Pagò cara la sua disobbedienza al regime. Un gruppo di malnati irruppe in casa nostra la sera successiva: lo presero di peso, lo buttarono giù per i gradini che dalla cucina portavano al cortile e là lo pestarono a sangue usando pali di legno, divelti dalle sponde del carro. Rimase accartocciato sulla polvere infine, i polsi rotti, la testa tumefatta, il corpo martoriato che non dava più segni di vita”.
Oltre alle eliminazioni degli italiani nelle foibe, i titini usavano anche l’annegamento. Ecco ciò che hanno riferito Rodolfo e Olimpia Giugovaz da Butturi di Buie, alle Villotte nel 1957, riguardo al cugino sparito, perché non si assoggettava al potere titino: “Dopo un mese, il nonno scoprì il suo corpo dondolarsi sulle onde calme. Era tornato a galla: i pesci avevano strappato i suoi pantaloni riempiti di pietre e legati alle caviglie per trattenerle, prima di scivolare e lasciarsi annegare, o forse… fu fatto annegare nel suo mare, davanti alla collina”.
Gli autori una decina d’anni fa pubblicarono una prima versione di questi scabrosi racconti istriani, per l’Amministrazione comunale di San Quirino, col titolo “Opzione: Italiani!”. Si legge nel web che: “L’opera Opzione: Italiani!, tratta l’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata. Dopo il riconoscimento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, raccoglie altri 16 importanti premi in tutta Italia” (Vedi «Il Ponte» del 3 settembre 2013).
Luigino Vador, scrittore

Lo stesso Luigino Vador ha dichiarato al pubblico del Ristorante “Il Doge”, dove si tiene il Caffè letterario che “Erano trent’anni che abitavo lì e non sapevo nulla di loro, degli istriani”. Gli autori hanno presentato la prima edizione in varie città d’Italia e in diverse scuole, dove alcuni docenti hanno adottato il volume tra i testi consigliati.
Ha poi parlato Gianni Giugovaz, sindaco di San Quirino, oltre che discendete di esuli istriani. “Sono storie semplici che ci fanno commuovere – ha detto in un silenzio da tagliare a fette – io con la mia famiglia ho passato due anni al Campo profughi di Sistiana e in quello di Opicina, con baracche per trenta persone, tutte insieme, poi siamo venuti alle Villotte, zona magra, sassosa e senza irrigazione. Ci vedevano come stranieri a conquistare le terre e allora dico che è giusto raccontare questi fatti perché sono poche le persone che sanno. Ci sentiamo due volte italiani, la prima per nascita e la seconda per scelta, ricordatevelo”.
È intervenuto in seguito pure Eugenio Latin, presidente del Circolo delle Villotte. “Nella mia famiglia, che viene da Umago, si raccontava di parenti uccisi nelle foibe, ma non potevano dire queste cose. Gli uomini politici di allora dicevano che era meglio che non si sapesse”.
Verso la fine degli interventi ha parlato Tiziana Cividini, assessore alla Cultura del Comune di Codroipo. “Ho apprezzato – ha detto l’assessore – il modo pacato e sereno di riportare questi fatti che sono verità sull’esodo istriano e poi ho sentito un grande senso di responsabilità nelle parole del sindaco di San Quirino quando ha affermato di sentirsi due volte italiano, per nascita e per scelta. Questi sono passi di storia importantissimi da trasmettere nelle scuole”.
Poi ha chiesto la parola Bruna Zuccolin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato provinciale di Udine. “Questo è proprio un bel libro – ha detto Zuccolin, che ha parenti di Pirano – vi faccio i miei complimenti e ci piacerebbe come ANVGD trovare dei momenti di collaborazione con voi, per parlare dell’esodo giuliano dalmata, con queste testimonianze, così incisive”.
In seguito ha parlato un’altra esule che vive al Dandolo di Maniago, altra zona per i profughi giuliano dalmati. “Io sono passata dal Campo profughi di Fossoli e a quello di Tortona, prima di arrivare qui in Friuli”. Un’altra zona di insediamento di profughi si trova alle Forcate di Roveredo in Piano, sempre in provincia di Pordenone e, infine, a Fossalon di Grado, in provincia di Gorizia.

Ha voluto portare il suo messaggio di esule da Pola pure Sergio Satti, per decenni vice presidente dell’ANVGd di Udine al fianco del compianto presidente Silvio Cattalini, esule da Zara. “Mi ricordo che a Pola – ha detto l’ingegnere Satti – noi ragazzi si portava una coccarda tricolore sulla giacca e i titini i me gà dito: o te la tiri via o te pestemo a sangue; ecco come era la situazione nel 1947”. Alla fine dell’incontro ha parlato Graziano Ganzit, assessore alle Attività produttive e politiche comunitarie del Comune di Codroipo, per accennare al fatto che pure le nuove generazioni croate di oggi sanno poco o niente dell’esodo giuliano dalmata. “L’ho provato di persona nel 2004 – ha detto – con una interprete giovane che si è dimostrata molto interessata a ciò che le ho potuto raccontare sul dopoguerra in Istria e Dalmazia”.

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Il volume di Nicoletta Ros e Luigino Vador si apre col saluto di Gianni Giugovaz, sindaco di San Quirino. Di seguito troviamo una nota di Sergio Bolzonello, vicepresidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Anche Eugenio Latin dedica alcune righe alla pubblicazione nella sua veste di presidente del Circolo ricreativo delle Villotte San Quirino. Poi ci sono due pagine per una spiegazione geografica sul luogo di arrivo e su quello di partenza degli istriani esuli nel Pordenonese. Una breve storia delle Villotte è tratta dai documenti ufficiali, tipo quelli del Commissariato Regionale per la Liquidazione degli Usi Civici, con sede a Venezia.
Dopo una poesia di Nicoletta Ros, trova spazio una sentita Prefazione del professor Guido Porro, che tanto fece alle giovani generazioni di Pordenone per spiegare i fatti dell’esodo giuliano dalmata. Prima delle testimonianze di diciassette famiglie di esuli si può leggere una breve Introduzione degli autori. Nel libro c’è la carta geografica dell’Istria dopo il Trattato di pace del 1947, con la creazione del Territorio Libero di Trieste, diviso in due zone. La Zona A sotto controllo angloamericano, mentre la Zona B aveva i carri armati slavi. Il libro non ha altre immagini, se non se non quella classica dell’esodo istriano col carretto e la bandiera tricolore. Il testo è scorrevole e tutto in lingua italiana. Viene in mente Caterina Percoto, quando riguardo alle violenze della Restaurazione austro-ungarica delle truppe croate in Friuli del 1848, scrisse un reportage non molto noto in letteratura col titolo, se non erro: “Non una parola oltre il vero”. 

Molte fotografie messe a disposizione degli autori durante le ricerche con le famiglie degli esuli sono state utilizzate per creare una originale mostra fotografica su pannelli, che ha girato in varie parti d’Italia, “perché bisogna raccontare queste cose e la gente deve sapere”.
Cari armati titini transitano a Fiume nel 1945
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Servizio giornalistico e di fotografia di Elio Varutti. Ricerche e networking di Gabriele Anelli Monti. 

mercoledì 10 gennaio 2018

Shoah, ebrei di Fiume salvatisi in Friuli e il ruolo dei Mistruzzi

Dal 1943 i deportati ebrei e i militari italiani imprigionati nei vagoni merci dai tedeschi lanciavano dei foglietti di carta con i loro dati da inviare ai parenti. Ciò poteva accadere solo incontrando persone di buona volontà che assistevano alla deportazione nella stazione ferroviaria di partenza o in quelle di transito, come in quella di Udine o di altri luoghi del Friuli. Talvolta ha collaborato pure la CRI di Udine. Donne e bambine raccoglievano i biglietti e scrivevano alle famiglie per dare loro notizie.
Vostro figlio Pietro Guerra è transitato per Udine diretto in Germania. Comincia così questo bigliettino trascritto da mani gentili a Udine il 14 ottobre 1943. Reca anche il timbro della Croce Rossa Italiana, Comitato Provinciale di Udine, segno che detto ente si occupava di tali comunicazioni. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.

Il saggio presente si allaccia ad uno precedente, opera dello scrivente, col titolo “Ebrei a Udine sud e dintorni, 1939-1948. Deportazione in Germania e rientri”, on-line dal giorno 11 novembre 2016, con aggiornamenti del 2017. L’idea di tale indagine è nata nell’estate del 2016, nella parrocchia di San Pio X, che fa parte di Udine sud. Il gruppo di ricerca è formato dalla studiosa Tiziana Menotti, dall’architetto Giorgio Ganis, dal parroco don Paolo Scapin e dallo scrivente. Il progetto prevede incontri pubblici sul tema della Shoah da effettuarsi nel Giorno della Memoria oltre alla visita sui luoghi dell’Olocausto a Udine sud. Si è scoperto che nella stazione e nell’area dello scalo ferroviario di Via Buttrio sostarono i vagoni bestiame carichi di ebrei, per lo più italiani e ashkenaziti, oltre ad altri prigionieri dei nazisti.
C’è un luogo citato dalla crocerossina Rina Bernardinis nel suo romanzo intitolato Nel mio autunno ricordo, dove erano fermi i vagoni colmi di prigionieri. È proprio a Udine sud, nell’area dello scalo ferroviario, tra Via Buttrio, Via Pradamano e Via Monfalcone. Lì, nella zona di Baldasseria, stazionarono i treni merci provenienti dalla Risiera di San Sabba o dal Carcere triestino del Coroneo, per il trasporto di ebrei e di altri reclusi dei nazisti.
Desidero avvalermi di alcune testimonianze per ricordare quel periodo. La signora Paola De Wrachien, di Udine, ha raccontato: “Ero anche io tra quelle bambine che in stazione a Udine cercavano di dare un po’ di pane, di acqua e cibo ai deportati dei tedeschi”. Poi, signora, ricorda qualcosa d’altro? “Mi ricordo che i treni erano fermi all’altezza del Dopolavoro ferroviario, in Via Cernaia 2 – ha aggiunto la De Wrachien – e penso che c’erano tante persone, non so se parenti o semplici udinesi, che davano delle cose per aiutare i prigionieri, compresi gli ebrei e prendevano i biglietti lanciati dai vagoni”. Lei è andata da bambina solo in stazione nel 1944-1945, oppure anche su altri binari? “No, non solo in stazione, perché poi i tedeschi hanno spostato quei vagoni merci carichi di gente proprio verso Baldasseria – ha concluso la signora De Wrachien – dato che in stazione c’era troppa confusione, ricordo tanti bigliettini gettati dai deportati e raccolti da noi bambini, che poi le donne grandi li utilizzavano per scrivere qualche informazione alle famiglie di quei poveretti”. Ho già proposto in un mio saggio nel web, nel 2016-2017, la dichiarazione della signora De Wrachien, ma mi pareva importante il suo ricordo in riferimento alla zona di interesse: Udine sud.
Giovanna Roiatti ha raccontato nel 2018 che sua mamma di nome “Annamaria Rojatti aveva quattordici anni nel 1945 e ha presente ancor oggi di essere andata con una zia a dar da mangiare a quelli dentro ai vagoni e si ricorda di un intero vagone in transito pieno di patate rubato in pochi minuti, furto compiuto da alcune donne del quartiere ai tedeschi, mia mamma abitava al tempo in via Magenta, proprio dietro la stazione. Se ne andò con il grembiule pieno di patate. Si ricorda dei bombardamenti a Udine che la fecero sfollare a Laipacco da parenti; erano tempi così”.
Si riporta un altro racconto sull’aiuto dato ai prigionieri stipati nei carri bestiame. “Mia mamma era una ragazzina che abitava in Via Napoli, a Udine – ha comunicato Fabio Galimberti, di Martignacco – diverse volte ha portato, a suo rischio, di nascosto delle patate che tirava contro le piccole finestrelle dei vagoni. E molte volte ha raccolto i bigliettini che cadevano da queste aperture per portarli a un sacerdote. Si ricorda ancora bene quegli avvenimenti alla stazione di Udine”.
Si è saputo che i treni dei trasporti di ebrei e altri deportati sostavano anche allo Scalo Sacca in via delle Ferriere, sempre nella zona di Udine sud, citato da Claudio Calligaris nella sua testimonianza del 2017, già pubblicata nel web.
La Cjase dai Palestinês. È l’edificio al centro, con antenna parabolica sul terrazzo, veniva detto “La Casa dei Palestinesi” dalla gente di Feletto Umberto, in via dei Martiri, 88. Qui, nel 1945 alloggiavano sia i militi della Brigata ebraica, che gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio in procinto di emigrare per Israele. Foto del 2018.

Agli incontri pubblici del 26 e del 28 gennaio 2018, organizzati dal Gruppo culturale “Alfredo Orzan”, della Parrocchia di San Pio X, a Udine erano presenti anche due ragazze del 1945, che recarono aiuto ai deportati di allora nelle stazioni di Udine e di Artegna. Si tratta della parrocchiana di San Pio X Fernanda Revelant, 90 anni, e Iris Bolzicco. Hanno raccontato che raccoglievano i biglietti dei deportati, per scrivere alle loro famiglie sul loro passaggio a Udine, diretti in Germania e davano loro un po’ di acqua, un po’ di cibo, un abito pulito, rischiando perché le sentinelle tedesche colpivano col calcio del fucile.
Nella periferia udinese, nel Comune di Tavagnacco, a Feletto Umberto, a guerra conclusa secondo un’altra fonte orale già menzionata nel 2016-2017, “c’erano degli ebrei che noi di Feletto chiamavamo i Palestinesi”. È Giannino Angeli che racconta e prosegue così: “Stavano nella casa dove nel 1953 andò ad abitare la mia famiglia, in Via dei Martiri 88”. La strada è stata così intitolata, perché i nazisti in fuga, il 30 aprile 1945, qui trucidarono tre componenti della famiglia di Ovidio Feruglio, come si nota dalla lapide apposta e come ha scritto Giannino Angeli nel 1994, alle pagine 24 e 103.
Nel 1945-1947 tale abitazione era affittata ad una famiglia siciliana e “ai piani superiori furono alloggiati questi ebrei, detti Palestinesi, erano in divisa militare inglese, ma non so se fossero della Brigata Ebraica, inquadrata nell’Ottava Armata britannica, che pattugliò Tarvisio nel 1945, mi ricordo di non averli mai visti in paese con le armi, non so se fossero ebrei salvati dai campi di detenzione italiani perché, a differenza dei soldati britannici, sempre impeccabili, loro, i Palestinesi erano, come dire, male in arnese, un po’ emaciati. Si fermarono a Feletto per alcuni mesi, fino a tutto il 1945, poi non sono stati più visti in giro”.
A questo punto si precisa che il Cimitero militare angloamericano di Udine si trova, più precisamente a Adegliacco, in comune di Tavagnacco, proprio vicino alla Cjase dai Palestinês (Casa dei Palestinesi).
La Brigata Ebraica, passata per Udine e Tarvisio, opera in Austria alla fine del conflitto. Agisce in tutta la Carinzia, dal Tirolo orientale (Lienz) a Vienna, anche con gruppi autonomi dell’Operazione Nakam (vendetta), come ha scritto Marina Gersony, nel 2015. Erano dei veri e propri cacciatori di criminali  nazisti. La cittadina di Tarvisio, in provincia di Udine, ad un certo punto diventa un luogo di transito di migliaia di ebrei che fuggivano da ogni angolo d’Europa, per raggiungere il Mediterraneo e poi la Palestina, secondo i documenti dal 1946 in poi dell’Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura di Udine, Categoria A 12, Stranieri, b 1.
Lapide posta nel 1975 a Feletto Umberto in Via dei Martiri, in ricordo della strage della famiglia di Ovidio Feruglio; tre persone fucilate dai nazisti in fuga. Foto del 2018.

Guerra e dopo guerra tra ebrei sopravvissuti e esuli giuliano dalmati
“Come faccio a sentirmi un profugo se la mia famiglia mi portò via che ero bambino e non ho alcun ricordo di Fiume”. Ha esordito così la testimonianza del pittore e scultore Michele Piva, che ho già citato nel 2015 in un libro con più autori. Il suo, forse, fu un esodo vissuto di riflesso. Sicuramente un riflesso è il senso di sradicamento che si portano dentro molti esuli giuliano dalmati fuggiti dalle pressioni titine del dopo guerra, come mi ha raccontato Annalisa Vucusa. Era nato nel 1931 a Fiume Michele Piva, allora Regno d’Italia. Studiò poi a Roma, Milano e Venezia. La sua espressione artistica è sempre stata indirizzata a forme di impegno civile, come per chi ha subito determinati fatti storici quali la Shoah. Fu così nella rassegna intitolata “Lager” in esposizione ad Aquileia nel 1970 e poi a Udine, in sala Aiace. La mostra girò in varie parti d’Italia e a Zurigo, in Svizzera, per essere riproposta, con aggiornamenti, nel Giorno della Memoria il 27 gennaio 2013 a Udine, in Palazzo Morpurgo, con un rilevante successo.
Si sa che c’erano ebrei a Zara e a Spalato, che cercavano di salvarsi dalle leggi razziali del 1938. Alcuni di loro si mescolarono ai profughi “Molti esuli giuliano dalmati hanno preferito il silenzio e hanno anche scelto di non tornare mai più a rivedere le terre perdute – ha aggiunto la Vucusa – mi si permetta un riferimento personale: mio zio Severino non rimise più piede a Zara e non penso neppure Gisella, la mamma del nostro Silvano, alias di Silvio Cattalini, presidente del Comitato di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) fino al 2017. Mio padre, Riccardo Vucusa, invece volle tornare nella sua città, appena possibile, nel 1960. Io avevo 11 anni. Allora ricordo intensamente la pesantezza e la paura nel passare il confine della Cortina di ferro: i ”graniciari” consultarono un libro. Erano le guardie confinarie serbe. Papà diceva il libro nero. Essi volevano vedere se mio padre era compromesso in qualche modo. Quando arrivammo a Zara, dopo aver percorso la strada costiera in un lungo viaggio di 6-7 ore, vidi mio padre piangere: Zara non era più lei”.
Depliant degli eventi per il Giorno della Memoria 2018, per l'organizzazione del Gruppo culturale "Alfredo Orzan" della Parrocchia di San Pio X, Udine

Quanti sono gli ebrei di Fiume confinati dai nazisti verso i lager? Da Fiume vennero deportati dai tedeschi 258 ebrei, secondo quanto ha scritto Walzl nel 1987. Dai campi di concentramento ritornarono vivi in 22. La città portuale del Quarnaro, nel 1931, contava 53.896 abitanti e gli ebrei nel 1903 erano oltre 2.600.
I dati di Walzl sugli internati da Fiume, secondo Curci, vanno aggiornati così: gli ebrei residenti nel 1940, secondo la prefettura, erano 1.105. Quelli rastrellati e deportati dai tedeschi ammontano a 243 persone, delle quali solo 19 sopravvissero (p. 120). Si aggiunga che il monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981, è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Golfo del Quarnaro. Come a dire che i dati degli storici non sempre coincidono, ma siamo sull’ordine di 240-275 ebrei fiumani imprigionati e deportati nei campi di sterminio.
Il 28 giugno 1945 il giornale «Libertà» di Udine, in prima pagina, pubblica la notizia della liberazione di 374 bambini ebrei di varie nazionalità nel Campo di concentramento di Buchenwald. Portati a Basilea, restarono essi in attesa di una destinazione permanente. Anche Basilea, in Svizzera ai confini con la Germania e l’Alsazia (vicino alle città di Colmar e Strasburgo), è dunque un punto di accoglienza degli scampati alla ShoahAltri 800 ragazzi superstiti della Shoah sono salvati dal militare ebreo palestinese Moshe Zeiri. Egli, appartenente al Genio britannico, al termine della campagna d’Italia dalla Puglia fino al Nord, li riunisce a Selvino, in provincia di Bergamo, per preparare l’emigrazione nel nascente Stato d’Israele. Ciò secondo il racconto di Sergio Luzzatto nel libro intitolato “I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele”, Einaudi, Torino, commentato da Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera» del 16 gennaio 2018.
Cartolina di Sussa (Sussak), area portuale jugoslava confinante con la Fiume italiana; Sussak viene annessa all'Italia dal 1941-1943. Immagine da Internet.

Le testimonianze sugli ebrei di Fiume
Una fonte di ricordi fiumani sulla convivenza interreligiosa nella località del Quarnaro ha riportato i seguenti fatti. È la signora Fabiola Laura Modesto Paulon, nata a Fiume nel 1928 ed esule a Udine, che ha fornito una testimonianza interessante su detto tema.
“Fiume era una città ricca, multietnica e tollerante fino all’inizio della seconda guerra mondiale – ha detto Fabiola Modesto – pensi che l’80 per cento dei commercianti era di religione ebraica, le mie compagne di scuola erano cattoliche, turche, ebree e protestanti, ma la nostra educazione si basava sulla convivenza e il rispetto reciproco. Fiume era una città europea e d’estate durante le vacanze per fare i bagni andavamo in vaporetto a Laurana, Abbazia, dove la famiglia affittava un appartamento”.
Non è l’unica persona che ricordi la pacifica convivenza con compagni di scuola di altre fedi religiose, come risulta dal racconto di Miranda Brussich, nata a Pola e vissuta a Fiume. “Gò fato le scole elementari a Pola fin in classe terza – ha detto la signora Miranda – dopo per la classe quarta iero a Fiume, col fredo del 1929 e iero ospite de Zia Tina Zanetti e Zio Miko Dokmanovic, che iera rapresentante de una fabrica de aceto e gaveva negozio de commestibili. Dunque a Fiume iera ragazze ebree mie compagne de classe che all’ora de religion le andava via. Mi andavo d’acordo con tutte lori. Iera la maestra Elisabetta Lazarus, che de famiglia i gaeva cantieri navali a Sussak, in territorio slavo. Iera una bona maestra con tutte noi. Mia mamma Giovanna Elisa Zanetti me diseva che la maestra gà sempre ragion! Me ricordo che alla scola comerciale iera una Lilli Hand ebrea, dopo iera la Vigevano e la Sinigaglia. Fiume era una città aperta, più de Pola alle altre religioni. Gavevo 12 o 13 anni e gavevo per amiche queste ragazze ebree o altre protestanti”.
Ricorda altre vicende di ebrei di Fiume o di Pola? “Il laboratorio di sartoria delle sorelle Zanetti di Pola, attivo anche a Fiume – ha aggiunto la signora Brussich – aveva tra i suoi clienti la moglie del dottor Marcello Labor, di Pola che iera ebreo. Sua moglie iera invalida e stava in carrozzella. Gaveva due fioi: Livio e Giuliana. Lori xe stadi convertidi col contributo del vescovo Monsignor Antonio Santin, diventado dopo, nel 1938, vescovo di Trieste e Capodistria. Più tardi il medico Labor, diventado vedovo, el se gà fato prete e el fio politico e sindacalista cattolico”.
Biglietto scritto il 9 settembre 1943 da un certo Gigi da Zone (località sia di Brescia che di Lucca) “Prima di partire per ignota destinazione”. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.

Dalle ricerche di Silvia Cuttin effettuate nell’Archivio Storico di Fiume, riprendo una parte dell’elenco degli ebrei di Fiume schedati dalle autorità fasciste nel novembre 1943 con indicazione delle loro proprietà personali. Ad esse, infatti, erano molto interessati i nazisti, perché le volevano sequestrare, per rivenderle, trasformandole in soldi e oro. La piccola lista che si ricopia va da numero 25 al numero 28. Spiegazioni dell’autore in parentesi riquadrate. Vedi nel web: Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato, Documenti storici, 2012.
“25) Engel Adalberto di Massimiliano, nato a Beckescaba [Békéscsaba è una città che si trova nel Sud-est dell'Ungheria] il 26.1.1897. Internato a Campagna [provincia di Salerno] il 13 luglio 1940 prosciolto il 17.4.43 e avviato a S. Benedetto del Tronto [Ascoli Piceno].
26) Epstein Felice, di Leopoldo n. a Brno il 17.1.1895, già qui abitante in Viale Grossich 5. Allontanatosi da qui, orsono 5 anni per ignota destinazione. Non consta che qui abbia lasciato beni di sorta.
27) Fischer Alessandro fu Maurizio, nato a Cappella il 30.5.1873. trasferitosi a Sussa [grafia italiana per: Sussak, in territorio croato fino all’invasione e annessione italiana, 1941-1943] da circa tre anni. Non consta che qui abbia beni di sorta.
28) Fischer Ottone. Trasferitosi da circa tre anni a Sussa. Non consta che qui abbia lasciato beni di sorta.”

Con la promulgazione delle Leggi Razziali del 1938 gli ebrei di Fiume perdono il lavoro e gli studenti non devono più frequentare le scuole “ariane”. Rodolfo Decleva descrive in un suo libro la scomparsa di un suo compagno di scuola. Vedi: Qualsiasi sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia. “Il compagno di classe Czelch sparì dal suo banco per qualche nuova residenza segreta – riporta Decleva – nessun commento da parte della nostra Signorina Maestra, probabilmente in osservanza delle disposizioni superiori, malgrado che nella nostra città da sempre ci fosse stata una numerosa colonia di ebrei con la quale si conviveva a prescindere dai sentimenti religiosi. Immagino che analogo silenzio avvenne anche nel 1924 quando la città venne annessa all’Italia e tanti ungheresi e croati preferirono l’esilio alla nostra Amministrazione”.
Fiume - Lo scolaro ebreo Czelch è il primo seduto a sinistra. Dal libro "Qualsiasi sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia” Genova, s.e., 2014 di Rodolfo Decleva. La classe è la Terza Elementare della scuola "Daniele Manin". Seduto sulla panca al centro, con il fiocco, è Rodolfo Decleva

Un ebreo particolare: Marcello Loewy
Marcello Labor, nato a Trieste l’8 luglio 1890  e deceduto il 29 settembre 1954, fu medico, marito esemplare e padre di famiglia. Come ha scritto Gianpiero Pettiti, nel web, Marcello Labor, nato Marcello Loewy, nella parte finale della sua vita rimase vedovo e fu ordinato sacerdote. Divenne rettore del Seminario diocesano e parroco della Cattedrale di San Giusto a Trieste. È stato dichiarato Venerabile con decreto pontificio del 5 giugno 2015. Ciò in base al sito web “Venerabile Marcello Labor Sacerdote”.
Figlio di un ricco banchiere ebraico di origine ungherese e di una donna triestina, egli è un mix di agiatezza, cosmopolitismo e vivacità culturale, abbinato a radici ebraiche mai smentite, perché, diceva: “resterò sempre ebreo”. 
La sua vocazione letteraria, destinata ad accompagnarlo per tutta la vita, è coltivata al liceo triestino e in un gruppo di compagni. Tra i tanti basta citare Scipio Slataper e Giani Stuparich. Egli cambia il suo cognome originario, Loewy, con  quello di Labor, per affermare la sua italianità, in un ambiente di chiara impronta filogermanica. Sposa ad inizio 1912 con rito ebraico Elsa Reiss e poi la prima guerra mondiale lo porta a Lubiana, dove a fine 1914 riceve il battesimo insieme alla moglie, per un voto che questa ha fatto alla Madonna: forse la preparazione è un po’ affrettata, sicuramente la conversione è più conseguenza del voto che frutto di convinzione.
Nel dopo guerra Labor si guadagna la fama di medico dei poveri, che a Pola cura gratuitamente e con dedizione, in coerenza con le idee socialiste, per le quali dimostra aperta simpatia. Questi sono però anche gli anni del suo arricchimento culturale e scientifico, con le sue appassionate ricerche per la cura della tubercolosi e in campo geriatrico.
Nel 1929 la svolta, con la graduale riscoperta insieme alla moglie della fede che hanno ricevuto in dono, con il suo entusiasmo nell’apostolato attivo dell’Azione Cattolica e con la sua appassionata adesione all’impegno caritativo della San Vincenzo. Di pari passo inizia il calvario della moglie, culminato nell’amputazione di una gamba, nel quale l’uomo di scienza sperimenta i limiti della medicina, non sempre in grado di ridonare sanità e speranza di vita.
Ordinato sacerdote, nel 1940 comincia col dirigere il seminario di Capodistria, da cui, dopo l’8 settembre 1943, lo strappano le leggi razziali: in quanto ebreo va in esilio a Fossalta di Portogruaro, in provincia di Venezia. Va a fare il cappellano comune, incantando tutti con la sua semplice amabilità. Ritorna a Capodistria a guerra terminata, riprendendo il posto che aveva lasciato due anni prima, ma la sua franchezza nel predicare lo pone subito in antitesi con gli uomini di Tito: arrestato il 13 agosto 1947, processato, condannato ad un anno di reclusione, viene poi rilasciato il 30 dicembre dello stesso anno. Il vescovo gli affida la direzione spirituale dei seminaristi a Gorizia, poi lo manda parroco della cattedrale triestina di San Giusto.
Basilea, rosone con stella di David ripreso dal chiostro della cattedrale, 2018. Si ricorda che Basilea, dal mese di giugno 1945 è uno snodo per il trasporto di centinaia di minorenni ebrei sopravvissuti ai Campi di sterminio, come quello di Buchenwald.

Altre interviste da Fiume
Presento ora al lettore un racconto di Aldo Tardivelli, nato a Fiume nel 1925 ed esule a Genova. Ho già comunicato questa testimonianza nel web, ma la riprendo poiché è assai significativa. Scritto nel 2006, il testo originale si basa anche sui ricordi di sua moglie, Graziella Superina, deceduta nel 2011. “La comunità ebraica fiumana – ha scritto Aldo Tardivelli – diventata da secoli ormai parte integrante della cittadinanza poteva abitare in ogni luogo. Si dedicarono al commercio, all’artigianato, aprirono negozi d’abbigliamento, mobilio, tappeti e articoli per l’arredamento della casa. Sono stati i primi commercianti che hanno agevolato i cittadini ad acquistare ratealmente le merci, con un contratto basato sulla reciproca fiducia”.
Il ricordo di Graziella Superina in Tardivelli inizia così: “Avevo tante amiche ebree che frequentavano la stessa classe della scuola elementare Dante Alighieri. Una fra queste, Elena, compagna di banco e di giochi. Il più delle volte, durante la sosta delle lezioni nell’ora della ricreazione mi offriva una parte della sua merenda, che era un po’ più sostanziosa della mia. Le lezioni in classe procedevano regolarmente fino l’ora della religione cattolica, quando la mia (povera) amica doveva uscire dalla classe e attendere, in solitudine, nel corridoio la fine della lezione”.
Passiamo ad ascoltare un’altra fonte orale. “A Fiume alcune compagne di classe di mia sorella Adriana erano ebree – ha raccontato Egle Tomissich il 5 dicembre 2017 – loro durante la seconda guerra mondiale si rifugiarono in certi paesi del Friuli, scampando alle retate naziste”.
E poi cosa successe? “Dopo la guerra ritornarono a Fiume, fino al 1948 – spiega la signora Tomissich – ma i nuovi governanti non vogliono gli ebrei, perché li ritengono grandi capitalisti, ma erano solo negozianti, così so che loro sono emigrati in Israele”.
Ricorda qualcosa d’altro, signora Tomissich? “So che un ebreo di Fiume si salvò dai tedeschi, perché fu ospite in un convento friulano – aggiunge la testimone – mi ricordo questi nomi di persone che si erano nascoste: Magda ebrea, penso Berger di cognome, ela xe tornada a Fiume”. In effetti nell’elenco degli allievi diplomati nel 1948 al Liceo scientifico di Fiume di Via Giovanni De Ciotta, oggi Via Erazm Barčić 6, compaiono sia Adriana Tomissich che Magda Berger. Vedi il sito web della “Srednja talijanska škola Rijeka – Scuola media superiore italiana di Fiume”.
“Dopo iera Friedrick Vortmann e un certo Sacks – ha continuato la Tomissich – me ricordo ben de un de lori perché, nel 1948, me gà passado la scarlattina”. Mi può dire altri nomi di ebrei di Fiume che si può ricordare? “Me ricordo l’ebreo Weisz che aveva a Fiume un negozio di fiori – ha concluso la signora – e anche iera Moravetz, ebrei con negozio di cioccolata, articoli da regalo, eh, là c’era roba di lusso”.
Michele Piva, Menorah, dalla mostra “Lager”, Udine, 2013

La conferma delle pressioni fino all’espulsione o dell’eliminazione a Fiume dei commercianti facoltosi da parte dei titini, in quanto “capitalisti e nemici di classe” viene dall’autore di un memoriale sui fatti di quel tempo di nome Iti Mini. Fossero essi ebrei o non ebrei, secondo la teoria titina, bisognava togliere di mezzo quei ricchi bottegai, soprattutto perché erano italiani.
“Sono nato a Fiume il 19 agosto 1921. – ha scritto Iti Mini – Vivevo con i miei e con mio nonno materno che, dopo la morte della nonna aveva abbandonato l’attività di un negozio di abiti con sartoria annessa. A casa mia si parlava soltanto dialetto fiumano”. Scoppiata la seconda guerra mondiale, Iti Mini è candidato per l’esame all’Accademia di Livorno ed ammesso al corso di “Armi navali gruppo T (siluri, torpedini e bombe di profondità)”. Alla fine del corso è inviato all’Arsenale di Taranto, quale appartenente a un corpo tecnico e nel 1943 vede arrendersi la flotta italiana di Badoglio e arrivare quella degli angloamericani.
“A metà maggio 1945, dopo due mesi passati solo a seguire qualche lezione, partii [da Taranto] con mezzi di fortuna, cioè treni e camion verso Padova per cui potei finalmente rivedere i miei che mi sconsigliarono caldamente di tornare a Fiume occupata dai titini (…). Conobbi a Padova le novità di Fiume occupata dalle bande di Tito interessate alla pulizia etnica. Furono per primi uccisi tutti gli anti-Dannunziani e antifascisti – fautori di ‘Fiume città libera’ come sotto l’Ungheria – (perché politicamente i più pericolosi), per secondi i fascisti e i capi che non erano riusciti a fuggire. Venne poi la sorte dei più ricchi o considerati tali, uccisi o imprigionati”. Tra di loro molti erano ebrei rientrati a Fiume dalla fine del conflitto.
Una certa signora Ida Occelli scrive il 23 settembre 1943 di aver “visto partire vostro figlio da Tarvisio per la Germania…”. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.

Sui commercianti Moravetz di Fiume
Riguardo ai commercianti di fiori Weisz, citati dalla signora Egle Tomissich, non si sono trovate notizie precise, se non quelle di numerose famiglie con quel cognome impegnate in vari rami del commercio nel Golfo del Quarnaro, ma non nel comparto della rivendita floreale.
Si sono trovate, invece, nel web alcune collimazioni con le affermazioni di Egle Tomissich riguardo ai negozianti Moravetz e alla fuga degli ebrei di Fiume in Friuli negli anni 1930-1944 per salvarsi dalla prigionia tedesca, come emerge dal saggio di Federico Falk su “Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali”. Vedi il sito web: Federico  Falk (a cura di),  Ebrei a Fiume e Abbazia”. 
La famiglia Moravetz è a Fiume dal 1893 – descrive Falk – in Corso Vittorio Emanuele III al civico numero 14. Il capofamiglia è Carlo fu Giuseppe e fu Caterina Stedri, nato a Rataje (Serbia, poi Jugoslavia) il 13 agosto 1859. In effetti egli era commerciante al minuto di generi alimentari e titolare del negozio di delicatezze in corso Vittorio Emanuele III, come ricordato da Egle Tomissich. Carlo Moravetz ha cittadinanza cecoslovacca. Il cognome originario in grafia cecoslovacca era: “Moravec”. Risulta coniugato con Filippina Schmolka fu Carlo e fu Elisabetta, nata a Iglau (Impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia) il 28 marzo 1873, casalinga. A Fiume dal 16 marzo 1896. Carlo e Filippina Moravetz ebbero due figli: Emilio e Ada.
I coniugi e negozianti Moravetz – spiega Falk – vennero arrestati a Fiume dai tedeschi. Detenuti alla Risiera di San Sabba e poi deportati da Trieste ad Auschwitz. Decedettero ambedue durante il trasporto nel treno piombato.
Cartolina di Sequals dei primi del Novecento. Foto da Internet

Ancora secondo le ricerche di Falk, descriviamo ora Emilio di Carlo e di Filippina Schmolka, nato a Fiume il 25 gennaio 1897, capofamiglia, commerciante al minuto di generi alimentari, sito in Corso Vittorio Emanuele III, 14. Emilio Moravetz gode della cittadinanza italiana per concessione del 18 maggio 1933. Coniugato con Margherita (Grete) Holländer fu Adolfo e di Gisella Fröhlich, nata a Fiume il 30 novembre 1903, casalinga, coadiuvante il marito ed il suocero nell’azienda commerciale di delicatezze alimentari. I coniugi Emilio e Margherita Moravetz ebbero due figli: Pietro (Peter), nato a Fiume il 1° giugno 1927, studente, e Francesco, nato a Fiume il 3 luglio 1932, scolaro. La famiglia di Emilio Moravetz abbandonò Fiume nel febbraio del 1944 e trovò rifugio a Sequals nei pressi di Spilimbergo, all’epoca in provincia di Udine, ora provincia di Pordenone. Alla fine della guerra la famiglia trovò adeguata sistemazione a Modena dove la signora Margherita è deceduta il 4 ottobre 2004 ed è stata sepolta nel cimitero israelitico di quella città. Pietro Moravetz emigrò negli USA ove risiede – aggiunge Falk – mentre Francesco Moravetz risiede in provincia di Como.
Passiamo a vedere ad un’altra famiglia ebrea di Fiume. Sono i Moravetz Müller, di Viale A. Grossich 7. C’è Ada di Carlo e di Filippina Schmolka, nata a Fiume il 18 maggio 1900, casalinga. Già coniugata con Roberto Müller, dal quale poi ha divorziato. Cittadinanza apolide, già austriaca. È a Fiume dal 3 maggio 1935. Conviveva con la figlia Renata Müller di Roberto e di Ada Moravetz, nata a Vienna (Austria) il 24 febbraio 1929, scolara. Madre e figlia abbandonano Fiume per sfuggire alle deportazioni naziste e trovano rifugio a Sequals, nei pressi di Spilimbergo (oggi provincia di Pordenone). Anche questo dato fornito da Falk coincide con la fonte orale della Tomissich. Dopo la guerra emigrano negli USA, dove Ada Moravetz è deceduta nel 1995, mentre la figlia risiede tuttora nel New Jersey.
Si prende ora in esame il nucleo familiare dei Moravetz abitanti in Via Fratelli Bandiera, 2 a Fiume nei primi decenni del Novecento, in base alla ricerca di Falk. Ci sono Giulio di Enrico e di Berta Zimmer, nato a Heinwichs (Austria) il 23 giugno 1892. Egli è capofamiglia, agente di commercio e impiegato in un’azienda di commercio all’ingrosso di pellami. Si trova a Fiume dal 9 febbraio 1928. È di cittadinanza cecoslovacca è si è coniugato con Rodolfina Tandler fu Davide e fu Paolina Weinrot, nata a Holleschau (Austria) l’8 aprile 1890, casalinga. Rodolfina è a Fiume dal 9 febbraio 1928. Giulio e Rodolfina Moravetz avevano una figlia di nome Giuditta, nata a Vienna (Austria) il 5 gennaio 1919, casalinga. È a Fiume dal 9 febbraio 1928, coniugata con Tibi Fischl e, rimasta vedova, risiedeva a Milano. Giulio e Rodolfina Moravetz vennero internati dai fascisti a Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, il 18 settembre 1942. Vennero poi trasferiti a L’Aquila il 22 gennaio 1943 e il 21 agosto 1944 si trovavano a Roma.
Udine, Scalo ferroviario Sacca in uno scatto delle truppe austriache d’invasione, 1918. Si ringrazia per la diffusione della fotografia Alessandro Rizzi di Udine.

Sacks, negozianti di Fiume
In via Donatello, 19 a Fiume c’era l’azienda di “generi misti” dei Sacks, come ha scritto Falk. In effetti Carlo Sacks fu Davide e fu Giovanna (di cui non si sa il cognome), nato a Grödig (Austria) il 30 gennaio 1875, capofamiglia, è agente di commercio all’ingrosso di generi alimentari. Si trova a Fiume dal 1895 ed ha la cittadinanza italiana per concessione del 5 novembre 1931. È coniugato con Giuseppina Popper fu Marco e fu Federica (cognome non noto), nata a Pezen (forse: Pezinok, in area slovacca dei Piccoli Carpazi dell’Impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia) il 16 novembre 1881, casalinga. Giuseppina è a Fiume dal 1903. I coniugi Carlo e Giuseppina Sacks hanno due figlie: Anna (detta Anny) nata a Fiume ed ivi deceduta nel 1930; e Federica (detta Fritzi) nata a Fiume il 15 giugno 1911, di condizione casalinga. È cittadinanza italiana per concessione del 19 febbraio 1931 ed è coniugata con Poldi Ledetsch. Dopo la seconda guerra mondiale risiedeva a Genova, dove è deceduta e colà è sepolta.
Alcuni ebrei di Fiume, tra il 1943 e i primi mesi del 1944, trovano rifugio in Veneto, come la famiglia Falk che a marzo del 1944, per evitare la deportazione ad opera dei nazisti, abbandona la città quarnerina e trova un rifugio in provincia di Venezia. Vedi in Internet il saggio citato “Ebrei a Fiume e Abbazia”, a cura di Federico Falk.
Si può poi ricordare, infine, che tra Ottocento e Novecento si è fatto apprezzare in Friuli, tra i paesi di Gonars e San Daniele, il medico ebreo Ettore Sachs, come ha scoperto Valerio Marchi in un suo bel libro del 2008.

Rastrellamento di ebrei di Fiume 1943
Ecco il pensiero di Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925 ed esule a Genova. La sua testimonianza si basa su di un testo scritto del 2006, su una serie di telefonate e di messaggi di posta elettronica del mese di gennaio 2017 con lo scrivente.
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Nel silenzio della notte – ha riferito Aldo Tardivelli, assieme ai racconti della moglie Graziella Superina – udivamo i passi ferrati delle truppe speciali Waffen SS che, con rastrellamenti casa per casa catturavano i nostri concittadini. Riconobbi immediatamente le uniformi delle Waffen SS e le parole di comando che scandivano: “Alles raus”, tutti fuori. Oppure: “Schnell, schnell”, avanti, avanti a quel glorioso equipaggio di prigionieri ebrei, uomini, donne, vecchi e bambini erano colpiti dai calci dei fucili sulla schiena, mentre uscivano dalle loro abitazioni e scendendo di corsa nella strada, portando con sé i loro miseri bagagli. Lungo la strada i soldati tedeschi avevano al guinzaglio dei grossi cani che ogni tanto lanciavano un latrato in mezzo a quella colonna di disperati, furono percossi in modo brutale facendoli entrare a spintoni su dei carri merci adibiti al carico del bestiame, li contavano e quando il carro era pieno lo chiudevano come se dentro ci fossero dei sacchi invece che degli esseri umani... i beni di tutti e di coloro che non erano riusciti a fuggire furono confiscati.
Con rapidità! I loro nomi, molto conosciuti da tutti, si diffusero di bocca in bocca per tutta la città: “Dio mio, Dio mio, ma cosa fanno ai quei poveri Ebrei – diceva la gente di Fiume – ma cosa possono aver fatto di brutto quelle persone che conoscevo come brava gente, Va bene sono ebrei e che è di male? A Fiume gli Ebrei erano da sempre!”
Eravamo stupiti, costernati, avendo saputo che anche il mobiliere dal quale mio padre aveva acquistato, anni prima, i mobili della sala da pranzo, “la Bella Ebrea” che aveva il più fornito negozio di mercerie della città, nei pressi della stazione Principe, tutta gente bene educata, gentile, era stato obbligato con la famiglia a salire nei vagoni ferroviari, nel  posto degli animali.
Dove conducevano i tedeschi quella povera gente? All’alba i nostri concittadini sarebbero spariti per sempre! Lo venimmo a sapere alla fine della guerra. Erano stati avviati alla morte nel Campo di sterminio di Aushwitz, di Dachau ed altri luoghi di eliminazione.
Con l’invasione nazista dell’Europa, i Campi di concentramento si affollarono di prigionieri di varie nazionalità. Fra i reclusi c’era anche una moltitudine d’ebrei fiumani e l’inizio di un doloroso cammino verso i campi della morte! Una persecuzione, la più orribile dei crimini commessi nel corso della storia umana durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quelli che avranno la fortuna di tornare a casa cercheranno invano di ritrovare i luoghi che un tempo erano famigliari, vedere che la loro Sinagoga non esisteva più, perché era stata distrutta dai nazisti il 25 Gennaio 1944, subito dopo la loro cattura. La cosa più terribile sarà di non riuscire a ricordare bene il significato della vita trascorsa, ma appena le circostanze in cui si è svolta. Tenteranno penosamente di raccontare soltanto particolari sconnessi della vita, e tutto confuso nel ricordare quel che è già svanito nella memoria. È stato come un popolo di “larve umane” che furono costrette a vivere come bestie braccate. Essi  non potranno tornare più come prima.
Colmar, curiosa insegna di una birreria con la stella di David, 2018. Colmar è vicina a Basilea, dove dal 1945 vengono trasferiti centinaia di minorenni ebrei sopravvissuti ai Campi di sterminio, come quello di Buchenwald.

Purtroppo, e con sicurezza, temo, che fra gli ebrei scomparsi per sempre, ci sarà stata, certamente, anche l’amica Elena. Sarà andata ad infoltire l’elenco, incredibilmente lungo, di altre migliaia d’infelici della nostra città, a trovare la morte. Un martirio più cruento della storia, che ancora oggi, nell’anno 2006, si ha il dovere di ricordare. Con amarezza.
 I nostri padri, compilatori di codici, per giudicare alla fine del conflitto, non avevano neppure lontanamente immaginato che in Germania sarebbero un giorno avvenute stragi in massa e si sarebbe fatto del genocidio un’istituzione!
Solo recentemente, ma sono passati tanti anni dalla fine della guerra, si è scoperto l’italiano commissario Giovanni Palatucci, nato ad Avellino il 31 maggio 1909, funzionario di polizia che da 1939 al 1944, a Fiume, riuscì a salvare migliaia di ebrei, ed altre etnie in transito nella Città, destinati ai campi di sterminio nella Germania nazista. Pur potendosi mettere in salvo, Palatucci continuò la sua missione fino all’arresto e alla deportazione nel “Campo di stermino di Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945.
Fin qui ho riportato il racconto di Aldo Tardivelli, basato sui ricordi della moglie Graziella Superina e del babbo Tulio Tardivelli, tutti di Fiume.
Dopo una serie di continui colpi d’artiglieria sulla città di Fiume, il 3 maggio 1945, entrano in città i partigiani titini e l’Esercito di Liberazione Popolare Jugoslavo, dando inizio alle prime eliminazioni di italiani del posto, con lo scopo di annettere Fiume alla Jugoslavia. Il cruento scopo è stato raggiunto. Giunse nella città del Quarnaro, da Trieste, anche un reparto della Brigata Ebraica, con l’obiettivo di trovare gli ebrei fiumani nascostisi in Friuli, in Veneto e rientrati a Fiume, oppure aiutare gli ebrei sfollati colà dalla Croazia degli ustascia, rifocillarli e portarli in terra di Palestina.
Accadde proprio così alla ragazza Liliana Schmidt, nata a Fiume il 7 ottobre 1929. Intervistata dopo la guerra, la Schmidt ricorda in particolare un soldato della Brigata Palestinese (la definisce proprio così: “Palestinese”, come la gente di Feletto Umberto riguardo alla Cjase dai Palestinês), che la accompagna a Firenze in cerca di parenti. Ciò secondo quanto riportato da Luigi Raimondi Cominesi in un suo libro del 1996.
Dice il biglietto scritto a Piedicolle, in provincia di Perugia: “Sono prigioniero sto bene sono in partenza per la Germania. Saluti. Piedicolle 9.9.43”. Estratto da: P. Comuzzi, A. Trangoni, Cercando le parole, 2013.

Secondo certe testimonianze il concentramento degli ebrei di Fiume avviene, nel 1944, presso la Scuola “Cesare Battisti” di Toretta. “Li portavano in questa scuola alla chetichella a bordo di vetture per non dare nell’occhio – ha riferito Antonio Nini Sardi – vedevamo molta gente alle finestre della scuola e le milizie tedesche che facevano la guardia, poi li hanno caricati sui camion militari e li hanno portati alla stazione ferroviaria dove li hanno fatti salire sui carri bestiame. 
Continua così il racconto di Antonio Sardi: "Io frequentavo l’Oratorio della Chiesa di Plasse San Nicolò e lì vicino passa la ferrovia, per giorni vedevo passare questi convogli e dai piccoli finestrini con sbarre e ferro spinato si vedevano la facce di quella povera gente, ero un muleto (ragazzo) ma son rimasto molto impresionado e impietosido, xe stada una bruta storia”.

Il Campo di concentramento fascista di Arbe, 1942-1943
In base a quanto ha scritto Loris Palmerini nel suo articolo “Quegli ebrei deportati dall’Istria in nome della razza italiana” è ben documentato il campo di concentramento di Arbe, isola oggi chiamata Rab, in Croazia. L’isola è occupata dalle truppe fasciste nel 1941 ed annessa il 18 maggio al Regno d’Italia. Ad Arbe 10.564 persone furono internate dai fascisti, tra di essi ci sono 1.027 ebrei; pochi gli italiani, molti di essi sono invece croati o di altre nazionalità. Come per i deportati dissidenti croati e sloveni, anche fra gli ebrei molti erano i bambini. Se ne contano 287. Secondo Palmerini “i fini del campo erano lo sterminio e la deportazione e non la sicurezza pubblica”. Lo stesso autore conclude: “Ad Arbe i prigionieri stavano in vecchie tende marcescenti, senza riparo dal freddo, frustati, pieni di pidocchi e cimici, allora dobbiamo ricordarci anche di quelli che furono perseguitati perché diversi nella Venezia orientale, ed erano cittadini italiani del Regno”.
Gli storici, tuttavia, non sono concordi e forniscono cifre differenti. Per altri studiosi il Campo di concentramento di slavi a Arbe conteneva 21 mila internati a dicembre 1942. Secondo Marina Cattaruzza (pag. 214 del suo L’Italia e il confine orientale) ed altri esperti gli ebrei in fuga dalla Croazia degli ustascia e rinchiusi a Arbe dai fascisti ammontano a 3.500-4.000 individui a novembre 1942. C’è discordanza persino sui morti di tale campo di concentramento: si va dai 1400-1500 defunti secondo gran parte degli storici ai 3500 o, addirittura, ai 4500 decessi per malattie contagiose e denutrizione.
Uno tra i primi studiosi a descrivere il campo di concentramento di Arbe è stato Franc Potočnik, con il suo “Il campo di sterminio fascista: l’isola di Rab”, edito a Torino dall’ANPI nel 1979.
Dal sito web: Loris Palmerini, “Quegli ebrei deportati dall’Istria in nome della razza italiana”, on-line dal 26 gennaio 2008.
Una immagine del Campo di concentramento fascista per civili sloveni e croati di Arbe (Rab) del 1942. Foto da Internet. 

Sabotaggio alla ferrovia di Tarcento nel 1943
Passano per Udine molti dei convogli di ebrei imprigionati dai nazisti e partiti dalla Risiera di San Sabba e da Pola in direzione di Auschwitz. La linea ferroviaria Udine - Tarvisio è sottoposta a dei sabotaggi da una delle prime bande di partigiani attivi in Italia, come ha scritto Bruno Bonetti, alle pag. 46-48 del suo “Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine”. A Tarcento, sulla fascia collinare del Friuli, sin dal 17 settembre 1943 si è attivata una formazione partigiana autonoma. È comandata da Carlo, nome di battaglia di Tarcisio Cecutto di Vergnacco, nato nel 1922. Il suo braccio destro è il capitano Gianni, alias Giovanni Buttolo, nato a Resia nel 1919, ma residente da tempo a Tarcento.
La banda partigiana è nota col nome di “Gruppo Friuli” oppure come “Banda della Bernadia”. Dal toponimo montano, nelle Prealpi Giulie, ove trovava riparo dopo le azioni di guerriglia sui treni contro i tedeschi. Orgogliosamente autonoma, la “Banda della Bernadia”, rifiuta tramite il comandante Carlo, di unificare il proprio contingente di circa cento uomini, al battaglione “Garibaldi”, di ispirazione socialista e comunista.
Il comandante Carlo ed il suo vice, il capitano Gianni, vengono arrestati dai repubblichini tra il mese di novembre e dicembre 1943 e finiscono impiccati a Nimis il 29 febbraio 1944.
Si menziona questo gruppo partigiano perché si dedica alle azioni di sabotaggio sulla ferrovia di Tarcento, mettendo in crisi oltre che il trasporto civile e militare tedesco d’invasione, anche i primi convogli di ebrei deportati dalla Risiera di San Sabba, a Trieste fino al Campo di sterminio di Auschwitz. Altri sabotaggi furono condotti sulla linea ferroviaria da Udine per Tarvisio. Si accenna a quello effettuato il 1° dicembre 1944 dai partigiani in località Santa Fosca, nel comune di Tavagnacco, come ha scritto Angeli.
Vale la pena accennare che nel 1944 vengono arrestati quattro ebrei di Udine dalle Waffen SS, secondo Pietro Ioly Zorattini. Si tratta del barone Elio Morpurgo (1858-1944), prelevato ultraottantenne e ammalato in ospedale il 26 marzo 1944 e deportato alla Risiera di San Sabba il successivo 29 marzo, per poi finire di vivere in Austria, dove morì di stenti tra i suoi carcerieri. Il demente Gino Jona è arrestato dai tedeschi nel manicomio di Udine. Poi ci sono altri tre ebrei imprigionati. Leone Jona, arrestato il 9 gennaio 1944, essendo egli partigiano della Brigata Osoppo Friuli, viene deportato ad Auschwitz il 2 settembre 1944. Poi c’è Roberto Jona, arrestato il 12 marzo 1944 e deportato ad Auschwitz. Infine si ha notizia di un ebreo nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il quale viene arrestato a Udine; il suo nome è Leone Modena, fu deportato a Dachau e come tutti i sopravvissuti di quel lager venne liberato dall’esercito degli Stati Uniti d’America il 29 aprile 1945. Fin qui secondo i dati di Pietro Ioly Zorattini, del 2002.
Valerio Marchi ha analizzato la figura di Elio Morpurgo in vari elaborati. Nel 2016 ha scritto che sin da giovane Morpurgo entrò nel consiglio comunale nel 1885, divenendo assessore alle Finanze. Dal 1889 al 1895 fu il primo sindaco ebreo eletto in Italia, poi sottosegretario alle Poste e all’Industria tra il 1906 e il 1919, fino a divenire senatore del Regno nel 1920. Sarebbe il caso di dedicare a Elio Morpurgo una “pietra d’inciampo”, da collocarsi, per esempio, davanti a Palazzo Morpurgo, in via Savorgnana. La proposta è venuta dal Gruppo culturale “Alfredo Orzan” della Parrocchia di San Pio X di Udine.
I ricercatori del presente elaborato, assieme ad altri parrocchiani ed associazioni, il 28 novembre 2017 hanno fondato a Udine il Gruppo culturale “Alfredo Orzan”, per ricordare il parrocchiano e beneamato maestro elementare Alfredo Orzan (1930-2017). Tale gruppo ha in programma l’organizzazione di eventi culturali, come mostre di fotografia, d’arte, nonché spettacoli teatrali con particolare riferimento alla Parrocchia di San Pio X di Udine. È dedicato al maestro Orzan, considerato il “cantore” di Baldasseria. Referente del gruppo è Elio Varutti e la segretaria è Tiziana Menotti.
Altra  immagine della Casa dei Palestinesi al n. 88 di Via dei Martiri a Feletto Umberto, frazione di Tavagnacco. Foto del 2018.

Ebrei a Tarcento, testimonianza di Mario Simeoni
È un racconto su fatti storici “visti con i miei occhi”, come ha detto Mario Simeoni, di Tarcento. A ripensarci ne esce ancora sconvolto, perché ha visto uccidere un prigioniero alla stazione, ma ha voluto parlarmene lo stesso. Non lo ha fatto pubblicamente, ma in forma riservata. L’occasione è stata il 27 gennaio 2018 per il Giorno della Memoria, presso la Biblioteca di Tarcento, dove il sottoscritto è stato relatore sul tema della “Shoah dongje les cumieres di Baldassarie. Deportazione e campi di concentramento. Luoghi e storie 1943-1945”, assieme all’architetto Giorgio Ganis, che ha trattato de “Gli ebrei a Udine e in Friuli. Sinagoghe, ghetti e cimiteri”. 
Ecco il suo racconto. Nell’inverno 1943-1944, in Italia, tutti gli ebrei vengono rastrellati ed internati nei campi di concentramento dai nazifascisti. Vengono trasportati con i treni merci, nei vagoni bestiame. Le porte sono sigillate e vengono lasciate aperte solo alcune finestrelle con le sbarre, per il ricambio dell’aria. A questo punto c’è il dato molto interessante secondo cui “per il transito non ordinario del treno, il capostazione veniva informato dalle autorità tedesche tanto tempo prima, egli così riusciva con il passa parola ad informare in tempo coloro che erano interessati al passaggio; sempre il responsabile del transito trovava la motivazione per fermare i convogli che sempre transitavano al pomeriggio”.
I ferrovieri diffondevano, dunque, la notizia del passaggio di un treno di deportati. Così accade a Tarcento, ma è chiaro che avveniva lo stesso fatto nelle altre stazioni. “Moltissimi tarcentini – ha scritto Simeoni – accorrevano per dare solidarietà e quant’altro ai prigionieri. Quando in lontananza si vede arrivare il treno proveniente da Udine instradato al 1° binario e, naturalmente il capo stazione lo ferma, tanta, tanta gente aiuta i deportati ed ero anch’io lì in attesa”.
Come si comportavano i reclusi? “Quando il treno si ferma – è la spiegazione di Mario Simeoni – ricordo che dai vagoni bestiame si sentono le grida, urla e pianti”. C’è chi chiede aiuto. C’è chi sbraccia dalle alte finestre del vagone. “Chi riusciva, gettava bigliettini con il loro nome e indirizzo – aggiunge il prezioso testimone – per farli raccogliere e informare così i loro familiari. In tal modo potevano sapere che il loro parente era transitato per Tarcento, in modo che potessero ipotizzare la direzione del convoglio. Ricordo che la signora Giorgina Volpe coniugata con Remo Giavitto portava anche da mangiare che riusciva a far entrare nel vagone merci da qualche spiraglio”.
Quante volte si verifica la scena appena descritta? “Proprio questo era il motivo della nostra presenza in stazione: dare qualche aiuto – ha detto Simeoni – non c’è stato solo quel treno, ma tanti e in giornate diverse, comunque il capo stazione avvertiva sempre la popolazione”.
C’è stato qualche tentativo di fuga da parte dei prigionieri? “Non ho visto, ma ho sentito dire che il cooperatore del pievano, don Celso Gloazzo, ha visto un prigioniero che è riuscito a scappare dal convoglio, allora lui si è levato la tunica e ha coperto il prigioniero, facendogliela indossare, che così si è salvato”.
Signor Mario Simeoni ricorda qualche altro gesto? “C’è un altro episodio, che però non è andato a buon fine – risponde il testimone – un prigioniero riuscito ad evadere dal treno è stato visto, aveva già guadagnato terreno, ma le sentinelle di scorta gli hanno sparato a vista. È caduto a terra. Senza che ci vedessero le sentinelle, gli è stato dato soccorso. Per qualcuno era morto. Per altri non lo era. Allora dove lo portiamo? Hanno preso la decisione di portarlo in cimitero nella stanza mortuaria. Al centro aveva il ripiano di marmo e, così vestito, è stato appoggiato. Sono stati avvertiti tre medici locali, per diagnosticarne la morte, ma per la paura degli invasori nazisti, non lo hanno visitato. La cella, dopo il terremoto del 1976, è stata ricostruita ed ora è la Cappella del cimitero”.
Com’è finita la storia di quella evasione? “È stato visto, quella sera, da tanti civili – ha concluso Simeoni – ognuno esprimeva la propria incertezza e, per avere un responso certo, sulle sue palpebre chiuse, qualcuno gli ha messo delle monete metalliche, in modo che se fossero cadute avrebbe significato che aveva mosso gli occhi e, quindi, non era morto. Anch’io sono stato a vederlo, non ho avuto paura, ma mio fratello Sergio durante la notte se lo è sognato ed ha iniziato a gridare”.
Ha qualcos’altro da raccontare? “Sì, nel 2017 ho letto il libro di Bruna Sibille Sizia, intitolato Lo stagno delle rane – ha concluso Mario Simeoni – l’autrice riporta a pag. 16 quanto segue. Lo scampato dal treno era un aviatore di Reggio Emilia, portato nella cella mortuaria del cimitero con un referto del dottor Jacopo Bonfadini stilato in questi termini: arresto cardiaco. Ma le donne di preghiera attorno a lui si accorsero che respirava ancor e aveva una ferita fresca al fianco, anche se il sangue non usciva più. Cercarono inutilmente di rianimarlo, ma il medico fu costretto a cambiare il referto scrivendo: deceduto per ferita di arma da fuoco”.

I coniugi Mistruzzi, Giusti delle Nazioni
Ci sono alcune figure poco note o del tutto sconosciute riguardo all’aiuto prestato agli ebrei nel 1943-1945. Si tratta dello scultore e incisore Aurelio Mistruzzi e di sua moglie. Mistruzzi è nato a Villaorba di Basiliano il 7 febbraio del 1880 e muore a Roma nel 1960. Sua moglie è Melanie Yaiteles, nata a Vienna nel 1886 e morta a Roma nel 1977. Essi sono compresi tra i Giusti delle Nazioni nel Museo Yad  Vashem di Gerusalemme per aver aiutato gli ebrei perseguitati a Roma.
A fare questa eccezionale scoperta è stata la professoressa Gabriella Bucco, che ha pubblicato un interessante articolo su «La Vita Cattolica» del 22 gennaio 2015, col titolo “La storia di Aurelio Mistruzzi, l’unico artista friulano tra i Giusti delle Nazioni nel Museo di Gerusalemme”.
Anzi Aurelio Mistruzzi – ha spiegato Gabriella Bucco – è l’unico artista friulano tra i 610 giusti italiani, ricordati nel museo israeliano, istituito nel 1953 per commemorare le vittime dell’Olocausto, cui si affiancò dal 1963 una sezione che ricorda i non ebrei che aiutarono i perseguitati. I loro nomi, segnalati dai beneficiati e sottoposti a severe verifiche, sono iscritti sul muro del giardino dei giusti sulla Collina del ricordo.
Ferrara, Menorah stilizzata sulla facciata del Museo Nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah. Foto del 2017.

La professoressa Bucco, oltre al citato e meritorio articolo su «La Vita Cattolica», ci ha trasmesso un memoriale sui coniugi Mistruzzi, che sarà utilizzato qui di seguito per dare ancor più informazioni sul singolare caso di ebrei di Fiume salvati da un friulano in quel di Roma.
Il celebre scultore  e medaglista friulano Aurelio Mistruzzi, visse a Roma, dove si era trasferito nel 1908 e aveva frequentato la Scuola dell’Arte della Medaglia, settore dove eccelse tanto che nel 1932 fu nominato incisore ad perpetuum della Santa Sede. Fu anche rinomato scultore, in Friuli sue sono le statue del Palazzo del Comune di Udine e numerosi monumenti ai Caduti, come quelli di Cividale e di Pordenone. Fu amico dell’architetto Raimondo D’Aronco e di tutti gli artisti e gli intellettuali locali, la famiglia donò alla Provincia di Udine una collezione di medaglie, bozzetti, opere in gesso, tuttora conservata nei Civici Musei udinesi, come ha scritto Gabriella Bucco.
Aurelio Mistruzzi conobbe al Circolo artistico internazionale di Roma, Melania Yaiteles, di famiglia ebraica viennese, che lavorava per la Mercedez Benz. Fu amore a prima vista e i due si sposarono nel 1913, tra mille difficoltà date le tensioni tra l’Austria e l’Italia, che avrebbero portato di lì a poco allo scoppio della prima guerra mondiale. Ebbero quattro figli: Adriana, Diego, morto nel 1940 nell’affondamento di un sommergibile nel mare della Libia, Lea e Fabiana. Vissero a Roma in un villino con annesso laboratorio, sulla cui porta figurava la targhetta con la scritta incisore della Santa Sede, che avrebbe rappresentato una labile difesa nei tempi bui della seconda guerra mondiale. Già nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali in Italia e l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, Mistruzzi si era reso conto che i tempi si facevano difficili. I parenti della moglie a Vienna si erano visti confiscare tutti i beni; sarebbero poi stati tutti deportati. La cognata Henriette era riuscita a salire su un treno per Roma senza un centesimo, tanto che il viaggio, grazie alla benevola tolleranza dei ferrovieri italiani, era stato pagato dallo stesso Mistruzzi all’arrivo a Roma.
Melanie Yaiteles. Ringrazio per la diffusione della fotografia Gabriella Bucco di Udine.

Continua così il racconto di Gabriella Bucco. Nonostante la morte del figlio Diego, decorato al valore militare, nel 1941 l’autorità fascista intimò a Mistruzzi di consegnare anche la radio in quanto la sua famiglia era mista. Lo scultore riuscì ad evitarlo e commentò con un ‘Disgraziati!’ l’accaduto. Durante la guerra fu in contatto con padre Anton Weber, che per conto del Vaticano aveva organizzato una rete per aiutare gli ebrei e anche con don Pio Paschini, rettore dell’Ateneo Lateranense, dove spesso la figlia lo accompagnava. Iniziò così con la moglie Melania un’attività clandestina per dare ospitalità agli ebrei e procurare loro documenti d’identità, mettendo al servizio dell’umanità la sua abilità nell’arte incisoria. Lo testimonia una lettera che Vittorio Orefice, inviò da Padova nel 1960 dopo aver appreso la morte dello scultore dove si legge «Io lo ricorderò sempre come il mio salvatore per suo merito infatti mi era riuscito di ottenere quella carta di identità che, posso ben dire, mi ha consentito di tornare a vivere una nuova vita, come era necessario in quei tempi tanto tristi. E con me quanti sono stati da lui salvati! E sempre tacendo e con quella  modestia esemplare quanto bene ha fatto il professore in quei tempi…».
Come mai il friulano Mistruzzi è tra i Giusti delle Nazioni nel Museo di Gerusalemme? La risposta ce la fornisce la stessa professoressa Bucco. È stata Lea Polgar, un’altra beneficiata dai coniugi Mistruzzi, ad intraprendere, inizialmente all’insaputa di tutti, l’istanza per il riconoscimento di Aurelio Mistruzzi e Melania Yaiteles a Giusti delle Nazioni.
Adesso si descrivono i legami di Mistruzzi con la gente ebrea di Fiume. Anche la sua storia, quella di Lea Polgar, che si intreccia con quella della famiglia Mistruzzi, merita di essere raccontata, ha scritto Gabriella Bucco. Il suo nome – Lea – ricorderà al lettore, quello di una delle figlie di Mistruzzi, che la madre Eva Grünwald Polgar aveva conosciuto a Roma quando vi era recata da Fiume per portare a casa Mistruzzi dei dolcetti alla moda viennese. Eva Grünwald era infatti una lontana parente di Melania Yaiteles, la moglie viennese dello scultore, e aveva sposato a Fiume l’avvocato Francesco Polgar (Fiume 21.09.1900), figlio del commerciante all’ingrosso di cereali Giuseppe, stabilitosi a Fiume dal 1896, e di Serena Lichtenstein. Francesco Polgar aveva studiato giurisprudenza a Padova e a Bologna dove si era laureato nel 1922 con una tesi che comparava le leggi matrimoniali vigenti a Fiume, che fu annessa all’Italia nel 1924, con quelle dello stato italiano. Tra la famiglia Polgar e quella dei Mistruzzi si instaurarono dei rapporti di amicizia e quando nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali l’avvocato non poté più esercitare la famiglia Polgar decise di emigrare a Roma, dove Francesco divenne segretario dell’Unione delle Comunità Israelitiche.
Lea Polgar. Fotografia dal sito web Szombat Online, che si ringrazia per la gentile diffusione e pubblicazione.

Oltre a Lea Polgar (Fiume 1933), erano nati altri due figli: Tommaso (Fiume, 1934) e Gianni e nel 1943 tutta la famiglia si dovette nascondere per evitare la deportazione. La famiglia Mistruzzi cercò di aiutarli nei periodi di grande ristrettezze, ma quando i tedeschi occuparono Roma nascosero per un mese Lea nel villino di via Carso. Come ricorda la signora Polgar fu lo stesso Aurelio a indicare alla bambina un nascondiglio nello studio da dove non sarebbe dovuta uscire se non chiamata dallo stesso scultore. Mistruzzi si adoperò per distrarla durante le giornate, quando non poteva avvicinarsi alle finestre altrimenti sarebbe stata vista da possibili spie dei fascisti. Nel frattempo in casa Mistruzzi la figlia Adriana aveva avuto un bambino ed Eva Grünwald Polgar ritenne troppo pericoloso lasciare la figlioletta Lea nella dimora dei suoi benefattori. Con rammarico della piccola Lea furono scelti altri nascondigli nei conventi romani e anche grazie ai Mistruzzi, la famiglia Polgar riuscì a salvarsi dalla deportazione.
Anche Giorgio Polgar, fratello di Francesco, titolare di un’azienda di commercio di generi coloniali, con la sua famiglia nel 1943 si rifugiò a Perugia e poi a Roma. Sorte tragica ebbero invece i membri della famiglia che rimasero a Fiume, che nel 1943 fu incorporata al Terzo Reich: Serena Lichtenstein insieme al figlio Emerico (detto Imre), a sua moglie Caterina Fischl e al nipote Mario Claudio (Budapest 1935 – Auschwitz 1944) dapprima si rifugiarono fuori città, ma poi vi rientrarono e furono arrestati dai tedeschi il 12 febbraio 1944. Detenuti nella Risiera di San Sabba furono deportati ad Auschwitz e qui uccisi, come altri 275 ebrei fiumani. Tale dato sta nel Monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981; esso è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Quarnaro.
Lea Polgar, la cui amicizia con Lea Mistruzzi non è mai venuta meno, iniziò la pratica per conferire   ad Aurelio e Melania Yaiteles Mistruzzi il titolo di Giusti delle Nazioni, riconoscimento accordato il 28 settembre 2007, come ha documentato Gabriella Bucco. Così recita la motivazione: «Nella sessione del 7 settembre 2007, la commissione per la designazione dei Giusti, stabilita presso lo Yad Vashem, gli eroi dell’Olocausto e l’autorità che ricorda i martiri, sulla base delle prove presentate ha deciso di onorare Aurelio Mistruzzi e Melania Yaiteles, che, durante il periodo dell’Olocausto, rischiarono la loro vita per salvare gli ebrei perseguitati. La commissione perciò ha accordato loro la medaglia di Giusti fra le Nazioni. Il loro nome sarà inciso per sempre sul muro d’onore nel giardino dei giusti allo Yad Vashem di Gerusalemme. - Gerusalemme, Israele 28 novembre 2007».
Eva Grünwald Polgar. Foto da Internet sul sito Ebrei di Fiume e Abbazia, che si ringrazia per la diffusione e pubblicazione.


La Dachau di Zoran Music al Revoltella di Trieste 2018
Dal 27 gennaio al 2 aprile 2018, il Museo Civico Revoltella di Trieste espone al pubblico una serie inedita di 24 disegni che Zoran Music realizzò nel 1945, mentre era rinchiuso a Dachau. L’esposizione, intitolata Zoran Music. Occhi vetrificati”, è promossa dal Comune di Trieste, Assessorato alla Cultura e curata da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del servizio Musei e Biblioteche. Zoran Music, considerato uno dei più grandi artisti internazionali e del Nordest, è nato a Bukovica, oggi Slovenia, vicino a Gorizia, nel 1909, sotto la Defonta (ex Impero asburgico) ed è morto a Venezia nel 2005.
Per chi non lo sapesse è da dire che Trieste era già nota quale porto di transito e di partenza per la Palestina da parte di emigranti ebrei polacchi e russi sin dal 1908, come ha scritto Marco Bencich. In quel periodo fu costituito un Comitato d’aiuto per emigranti ebrei. La Casa degli Emigranti fu inaugurata nel 1923, divenendo una delle strutture più moderne in Italia, riconfermando Trieste quale “Porta di Sion” (p. 228).
La sede della Comunità ebraica è in Via del Monte, come scrive Livio Sirovich (p.14). È in quell’edificio triestino che viene data assistenza a decine di migliaia di ebrei del Centro Europa: tedeschi, austriaci, boemi, polacchi, ungheresi, lituani, ucraini, croati ed altri (p.15). Essi vengono imbarcati per la Palestina o per le Americhe; ecco perché Trieste per tutte queste comunità ebraiche è l’accesso alla salvezza, o Porta di Sion, sempre secondo Sirovich (p.110).

Tra il 1933 e il 1940, secondo Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino, sono 121.391 gli israeliti partiti da Trieste in nave verso la Palestina; sono essi in gran parte dell’Europa centro-orientale (p. 10).
In ogni caso i profughi germanici accolti in Italia sono poco meno di 18 mila, in prevalenza ebrei, dei quali almeno 5.000 provenienti dall’Austria. A partire dal 1933 gli esuli di lingua tedesca sono quasi mezzo milione e 135 mila gli austriaci, dopo l’Anschluss del 1938, come hanno scritto Köstner e Voigt (p. 13).
Come mai Trieste diviene dagli inizi del Novecento la Porta di Sion per l’emigrazione verso la Palestina con cifre così imponenti? La spiegazione viene fornita da Silvia Cuttin. Uno dei motivi, se non quello principale, è che la compagnia di navigazione del Lloyd Triestino attrezza le sue navi con uno spazio per il culto (la sinagoga) e con la cucina kasher. Allora tutti gli ebrei polacchi, ungheresi e tedeschi che si imbarcavano dapprima a Odessa spostano il loro luogo di partenza a Trieste. Tra il 1920 e il 1943 partono dal porto giuliano 150 mila ebrei su navi dai nomi attraenti – scrive la Cuttin – come: Jerusalem, Galilea, Tel Aviv (p. 335, nota IV).
Silvia Cuttin aggiunge un dato assai interessante nel suo “romanzo-saggio” del 2012. Accade, infatti, che nel 1937 un centinaio di giovani ebrei liberati dal Campo di lavoro di Dachau, attivo, come si sa dal 1933 per dissidenti politici antinazisti, transitino per Fiume (p. 65). Essi furono ospitati per un po’ di tempo in un albergo di Abbazia e poi nei magazzini del porto franco fiumano, con l’aiuto della Comunità ebraica locale. Con tutta probabilità essi passarono per le stazioni di Tarvisio, Udine, Gorizia e Trieste. Con tutto ciò si vuol dire che pure le stazioni minori di Gemona, Tarcento e Manzano, nel 1937, vedono il passaggio di questi ragazzi ebrei fuoriusciti dal lager di Dachau, già in possesso del visto delle autorità britanniche per emigrare in Palestina, ma senza la nave.
I profughi in fuga dall’Europa orientale – aggiunge la Cuttin a p. 333, nota III – e di passaggio da Fiume, portavano con sé i racconti di violenti episodi di antisemitismo e di pogrom. Gli ebrei italiani di Fiume non fanno tesoro di quelle notizie tragiche, inclusa quella del Campo di lavoro di Dachau, da cui provenivano quei cento ragazzi ebrei tedeschi in condizioni penose. Nel 1938 il re e Mussolini firmano le Leggi Razziali e per gli ebrei italiani di Fiume, di Trieste e del resto del Regno inizia un brutto capitolo.

Uno dei significativi disegni di Music appena ritrovati dal professor Franco Cecotti tra le carte dell’Archivio dell’ANPI e in mostra a Trieste al Revoltella dal 27 gennaio 2018.

Martino Goldstein, da Fiume a Birkenau
Ora riporto un caso descritto da Silvia Cuttin nel suo libro intitolato Ci sarebbe bastato. È passato per la stazione di Udine anche Martino Goldstein, imprigionato dai tedeschi, nel suo trasporto per il Campo di sterminio di Birkenau, vicino a Auschwitz, a sud ovest di Cracovia. La sua famiglia aveva italianizzato il cognome in Godelli. Egli era nato a Petrosani (Petrozsèny) nel 1922, nella Transilvania ungherese da poco assegnata alla Romania. Dal 1928 egli viveva con la famiglia a Fiume. Il 25 gennaio 1944 è torturato nella sede della ex Distilleria Wortmann, a Sussak (pp. 179-181).
Dopo l’arresto, Martino passa una notte alla Risiera di San Sabba, nel camerone al primo piano, con partigiani, donne e pochi ebrei. Caricato sui vagoni bestiame sui binari presso Barcola, assieme a delle donne croate, slovene e bosniache legate alla resistenza, è guardato a vista dai carabinieri. Poi i tre vagoni con quel carico umano partono per il Campo di concentramento nazista. A bordo c’è pure la famiglia Wertzler di Fiume. In altri vagoni sono stati stipati gli anziani rastrellati alla Pia Casa Genilomo, ospizio della Comunità Ebraica di Trieste (pp. 184-185).
Anche Martino Goldstein scrive un bigliettino per la famiglia e lo lancia dal finestrino, sperando che alcune mani amiche facessero pervenire le notizie alla sua famiglia. Il 2 febbraio 1944 arriva ad Auschwitz-Birkenau e trova un Kapo di Capodistria. Più tardi è inserito nel Kanadakommando, ossia una sorta di magazzino dove gli addetti, tutti prigionieri, sotto il controllo di poche Waffen SS, raccolgono i beni personali dei deportati. “Avevamo il compito di gestire in maniera ordinata l’arrivo dei treni” – Cuttin riporta così il racconto di Martino Goldstein, che si salva (p. 211). Nel 1954 Martino emigra in Israele. Nel 1961, durante il processo Eichmann, gerarca delle Waffen SS, Martino Godelli-Goldstein, pur chiamato, non ce la fa a testimoniare. Solo dopo quel fatto comincia a raccontare la sua incredibile esperienza di deportato ebreo di Fiume. Muore il 4 novembre 2014 a Nezer Sereni, in Israele.
Rodolfo Ehrlich. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza


Zio Rudi di Ugovizza, dalla Wehrmacht alla prigione della Brigata Ebraica
La storia che sto per riportare ora sembra incredibile. Me l’ha riferita Franco Rassati, di Ugovizza, frazione di Malborghetto Valbruna. Quando si narra che la provincia di Udine, dal settembre 1943 appartiene al Terzo Reich, non ti credono. È storia, ma non ti vogliono dar retta. Si chiama Zona di Operazioni del Litorale Adriatico, in tedesco Adriatisches Küstenland. È comandata dal Supremo Commissario Rainer, che nominò dei “deutsche Berater”, ossia dei consiglieri amministrativi dei prefetti italiani.
In certe zone dell’alta montagna, in provincia di Udine, dove essere mistilingui è considerato oggi una ricchezza culturale, negli anni 1938-1939 pone i cittadini dinnanzi a dilemmi vitali. Con le cosiddette opzioni per il Terzo Reich, i cittadini italiani di Tarvisio, Pontebba e Malborghetto Valbruna, nella Val Canale, o Kanaltal, possono optare per la Grande Germania, abbandonando l’Italia di Mussolini. Al nonno di Franco Rassati piaceva l’Austria, così gli propongono un luogo che egli visitò, ma ritenne di non accettare. Molti altri valligiani optano. Alcuni di loro li spostano dalla natia Ugovizza a un villaggio della Carinzia svuotato degli slovenofoni in gran fretta. Il luogo del trasferimento è un po’ desolato. Quando entrano nella casa assegnata, trovano ancora la minestra sul fuoco, segno che gli slovenofoni erano stati cacciati senza ritegno. Delusi, ritornano a Ugovizza, fregandosene di Hitler.
Documento d'identità del brigadiere Sante Rassati, 1944. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza

Le autorità naziste, tuttavia, non perdono tempo. “Nel 1944 – racconta Franco Rassati – arruolano mio zio, che di nome fa Rodolfo Ehrlich, nato a Ugovizza nel 1924 e deceduto nel 2004, solo che lo destinano al fronte russo e finisce tra Finlandia e Norvegia, con temperature di 20-30° sotto zero”. È duro resistere a quello stato di cose. Qualche camerata sceglie il suicidio, sparandosi in bocca. Lo zio Rodolfo Ehrlich riesce a tornare a casa nel 1945, ma viene arrestato dai militari della Brigata Ebraica, di pattuglia a Tarvisio. Così catturato viene portato al Campo di concentramento di Rimini. Riesce a venirne fuori anche da lì, poi i racconti sulla Finlandia diventano pane quotidiano nelle osterie dell’ameno paesino di montagna.
Dal testo nel web di Elvio Pederzolli, intitolato Campi di concentramento in Italia, si legge a p. 31 che “a Rimini / Miramare, fino al 1946, viene istituito dagli alleati il PW 370, con i complementari campi di: Aeroporto, Belluria (due campi, n.11 e n. 14), Cervia, Cesenatico, Forlì, Igea Marina e Polesella”.
Anche il padre di Franco Rassati che di nome fa Sante Rassati, nato a Socchieve il 1° novembre 1903, è inquadrato col grado di brigadiere nella Milizia per la Difesa Territoriale, Battaglione confinario di Tolmezzo, al comando del Maggiore Odorico Rieppi. Nei suoi documenti d’identità, bilingui (italiano e tedesco) è stampato che “appartiene al supremo Capo delle SS”, con tanto di timbro con svastica e aquila nazi. L’Italia della RSI comincia a San Michele al Tagliamento.
Facciata anteriore della tessera di riconoscimento del brigadiere Sante Rassati, 1944. Collezione Franco Rassati, nato a Ugovizza

Fonti archivistiche
Archivio di Stato di Udine (ASUd), Questura di Udine, Categoria A 12, Stranieri, b 1.

Fonti orali
Per la cortese disponibilità dimostrata, desidero ringraziare e ricordare le seguenti persone da me intervistate a Udine con taccuino, penna e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.
1) Giannino Angeli, Tavagnacco, provincia di Udine, 1935, intervista telefonica del 14 ottobre 2016 e del 5 gennaio 2018.
2) Caterina Eleonora Bernardinis, Rina (Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova 1908 – Udine 2010),  int. del 24 ottobre 1995.
3) Iris Bolzicco, comunicazione del 26 e 28 gennaio 2018.
4) Miranda Brussich, vedova Conighi (Pola, 11 agosto 1919 – Ferrara 26 dicembre 2013), esule da Fiume nel 1946, int. a Ferrara del 3 giugno 2002, del 24 aprile 2008 e del 21 agosto 2013.
5) Claudio Calligaris, Udine 1954, int. del 19 gennaio 2017.
6) Rodolfo Decleva, Fiume 1929, messaggio in Facebook del 27.1.2018 nel gruppo “Un Fiume di Fiumani”.
7) Paola De Wrachien, Udine 1940, int. del 9 maggio 2017.
8) Fabio Galimberti, Udine 1961, messaggio in Facebook del 24 gennaio 2017.
9) Fernanda Revelant, Udine 1928, comunicazione del 26 e 28 gennaio 2018.
10) Fabiola Modesto Paulon, Fiume 1928, int. del 5 e del 13 aprile 2016.
11) Franco Rassati, Ugovizza, 1948, int. del 23 e del 30 gennaio 2018.
12) Giovanna Roiatti, Udine 1955, messaggio del 15 gennaio 2018, sui ricordi della madre Annamaria Rojatti, Udine 1931.
13) Antonio Nini Sardi, Fiume 1931, messaggio in Facebook, del 27.1.2018, nel gruppo “Un Fiume di Fiumani”. Sardi è presidente dell’ANVGD di Novara.
14) Mario Simeoni, Tarcento 1935, int. del 27 gennaio 2018 a Tarcento (UD).
15) Aldo Tardivelli, Fiume 1925, esule a Genova, int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-27 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio, dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Arezzo.
16) Egle Tomissich, Fiume 1931, int. del 5 e del 19 dicembre 2017.
17) Annalisa Vucusa, Vimodrone (MI), 1949, con papà di Zara, int. del 7 marzo 2015.
Udine, Scalo ferroviario di Via Pradamano - Via Buttrio (zona di Baldasseria), guardando a nord. In questo scalo merci, nel 1944-1945 sostavano i vagoni carichi di deportati e di ebrei provenienti dalla Risiera di San Sabba, in attesa di essere attaccati ai convogli per l'Austria e per Auschwitz. Foto del 2016.

Bibliografia, fonti originali e ringraziamenti
Sono riconoscente alla professoressa udinese Anna Ghersani Durini, nata a Monza con mamma di Fiume, per avermi messo a disposizione, nel mese di dicembre 2015, la Autobiografia con fatti di Fiume dello zio Iti Mini, col consenso dei familiari alla diffusione. Molti ringraziamenti devo poi alla professoressa Gabriella Bucco per avermi comunicato i dati ed altri documenti sulla storia da valorizzare e diffondere dei Coniugi Mistruzzi Jaiteles dichiarati Giusti delle Nazioni a Gerusalemme nel 2007. Sono grato all'architetto Giorgio Ganis per la collaborazione nella ricerca delle immagini del presente saggio.
Ringrazio poi il personale e la direzione delle seguenti biblioteche, archivi, musei ed istituti, dove ho potuto effettuare le mie ricerche: Archivio di Stato di Udine; Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli, Udine; Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine; Biblioteca del Seminario arcivescovile “Mons. Pietro Bertolla”, Udine; Biblioteca della Società Filologica Friulana, Udine; Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine; Biblioteca Civica “E. Buiese”, Martignacco, provincia di Udine.

- Gabriella Bucco, Aurelio Mistruzzi e Melania Jaiteles, Giusti delle Nazioni, videoscritto in Word, 2015, pp. 2.
- Iti Mini, Autobiografia, Moggio, provincia di Lecco, 1994, dattil., pp. 4, Collezione famiglia Mini, Milano.
Mario Simeoni, Estratto dalla biografia [sui treni di deportati a Tarcento, 1943-1945], 2018, dattil., p. 1.
- Aldo Tardivelli, Un’amica ebrea, testo videoscritto in formato Word, 2006, p. 1-5.

Bibliografia, fonti edite
Marianna Accerboni, “La Dachau ritrovata di Music”, «Il Piccolo», 29 novembre 2017.
- Fabio Amodeo, Mario J. Cereghino, L’Italia della Shoah. Gli ebrei, il fascismo e la persecuzione nazista, Udine-Trieste, Editoriale FVG, 2008.
- Giannino Angeli, Viva l’Italia libera! (1943-1945). (Storia, memorie, testimonianze dei tempi di guerra nel Comune di Tavagnacco), Udine, Comune di Tavagnacco, Comitato per il il 50° anniversario della Liberazione, 1994.
Pierluigi Battista, “Gli orfani che costruirono Israele”, «Corriere della Sera», 16 gennaio 2018, pp. 34-35.
- Marco Bencich, “Il Sionismo a Trieste dalle origini agli anni Trenta”, in Miriam Davide, Pietro Ioly Zorattini (a cura di), Gli ebrei nella storia del Friuli Venezia Giulia. una vicenda di lunga durata, Atti della Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, IV, Firenze, Giuntina, 2016, pp. 221-235.
- Rina Bernardinis, Nel mio autunno ricordo, Udine, Giovanni Aviani, 1982.
- Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.
- Ruggero Botterini, Parlavimo e scrivevimo cussì in Casa Mocolo. Vocabolario del dialetto polesano-istriano, Gorizia, ANVGD Gorizia, Edizioni della Laguna, 2014.
- Rina Brumini, “Gli Ebrei di Fiume”, «La battana», rivista trimestrale di cultura, Fiume / Rijeka (Croazia), XLV, ottobre-dicembre 2008, pp. 83-116.
- Roberto Bruno, Elisabetta Marioni, Giancarlo Martina, Elio Varutti, Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960, Udine, Istituto Stringher, 2015.
- Gabriella Bucco, “La storia di Aurelio Mistruzzi, l’unico artista friulano tra i Giusti delle Nazioni nel Museo di Gerusalemme”, «La Vita Cattolica», 22 gennaio 2015.
- Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007.
- Roberto Curci, Via San Nicolò. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Bologna, Il Mulino, 2015.
- Silvia Cuttin, Ci sarebbe bastato, 3. ed., Castello di Serravalle (BO), Epika, 2012.
Rodolfo Decleva, Qualsiasi sacrificio! Da Fiume ramingo per l’Italia, Genova, s.e., 2014.
- Pietro Ioly Zorattini, Gli ebrei a Udine tra Otto e Novecento, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 2002.
- Christina Köstner, Klaus Voigt (cur), Österreichisches Exil in Italien 1938-1945, Vienna, Mandelbaum Verlag, 2009. Traduzione italiana di Loredana Melissari: «Rinasceva una piccola speranza». L’esilio austriaco in Italia (1938-1945), Udine, Forum, 2010.
- Valerio Marchi, Il dottor Sachs. Un medico ebreo in Friuli e la sua famiglia tra Ottocento e Novecento, Udine, Comune di Gonars, Kappa Vu, 2008.
- Valerio Marchi, “Gli ebrei a Udine dalle guerre d’indipendenza alla persecuzione nazifascista”, in Miriam Davide, Pietro Ioly Zorattini (a cura di), Gli ebrei nella storia del Friuli Venezia Giulia. Una vicenda di lunga durata, Atti della Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, IV, Firenze, Giuntina, 2016, pp. 165-180.
- Franc Potočnik, Il campo di sterminio fascista: l’isola di Rab, Torino, ANPI, 1979.
- Luigi Raimondi Cominesi, Dossier Szörényi. Olocausto di una famiglia. Liliana Schmidt. Una ragazza ebrea a San Daniele del Friuli nel 1944, San Daniele del Friuli, provincia di Udine, Comune di San Daniele del Friuli, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, ANPI, 1996.
- Salvatore Samani, Dizionario del dialetto fiumano, a cura dell’Associazione Studi sul dialetto di Fiume, Venezia-Roma, 1978.
- Livio Isaak Sirovich, Non era una donna, era un bandito. Rita Rosani, una ragazza in guerra (1.a edizione: 2014), Verona, Cierre edizioni, 2015.
- Elio Varutti, “La Shoah dongje les cumieres di Badassarie”, in Giorgio Ganis (a cura di), Ebrei a Udine. Luoghi e storie fra deportazioni e campi di concentramento, Udine, Parrocchia di San Pio X, 2017.
- August Walzl, Die Juden im Kärnten und das Dritte Reich, Klagenfurt, Universitätsverlag Carinthia, 1987 (traduzione italiana: Gli ebrei sotto la dominazione nazista. Carinzia Slovenia Friuli Venezia Giulia, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 1991).
Un altro dei significativi disegni di Zoran Music appena ritrovati dal professor Franco Cecotti tra le carte dell’Archivio dell’ANPI e in mostra a Trieste al Museo Revoltella dal 27 gennaio 2018.

Filmografia


Sitologia
- Marina Gersony, Chaim Miller, il cacciatore di nazisti, «Bet Magazine Mosaico», on-line dal 19 aprile 2015
Loris Palmerini, Quegli ebrei deportati dall’Istria in nome della razza italiana, on-line dal 26 gennaio 2008.
Elio Varutti, Ebrei a Udine sud e dintorni, 1939-1948. Deportazione in Germania e rientri, on-line dal giorno 11 novembre 2016, con aggiornamenti del 2017.