mercoledì 31 maggio 2017

Romanzo di Maria Zaffira Secchi, La Camminatrice e la Resistente

Udine – C’erano persone in piedi alla libreria Tarantola il 25 maggio 2017. C’era la presentazione a cura di Gianpaolo Carbonetto, del romanzo di Maria Zaffira Secchi, intitolato “La Camminatrice e la Resistente”. Il libretto, di 136 pagine, è privo di fotografie, eccezion fatta per la raggiante copertina, che mostra in mezzo ai campi, una romantica donna  in cammino, appunto.

Gianpaolo Carbonetto e Maria Zaffira Secchi

L’autrice, Miffi per gli amici, con questo scritto ci mostra uno scrigno ricco di bellezze e di gentilezza. Cose che oggi sembrano perse. Si va dalla poesia, all’analisi interiore, all’autocoscienza. Singolare è il fatto che sia una comunicazione al femminile. I personaggi del volume sono donne, come pure l’autrice. Ci sono poche figure maschili, appena menzionate in qualche pagina.
Il testo si incentra su un (presunto o vero) ritrovamento in una grotta di un carteggio fra due signore, la Camminatrice e la Resistente. Abbiamo a disposizione solo questi due nomi comuni per parlare di loro. È un artifizio dell’autrice per farci concentrare sui contenuti delle lettere? C’è un riferimento geografico, dato che il pacco di lettere viene ritrovato in una caverna situata tra Italia, ex Jugoslavia e Austria, durante alcune operazioni di ripristino di vecchi sentieri.
Pubblico in sala prima della presentazione. Fotografia di E. Varutti

Chissà? Non è un caso la scelta di un’area di confine, di tremende guerre nel passato e di tensioni da Cortina di ferro, in piena guerra fredda, fino al 1989. Oggi è Unione Europea, con la stessa moneta, pur con i rigurgiti che bisogna sopportare. Come a dire: c’è chi cammina, c’è chi sconfina, c’è chi resiste. C’è chi immigra – mi sia consentito di aggiungere, visti i tempi che stiamo vivendo.
È curioso che le due protagoniste si scambino le missive lasciandole nella stessa grotta, dove la luce è quella di vecchie candele. Non c’è una spedizione postale cartacea, o per e-mail, o con twitter. 
C’è poi una forte disparità tra le due scrittrici. Il loro epistolario è spudoratamente asimmetrico. L’ha rilevato pure il blogger Gianpaolo Carbonetto, nell’affollata serata udinese di presentazione dell’opera. 
La Resistente scrive molto, si confida, analizza, mentre la Camminatrice è così telegrafica, da farti venire il nervoso. Rileggendo pian piano le sue lapidarie parole, tuttavia, si scopre un tocco poetico, che abbellisce il romanzo. In alcune pagine si sfiora la poesia in forma di prosa.
Libreria Tarantola, Udine per La Camminatrice e la Resistente, romanzo di Maria Zaffira Secchi. Fotografia di E. Varutti

Un’altra figura del testo ha un nome e fa la badante, visti i tempi che stiamo vivendo. È Sahar a spezzare il dialogo stretto la le due donne del titolo. 
Ci sono altri scarni riferimenti al territorio: c’è lo sclopit, parola friulana per l’erba silene, con cui fare frittate, risotti (pag. 83). Già perché un’altra passione di Miffi è cucinare e lo fa con un certo cipiglio nel suo B&B “Il posto di Zaffira” a Udine.
C’è poi il maç di San Zuan, il mazzo di fiori per San Giovanni a giugno (pag. 124), che tradizionalmente le donne friulane portano a benedire in chiesa per favorire lo sviluppo di un amore. È un’antica usanza, molto sentita ancora oggi a Cercivento e in altri paesi della Carnia, di far benedire, nel giorno di San Giovanni Battista, che cade il 24 giugno, un mazzolin di fiori di campo.


La trilogia del volume è stata rilevata da Carbonetto. Ci sono tre azioni tra di loro collegate. L’incertezza, la ricerca e la scelta. Il libro è pervaso da questa scansione. È forse un approccio filosofico. O è la pratica della vita quotidiana, del vivere giorno per giorno? Del resto la camminatrice che rifiuta i mezzi di comunicazione e che si affida a delle mele bruttine, ma intensamente biologiche, per nutrirsi, non può che vivere pensando solo al domani.

Gianpaolo Carbonetto e Maria Zaffira Secchi alla Libreria Tarantola di Udine. Fotografia di E. Varutti

Un ultimo appunto. L’unica citazione dotta è quella di Ildegarda di Bingen, se ho letto bene il prodotto culturale della Miffi. Mi piace proprio che nelle pagine conclusive del romanzo epistolare sia citata questa badessa, o “genio femminile” (Giovanni Paolo II). Ecco una sua massima: “Manifesta le meraviglie che apprendi ... Oh tu fragile creatura ... parla e scrivi ciò che vedi e senti...”.
Maria Zaffira Secchi, nata a Treviso nel 1960, è udinese di adozione, dato che sta in città dal 1977. Ha lavorato per le emittenti radio-televisive redigendo servizi culturali. È laureata in Scienza della Comunicazione a Trieste e ha pure frequentato la facoltà di Lettere – Filologia moderna. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo I sassi in perle.
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Ringrazio per le fotografie: Leoleo Lulu, di Udine



Maria Zaffira Secchi, La Camminatrice e la Resistente, Santa Maria Nuova (AN), Le Mezzelane, 2017, pagg. 136, euro 8,90.

ISBN 9788899964290

martedì 30 maggio 2017

Pista ciclabile in Baldasseria per l’Europa

Udine - È raro che la scuola faccia qualcosa di pratico e utile. Di solito chi studia deve affrontare tanta teoria.


Ancor più raro è che una scuola esca dalle aule per andare in un quartiere di periferia a presentare un proprio lavoro utilizzabile tic e tac. È successo che i ragazzi dell’Istituto Tecnico “G. G. Marinoni” abbiano progettato una pista ciclabile per valorizzare la zona di Udine sud, col coordinamento dell’ingegnere Antonio Nonino.


Poi con i loro professori e Laura Decio, la dirigente scolastica, in testa hanno presentato il loro progetto alla gente del quartiere. Tanto di cappello. Il progetto è stato donato al Comune di Udine che lo ha esposto a Palazzo D’Aronco.
La progettazione ha coinvolto cinque classi della scuola che, una volta, sfornava i geometri. Si va dai pulcini della terza fino ai quasi maturi della quinta. Oggi il loro diploma si chiama tecnico delle Costruzioni, ambiente e territorio. Poi c’è anche lo specialista in Tecnologia del legno nelle costruzioni, oppure il Geotecnico, o l’esperto in Grafica e comunicazione.

Ecco Laura Decio, dirigente scolastico dell'Istituto Marinoni di Udine, che presenta i suoi allievi e il bel progetto ecologico


Si tratta di un chilometro e 900 metri di pista ciclabile da piazzale Cavalcaselle fino all’incrocio di Via delle Acacie con Via dei Prati. Si pedala lungo Via Baldasseria Media.
Organizzata dall’Associazione Insieme con Noi, la presentazione pubblica è avvenuta giovedì 25 maggio 2017, alle ore 19, presso il Centro Socio Riabilitativo Educativo (CSRE) di Via Piutti, 156, la ex scuola elementare di Baldasseria, con la preside del Marinoni lì in prima fila a dare forza ai suoi studenti alle prese col microfono e con le diapositive che ogni tanto funzionavano, oppure no. Ma c'erano una serie di pannelli esplicativi che formavano una originale mostra.
L’esposizione è stata commentata in modo professionale dai ragazzi. La pista ciclabile Alpe-Adria consente di andare dall’Austria a Grado


Alcuni punti non sono ancora attrezzati come la zona di Via Badasseria Media. Gli studenti del Marinoni hanno catalogato le piante e gli alberi della zona, hanno analizzato la mobilità su bicicletta e il trasporto pubblico per giungere alle loro proposte di pista ciclabile “intaccando il meno possibile la proprietà privata”. 

Sembra un progetto partecipato, insomma, non un esercizio scolastico qualsiasi.
In conclusione, si prevede anche la valorizzazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli, del 1831. È la tipica chiesetta di Baldasseria. È stata prevista una struttura in legno coperta, per accogliere i ciclisti in sosta. Anche oggi transitano numerosi e si fermano a guardare la lapide dei Caduti in guerra ed il panorama idilliaco campagnolo.


A questo punto è opportuno citare e ringraziare la SAF di Udine che ha messo a disposizione un bus per due mesi, due volte alla settimana per portare gli studenti del Marinoni, dalla loro scuola che è in Via Monsignor Nogara 2, fino in Via Baldasseria media, luogo dei rilevamenti.
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Ringrazio per le fotografie l’Associazione Insieme con Noi, di Udine.


La zona della mostra di pannelli espositivi col progetto di pista ciclabile europea in Baldasseria


sabato 27 maggio 2017

Il rosario al Villaggio Giuliano di Udine

È stato recitato il Santo rosario in ricordo di tutti gli istriani vivi e defunti al Villaggio Giuliano di Udine in via Casarsa. 

L’evento religioso si è tenuto il 26 maggio 2017 con la partecipazione dei discendenti degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La devota recitazione è stata animata dal nuovo sacerdote colombiano padre Juan Carlos Cerquera.
Tra i presenti c’erano le famiglie Pacco, Battistella e il signor Alberto Nadbath, di Udine, ma col papà di Abbazia. Lui, con la varechina ha spazzolato la pietra, perché era tutta scura, poi ha sistemato i mattoni alla base del cippo, trasformando l’ancona in un gioiellino di preghiere popolari. Si sono unite al rito anche alcune famiglie di Viale Venezia, dove è stato fabbricato il Villaggio Giuliano, una quindicina di case costruite nel 1951-1952 «coi schei dei americani».


Proprio in quel luogo, sin dal 1952-1953, le donne giuliane e dalmate si riunivano a maggio per recitare il rosario, attirando altre donne e uomini del quartiere. Gli udinesi così si mescolavano con i profughi giuliani, fiumani e dalmati nel rito religioso spontaneo, meravigliando il clero locale.


L’evento si è ripetuto nel 2017. «È stata una serata molto bella – ha detto Eugenia Pacco – e la preghiera ha unito la terra e il cielo, su molti visi dei presenti ho visto scendere una lacrima».

Il parroco ha poi proposto di celebrare una messa davanti alla Madonnina della Rinascita in futuro. Ha incoraggiato tutti a continuare e a invitare anche le nuove generazioni. Bisogna trasmettere a loro questi sani valori. Bisogna ricordare la storia del popolo istriano, fiumano e dalmata per condividere con i giovani e con gli stranieri come padre Cerquera questa preghiera. Così la storia potrà portare pace e unità tra i popoli.


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Si ringrazia Eugenia Pacco per le fotografie


Ricordo di Mario Della Savia, di madre istriana

Nella riunione del Comitato Esecutivo dell’ANVGD di Udine dello scorso 27 maggio 2017 è stato ricordato Mario Della Savia, di madre istriana.
Mario Della Savia

«È con vero piacere – ha detto Bruna Zuccolin, presidente del Comitato Esecutivo dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Udine – che do la parola all’ingegner Sergio Satti che intende ricordare un’importante figura di dirigente del nostro associazionismo come è stato il dottor Mario Della Savia».
Sergio Satti

Allora è intervenuto Sergio Satti, membro del Comitato Esecutivo stesso e per alcuni decenni vice presidente al tempo della presidenza dell’ingegner Silvio Cattalini. «Oggi sono state celebrate le esequie di Mario Della Savia, morto all’età di 96 anni – ha detto Satti – un appassionato conoscitore e frequentatore dell’Istria, da dove proveniva sua madre».
Mario Della Savia era nato a Udine il 6 aprile 1921, nelle immediate vicinanze del vecchio convento dei Cappuccini, in una famiglia dal forte sentire cristiano. Fin da ragazzo coltivò l’interesse per la liturgia, la musica sacra e la storia. Conclusi gli studi al Liceo “Stellini” di Udine, si iscrisse alla Facoltà di Veterinaria di Milano e poi a quella di Parma, dove si laureò nel 1947.
Nel 1955 si sposò ad Abbazia, nella ex Jugoslavia, con Mira Ambrozic. Lo sposalizio fu celebrato in chiesa, destando un grande scalpore tra le autorità titine, notoriamente di stampo ateo. I titini a malapena tolleravano i matrimoni religiosi effettuati dai rimasti alle sei del mattino, per sfuggire alle spie dell'OZNA.
Della Savia ha fatto parte del Comitato Esecutivo dell’ANVGD di Udine verso gli anni 2000. Era convinto che il futuro governo europeo, pur serbando memoria delle passate tragedie, avrebbe determinato un’autentica generale pacificazione, con l’eliminazione dei confini e col venir meno dei nazionalismi del secolo breve.
Dopo aver prestato servizio in varie condotte di montagna e di pianura, al di là e al qua del Tagliamento, verso il 1970 vinse la condotta veterinaria del Comune di Udine. Fu un professionista stimato e ricoprì numerose cariche: dirigente dell’Usl dell’Udinese, consigliere dell’Ordine della Provincia di Pordenone, consigliere del sindacato dei veterinari di Medicina pubblica e componente della Commissione esaminatrice della Camera di commercio di Udine per gli Alimenti di origine animale. Nel 1986 giunse ad un’onorevole e meritata quiescenza.

Tra gli ultimi suoi impegni religiosi si aggregò all’Associazione “Una Voce Italia”, per la salvaguardia e la promozione della liturgia latino gregoriana. Il suo scopo principale fu di dar vita alla locale sezione dell’associazione medesima “Una Voca Udine”, in pieno accordo con la locale Curia Arcivescovile. Di tale sezione Della Savia ricoprì ininterrottamente la carica di presidente fino alla morte, mente per diversi ani fu pure consigliere dello stesso organismo a livello nazionale. Tale suo impegno servì a garantire la Santa Messa di rito antico, dapprima nella chiesa dell’Istituto “Renati”, presso le suore Rosarie, poi nella chiesa di S. Spirito, presso le suore Ancelle della Carità.
Bruna Zuccolin

Mario Della Savia si è spento il 22 maggio 2017 nella sua abitazione di Via San Martino a Udine.

Si ricorda che il 18 febbraio 2005 a Udine aveva perso la moglie, Mira Ambrozic, che era nata nel 1928 ad Abbazia, nel Golfo del Quarnaro. Mira aveva frequentato le scuole elementari preso il collegio "Uccellis" di Udine, proseguendo gli studi al liceo di Fiume. Studiò lingue all’Università e, nel 1955, sposò ad Abbazia Mario Della Savia. Nel 1956 fu in Friuli e nel 1971 si trasferì definitivamente a Udine. Mira Ambrozic fu pure impegnata nell’associazionismo adriatico, essendo revisore dei conti del Comitato Provinciale di Udine dell’ANVGD intorno al 2000.

Articoli nel web

Laura Pigani, “L’Ordine dei veterinari piange il suo decano, Mario Della Savia”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Udine, 23 maggio 2017.

lunedì 22 maggio 2017

A Feldkircher i diorami di Franca Venuti, 2015

Facciamo un viaggio per immagini grazie alle stupende fotografie di Hans Gerhard Kalian. L’artista austriaco ha immortalato i diorami di Franca Venuti Caronna, artista friulana che riproduce in piccole dimensioni dei quadretti della vita contadina friulana, con uno spirito di ricerca etnografica.
Che cosa sono i diorami? Un diorama, o plastico tridimensionale, è un’ambientazione in scala ridotta, che ricrea scene umane di vario genere.
Franca Venuti Caronna nel mese di ottobre 2014 ha esposto a Strassoldo, vicino al vecchio mulino del paese, non lontano dal cuore della frazione. È stata mostra singolare nel suo genere. È un’esposizione legata alla tradizione che descrive il Friuli contadino in miniatura.
Si è trattato di una quindicina di quadri-spazio che riproducono in scala un tipico ambiente friulano in pochi centimetri cubi. L’artista opera con vari materiali di recupero, per esempio cassette di frutta o parti di grondaia con cui fa le pentole.
Dal 20 dicembre 2014 a febbraio 2015 ha esposto le sue opere nel Palazzo Veneziano di Malborghetto Valbruna. Il racconto del Friuli contadino di un tempo fila via attraverso una quindicina di quadri-diorami con i tipici fogolârs, le calde cucine, la vecchia stalla, gli atri milleusi, i fienili, la stube e così via.
Nel mese di luglio 2015 la sua rassegna sulla vita contadina in Friuli è stata in esposizione a Feldkircher, in Austria, presso il “Feldkirchner Amthofmuseum”.
Nel dicembre 2015 la sua mostra è ritornata in Friuli, essendo stata presente al Castello Savorgnan di Artegna.


Le Sedonere

"Una gerla via per le strade,
senza fiato:
lamento di spalle spezzate,
di occhi sfiniti.
Una gerla davanti alle porte
Senza cuore:
sudore di sgorbia,
carico da vendere
a chi guarda
 e non conosce la fame."

Questi i versi con cui Novella Cantarutti celebra e descrive le “sedonere”, figlie di quella Val Cellina povera e isolata che le volle randagie per il mondo, lontane dagli affetti e dal conforto della famiglia; peregrine forti e risolute, pronte a ogni sacrificio per garantire il “pane quotidiano” alla loro prole.  Il fenomeno della migrazione femminile valcellinese è storia antica, dettata dalla miseria di una valle a cui anche la natura ha concesso pochi favori. Una valle nella quale l’unica risorsa naturale abbondante fu il legno, quel legno prezioso che abili mani maschili seppero trasformare in mestoli, fascere, forchette e cucchiai … oggetti di uso quotidiano da consegnare alle spalle robuste delle coraggiose “sedonere”. In friulano si scrive: la sedonarie (singolare femminile per “la mestolaia”) e lis sedonariis (plurale, “le mestolaie”).

Il perché di questo quadro è presto spiegato. L’opera raffigurante il Larin della Trattoria ai Frati di Udine, così come la si vede ora, è frutto di una integrazione, ovvero dell’aggiunta della gerla con i mestoli di legno e del piccolo libro con la copertina blu. Integrazione che avvenne mentre il manufatto era in mostra presso la sala della contadinanza del Castello di Udine, allorquando, negli stessi ambienti, venne assegnato il premio “Isi Benini” all’interessantissima tesi di laurea di Anna Leo dedicata per l'appunto al commercio ambulante delle ultime sedonere della Valcellina. Opera del 1995.


La cantina

L’arte di produrre vino è un concetto dal quale non si può prescindere se si vuole parlare del Friuli Venezia Giulia. Il binomio tra questa regione e i mosti d’uva distillati nei vari Tocai, Merlot e Cabernet ha origini antiche, tant’è che prima che il vino diventasse un “affare economico” a livello industriale, quasi  ogni casa contadina del medio e basso Friuli, custodiva una cantina con le botti nelle quali far fermentare il vino necessario a soddisfare i bisogni famigliari. Nel diorama è rappresentata una tipica cantina friulana. Un antro buio e ammuffito, la cui umidità era garantita dal fatto che la pavimentazione fosse costituita da terra battuta e solo in parte realizzata con pietre e materiali di risulta. Una delle botti presenti nell’opera è un omaggio al “Vino della pace”; un vino arricchito dai profumi di 600 vitigni diversi provenienti da tutti i continenti e messi a dimora, a partire dal 1983, su di un appezzamento delle sinuose colline del Collio. Imbottigliato in un numero limitato di bottiglie, impreziosite da etichette realizzate dai più importanti artisti italiani ed europei, viene donato, quale dono e invito alla convivialità tra i popoli, a tutti i capi di stato e ai più alti esponenti religiosi del mondo.


La stalla

Nel Friuli contadino, la stalla non era soltanto il luogo dove ricoverare il bestiame e qualche attrezzo di lavoro, ma era anche un’estensione dello spazio domestico; l’unico, peraltro, che poteva vantare un riscaldamento costante a costo zero. In un’epoca in cui l’approvvigionamento  del legname era, per carenza di mezzi, un’impresa faticosa e rischiosa, il calore emanato dai bovini rappresentava un risorsa preziosa. Fu così che, fino a tempi relativamente recenti, la stalla venne utilizzata al pari di una qualsiasi stanza della casa, luogo dove la sera ci si ritrovava a compiere piccoli lavori manuali, dove si lavavano i bambini e dove i più anziani narravano qualche antica leggenda confortati dal tepore animale. Opera del 1995.



Piazza Matteotti, in antico: San Giacomo

La composizione, realizzata in occasione della prima edizione della manifestazione enogastronomica “Friuli Doc” del 1995, “racconta”, assumendone una a paradigma di tante, il lavoro delle contadine della periferia udinese che, agli albori del giorno, raccoglievano le verdure e gli ortaggi dai loro campi e si recavano a vendere i frutti della loro terra in quella che molti ricordano come “piazza dell’erbe” (attuale piazza Matteotti). La  disposizione, la tipologia dei contenitori e l’abbigliamento della donna contestualizzano la scena nel periodo antecedente la legiferazione delle rigide norme finanziarie che sancirono l’obbligo dei registratori di cassa, decretando, in tal modo, la fine di quella microeconomia che serviva ad integrare l’esiguo bilancio famigliare e la scomparsa dell’anima poetica e colorata dell’antico mercato spontaneo. Sullo sfondo pochi ed essenziali tratti pittorici definiscono lo skyline della piazza, con la fontana di Giovanni da Udine, della metà del ‘500, con la colonna della Madonna col Bambino, della fine del 1400, e con la splendida facciata della chiesa di San Giacomo.
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Omaggio a Isi Benini
Il quadro tridimensionale raffigurante una tipica cucina friulana cristallizzata in un tempo remoto nasce per essere un omaggio a Isi Benini, gigante del giornalismo regionale. Eclettico cantore del Friuli, Benini dedicò parte della sua produzione letteraria alla straordinaria ricchezza dell’enogastronomia tipica regionale che seppe descrivere come nessun altro.

L’opera è un piccolo compendio di friulanità nel quale sono disseminati, qua e là, molti degli “ingredienti base” della tipica cucina contadina: le zucche per gli “inarrivabili gnocs di cavoces  della Carnia… quelli fatti con la zucca gialla e cosparsi di burro fuso bollente… il radicchio, quello da condire con li frizzis… i fagioli, quelli da far bollire per ore assieme all’orzo e la caldaia con la crosticina croccante e profumata della polenta… quella carnica, macinata a grana grossa su mole di pietra. Sul davanzale una bottiglia polverosa, forse di prezioso Picolit il roy dell’enologia friulana e italiana . E poi là, sull’acquaio di pietra, un mazzo di asparagi… altro omaggio a Isi, deus ex machina dell’Asparagus, straordinaria rassegna gastronomica nata per celebrare l’asparago, profumato reuccio degli orti di Tavagnacco, come lo definì Benini. Insomma qui c’è tanto Friuli e ci sono i frutti della terra friulana, quelli che il palato intelligente di Isi Benini seppe gustare e il suo calamo abilissimo seppe cantare.




Il Camarin

Il camarin è il termine friulano col quale si identifica la dispensa, ovvero “la cassaforte” della casa contadina di un tempo. Salumi, formaggi, legumi secchi, farina, lardo e vino venivano meticolosamente stipati sugli scaffali della stanzetta per garantire l’approvvigionamento alimentare durante il periodo invernale. Orgoglio e vanto della padrona di casa un camarin ben fornito era l’esito del faticoso lavoro nei campi, dell’allevamento del bestiame e di un attenta e oculata gestione dell’economia famigliare. Un bottino conquistato col sudore che doveva essere gestito con parsimonia e protetto, chiuso con quelle chiavi che solo lei poteva custodire.

            
     Credenza con piattaia
Opera premiata col Gianfrancesco da Tolmezzo in occasione della diciassettesima rassegna artistica della Carnia  (Socchieve 1996); protagonista la cucina friulana. Accanto al consueto focolare trova collocazione una bella credenza a pianta rettangolare con spigoli anteriori smussati con sovrapposta piatteria  sulla quale sono esposti piatti decorati, “miniceramiche” ispirate alle note produzioni con fiori e motti friulani della fabbrica Galvani, fondata a Pordenone nel 1811. Sulla parete i preziosi rami; tra di essi il tipico tegame con decorazione a sbalzo raffigurante la stella, che, secondo tradizione, la sposa inseriva nel suo corredo come elemento scaramantico, garante della buona sorte del matrimonio.

Si ringrazia per le fotografie: Hans Gerhard Kalian, Grafik- und Webdesign. Strau, Österreich.
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Per approfondimenti nel web:
- E. Varutti, La casa contadina della Val Canale in diorama, Malborghetto, recensione nel blog del 2016.
- E. Varutti, I diorami di Franca Venuti Caronna, articolo del 2017.
- Su youtube: Laura Magri (a cura di), Nel magico mondo della Valcanale - Malborghetto (UD), 2015. Musiche del video-clip di Adriano Sangineto.

giovedì 11 maggio 2017

Gita a Bratislava

Il gruppo di Boscolo Tours arriva a Bratislava (Slovacchia) domenica 16 aprile 2017. Si chiamava Pressburg, in lingua tedesca, o Presburgo, in italiano. Fortuna che al Danubio (Dunaj, in slovacco), qui già maestoso, non hanno cambiato nome i vari padroni che si sono succeduti. Oggi è nell’Unione Europea e come moneta ha l’euro. Questa è una bella città.
Bratislava - Teatro Nazionale Slovacco, col trenino elettrico rosso per i turisti

La città è menzionata negli Annali di Fulda come Bratslaburgum, nel 907, come insediamento presso la confluenza della Morava col Danubio. Pare che qui un principe moravo venne sconfitto da un suo omonimo ungherese. Tuttavia a rifondare Bratislava, verso l’anno Mille, fu proprio il re d’Ungheria Stefano I il Santo, poi arrivarono le migrazioni bavaresi, da cui pure il nome in tedesco di Pressburg, oltre a quello magiaro Pozsony.
La città assunse il nome di Bratislava (pronuncia slovacca: ˈbracɪslava) il 6 marzo 1919, da un concorso pubblico indetto per individuare un nome, slovacco, alternativo a Prešporok, derivato da Pressburg, nome tedesco della città, che oggi conta oltre 400 mila abitanti. Essi sono prevalentemente di madrelingua slovacca (oltre il 90%), ma convivono altri gruppi linguistici, come quello ungherese (3,8%), quello ceco (1,9%) e, perfino, uno tedesco (0,3%) non senza contrasti politici e, persino, a livello istituzionale.
Torre - porta di San Michele, nel centro città

Sotto gli Asburgo, dal 1536 al 1784, questa città fu capitale, niente meno che, del regno d’Ungheria. Naturalmente gli affibbiarono il nome ungherese di Pozsony. Nei libri si storia viene ricordata col suo nome tedesco (Pressburg), dato che fu il sito della stesura del trattato di pace tra Napoleone e Francesco I d’Austria, dopo la battaglia di Austerlitz, il 26 dicembre 1805.
Si alloggia al hotel Radisson Blu, molto comodo, bello e confortevole. Poi si scopre che nel 1908-1912 era il Carlton, unito al ristorante Savoy. È stato ristrutturato nel 2001, trasformandolo in un hotel a quattro stelle. Questo sito, importante poiché vicino al porto sul Danubio, sin dal XIII secolo poteva vantare un luogo di accoglienza e di ristorazione che andava sotto il nome di Locanda del Cigno, per mercadanti e venditori vari.
Hotel Radisson Blu, già Carlton dei primi del Novecento

Vicino all’hotel si può visitare: Monumentálne súsošie štúrovcov, scultura monumentale dedicata a Ľudovít Štúr, linguista, poeta e giornalista slovacco dell’Ottocento. L’opera è del 1973 in granito e bronzo.
La guida turistica, signora Zuzana (pronuncia come da noi: Susanna), è pronta per scarrozzarci con un trenino elettrico, rosso pomodoro, su fino al Castello, edificato sin dal Medioevo. Mezzo di locomozione indovinato, perché va lento e consente alla brava guida di descrivere alcune bellezze della città. È un po’ ridicolo, questo trenino, ma molto ecologico, checché se ne dica.
Palazzo della Filarmonica, del 1911-1915, detto della "Reduta"

Vediamo il Teatro Nazionale Slovacco, poi il palazzo della Filarmonica, con un gustoso ingresso ad arco adornato in stile eclettico di ambiente Liberty o Sezessionstil, come si dovrebbe dire qui, essendo a pochi passi da Vienna, dove appunto la Wiener Sezession nacque nel 1896.
Al Castello si scende e si procede a piedi. Zuzana parla al radiomicrofono e noi ascoltiamo alle cuffie, mentre possiamo fare con calma qualche fotografia, oppure staccarci un po’ dal gruppo. Non molto, però, altrimenti si perde l’audio.
Il Castello è stato bombardato e distrutto durante la seconda guerra mondiale. Ricostruito in periodo di dominazione sovietica, ci spiega Zuzana, l’avevano tinteggiato, apposta per svalutare l’importanza dei regnanti del passato, con un inquietante colorino marrone.
Il Vecchio Municipio, del Trecento, rimaneggiato nei secoli seguenti

Crollato il Muro di Berlino, nel 1989, e dissoltasi la vecchia Unione sovietica, con tutto il suo apparato di stati satellite, tra i quali c’era la Cecoslovacchia, anche il Castello ha potuto riacquistare la sua dignità edilizia, soprattutto dopo il restauro del 2003-2006 e un ulteriore abbellimento a partire dal 2008.
La sua forma a quadrilatero con le torri puntute l’ha fatto soprannominare dal popolo come il “Tavolo rovesciato”. È stato residenza della famiglia reale ungherese, tenendo ben lontane le orde assassine durante le invasioni turche. Dal 1572 al 1784 ha custodito il tesoro della corona. Tra Settecento e Ottocento fu seminario, caserma e, dopo un grave incendio del 1811, fu lasciato tra cumuli di ruderi, fino alle ristrutturazioni novecentesche.
Il Vecchio Arcivescovado

Il giro turistico prosegue verso il centro storico, scendendo dal Castello. Dall’alto abbiamo visto i confini della vicina Austria, pieni zeppi di pale eoliche e quelli della altrettanto vicina Ungheria, dietro i moderni palazzi della Bratislava del Duemila. Quella zona è come una metropoli americana o europea dell’Ovest, tanto per citare le vecchie geografie.
Zuzana ci ricorda, con un sorrisetto garbato, che i suoi genitori, verso il 1990-1991, quando fu aperto il confine con l’Austria, non credendo ai loro occhi, varcarono quella soglia cinque o sei volte. Zuzana dice che andavano avanti e indietro, come tanti altri slovacchi della città che si apriva all’Occidente. Era crollata la Cortina di Ferro
Era dal 1945 che quel confine era invalicabile, pieno di mezzi militari. Nessuno passava. Forse, di notte, solo per uno scambio di spie della guerra fredda. Ti credo che i veciotti, nati a Pressburg, andavano avanti e indietro, finalmente liberi, almeno in quel semplice atto di passare un confine statale coi documenti.
La torre del municipio vecchio, del 1734, con una palla di cannone conficcata a sinistra delle finestre gotiche

Si entra nel quartiere di San Michele, con relativa Torre-porta a forma quadrata del Trecento. Si cammina nel pittoresco Korzo, la stretta strada piena di negozi e ristoranti tradizionali o alla moda. Più che un Corso, sembra un intrico di vetrine e di palazzi. Si passa vicino alla trecentesca farmacia del Gambero Rosso, con l’insegna che fa dubitare non poco, dato che pare più un’aragosta che un gambero. Altri edifici e case imponenti sono del Sei-Settecento.
L'entrata al Castello

Poi si gira in piazza Maggiore per vedere il Municipio Vecchio, costruzione trecentesca rimaneggiata tra il ‘400 e il ‘500 e rivisitata nel Novecento. La torre è del 1734.

Avrò tralasciato molte altre bellezze di questa città, ma è uno dei motivi per cui ritornare a visitarla. Anche perché le persone qui sono accoglienti e simpatiche.
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Servizio giornalistico, fotografico e di networking di Elio Varutti

Il lungo Danubio col Monumentálne súsošie štúrovcov, scultura monumentale dedicata a Ľudovít Štúr, linguista, poeta e giornalista slovacco dell’Ottocento. L’opera è del 1973 in granito e bronzo

Panorama dal Castello, con la città moderna del Duemila e, in fondo, l'Ungheria

Panorama dal Castello con l'Austria sulla destra, piena di pale eoliche

Torre Ufo e Ponte Nuovo

Piazza Maggiore con la statua di Orlando

Il Duomo di San Martino in notturna

Il gruppo di Boscolo Tours, aprile 2017, sul Castello
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Altri link di miei articoli nel web:

- E. Varutti, Visitare Varsavia, 2017.

-  E. Varutti, Gita a Cracovia, 2017.


- E. Varutti, Auschwitz, luogo della Shoah, 2017.

- E. Varutti, Gita a Bratislava, 2017.