sabato 29 gennaio 2022

Ebrei jugoslavi salvati dall’Esercito Italiano al Campo di Preza, in Albania, conferenza a Tarcento (UD)

“Qualcuno potrà non capire, ma bisogna ricordare”. Con queste parole ha chiuso il suo intervento Mauro Steccati, sindaco di Tarcento (UD), in occasione del Giorno della Memoria 2022. Il sindaco ha sottolineato come la violenza nazista si sia accanita contro i sei milioni di ebrei uccisi nei campi della morte e contro i dissidenti, gli omosessuali e gli zingari. L’evento, dedicato alla Shoah, si è svolto il 28 gennaio 2022, alle ore 18, presso la Biblioteca “Pierluigi Cappello” di Tarcento, coinvolgendo oltre 25 persone, secondo le norme anti-Covid19.

Elio Varutti, Silvia Fina e Mauro Steccati

Dietro la bandiera della Dalmazia, ha aperto i lavori dell’incontro Silvia Fina, assessore alle Politiche inerenti al turismo, alla promozione dei siti storici naturalistici e della Biblioteca Comunale di Tarcento. L’assessore Fina ha presentato il relatore della serata e il titolo dell’incontro con diapositive, accennando alle analoghe iniziative svolte negli anni scorsi sul tema delle Leggi Razziali e della persecuzione degli ebrei. Ha riferito inoltre che certi suoi parenti di Servola (TS), nel 1944, vedevano uscire il fumo dalla ciminiera della Risiera di San Sabba, unico Campo di sterminio nazista in Italia.

Ha poi avuto la parola il professor Elio Varutti, coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine. Il relatore ha illustrato il tema sconosciuto degli “Ebrei jugoslavi salvati dall’Esercito Italiano al Campo di Preza, in Albania nel 1941-1942”. La ricerca è incentrata sul libro di Vasko Kostić, uscito nel 2014 nella traduzione italiana, che esalta le virtù dei soldati italiani durante l’occupazione del Montenegro. Il testo riferisce degli internati jugoslavi a Preza, in Albania, in un Campo di concentramento gestito dagli italiani. A Preza sono imprigionati impiegati della pubblica amministrazione, maestri, professori, intellettuali, medici, impiegati bancari e altri il cui libero pensiero non comunista non accettava l’annessione italiana delle Bocche del Cattaro (Vasko Kostić, pag. 67). Le condizioni di vita in tale campo di concentramento sono definite “sostenibili”.

C’è anche un dato numerico assai interessante. “Nell’aprile 1942, da Pristina a Preza furono portati 79 ebrei” (p. 145). Essi preferivano stare con gli Italiani, anziché finire arrestati dagli ustascia croati, alleati di Hitler, che li avrebbero spediti ai campi di sterminio.

Vasko Kostić scrive liberamente dopo il 2010-2011. Fino a qualche anno prima la censura jugoslava gli bloccava ogni suo articolo sulla stampa locale. Egli è un serbo delle Bocche del Cattaro, nato nel 1930, pilota militare e controllore di volo, ingegnere con tre lauree, storico, pubblicista e scrittore, membro dell’Associazione montenegrina degli storici. Ha al suo attivo più di quaranta libri e oltre 800 pubblicazioni. Kostić riporta anche i cambi di casacca nelle Bocche del Cattaro, provincia annessa al Regno d’Italia fino all’arrivo dei partigiani titini. Chi dal 1941 veste divise fasciste, coi figli balilla o della GIL, dopo la guerra diventa niente meno che un quadro del Partito comunista (p. 74). L’autore del memoriale scrive che diversi “bocchesi”, ossia gli abitanti delle Bocche del Cattaro, dal 1941 si sentono italiani. Sarà per i vecchi ricordi della dominazione veneziana, sta di fatto che i militari italiani li trattano come cittadini dello stesso stato. Molti bocchesi non sono comunisti (Vasko Kostić, pag. 112), anche se a guerra finita il regime di Tito ed i suoi storiografi, li fanno appartenere al comunismo per comodità politica. Perasto, anni ’40. Cittadina del Montenegro, di origine veneziana, è famosa per il giuramento alla caduta di Venezia nel 1797: «Ti con nu, nu con ti».

Nel dibattito che è seguito Donatella Prando, assessore alle Finanze e patrimonio del Comune di Tarcento ha rivolto una domanda riguardo al Campo di concentramento di Gonars (UD). Il relatore ha risposto spiegando che là, dal 1941 al 1943, sono stati internati civili sloveni e croati, con le famiglie, dopo che l’Italia con gli alleati aveva invaso la Jugoslavia. Le vittime furono oltre 400, oggi ricordate in un monumento del 1973 presso il locale cimitero.

Tra i il pubblico si è notato Edoardo Di Giorgio, del gruppo ANA di Collalto, oltre ai soci ANVGD Giuseppe Capoluongo e Rosalba Meneghini, la quale ha presenziato quale delegata di Bruna Zuccolin, presidente del sodalizio.

Suggerimenti bibliografici e di sitologia - Sul trattamento degli ebrei di Pristina, in Kosovo, nella seconda guerra mondiale, si possono vedere:

- Vasko Kostić, Storia di un prigioniero degli italiani durante la guerra in Montenegro (1941-1943), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 2014. Titolo originale in lingua serba: Preza koncentracioni logor (Preza, campo di concentramento), 2011, traduzione italiana di Mila Mihajlović, cura delle bozze di Elio Carlo. Opera pubblicata col contributo del Comitato Provinciale di Padova dell’ANVGD.

- Michele Sarfatti, “Tra uccisione e protezione. I rifugiati ebrei in Kosovo nel marzo 1942 e le autorità tedesche, italiane e albanesi”, «La Rassegna Mensile di Israel», vol. 76, n. 3, settembre-dicembre 2010, pp. 223-242.

Sui montenegrini deportati vedi: Drago V. Ivanović, Memorie di un internato montenegrino. Colfiorito 1943, ISUC [traduzione parziale di Ivanović 1989, con saggio introduttivo di Dino Renato Nardelli - traduzione di Olga Simčić], Foligno (PG), Editoriale Umbra, 2004.

- E. Varutti, Cattaro, meglio prigioniero degli italiani che dei tedeschi in Montenegro 1941-1943, on line dal giorno 8 ottobre 2018 su  eliovarutti.blogspot.com

Testi e Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti, Docente di "Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata" – Università della Terza Età, Udine. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie della Biblioteca di Tarcento (UD), che si ringrazia per la cortese concessione alla diffusione e pubblicazione.

mercoledì 19 gennaio 2022

La patria lasciata. Gli slavi Radolovich dall’Istria ai Campi profughi di Udine e Laterina, 1956

Proponiamo la lettura di un recente testo sull’esodo scritto da Edoardo Radolovich, Secretariovi, nato nel 1948 a Ciòlin / Dvori, comune di Castellier-Santa Domenica / Kaštelir-Labinci, vicino a Parenzo. Si tratta di una famiglia contadina istriana di sentimenti serbo-croati, come si diceva al tempo della Jugoslavia, che non ce la fa più a stare sotto Tito dal punto di vista economico, oltre che politico. Nel 1954 Giovanni, il capofamiglia, classe 1920, chiede i documenti per emigrare, pagando un’alta cifra, con l’aiuto dei parenti, ma perdendo la casa, la stalla e i campi di Marzana. Poi nel 1956 c’è la partenza in treno per Trieste, ritornata all’Italia nel 1954. Il bambino Edoardo transita con i familiari al Centro smistamento profughi di Udine, dove vengono destinati al Centro raccolta profughi di Laterina (AR). La famiglia, infine, è residente a Spinea (VE), dove con la scuola, il lavoro, la casa popolare ed i risparmi tutti i Radolovich si sistemano. Ringraziamo l’Autore per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle sue peripezie da bambino nella guerra fredda, preoccupato più del suo gatto istriano che della vita nelle baracche di Laterina. È pieno di tenerezza il brano dove racconta che in tre scolari escono dal Campo, in estate, per andare a trovare la maestra Giulietta Del Vita di Montevarchi, perdendosi nella notte. Diffondiamo queste storie convinti come siamo che lo spirito europeo pervade l’Istria, Fiume e la Dalmazia, oggetto di spartizione nazionalista nel Novecento. In parentesi riquadrate sono segnate alcune note di spiegazione. (a cura di Elio Varutti).

Asilo di Marzana (Pola), la prima a destra in piedi è Laura Radolovich, sorella dell'Autore, primi anni '50. Collezione di Edoardo Radolovich
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“Eravamo nel dopoguerra e con Tito presidente, ma l’attenzione alle cose politiche era ancora altissima. Non tutto funzionava ottimamente, come dappertutto, ma la mancanza di libertà di espressione era quella che pesava di più sulla gente. Il fatto che non vedevano di buon occhio chi frequentasse la chiesa o il controllo subdolo di chi parlava o criticava il regime non piaceva a nessuno”. (Edoardo Radolovich, Dvori. Breve storia di un bimbo Slavo con genitori Italiani e nonni Austriaci, pp. 22-23).

“Era arrivato, nostro malgrado, il triste momento in cui ci dovemmo trasferire. Così, a malincuore, lo lasciammo a casa [riferito al gatto, NdR] come i parenti, gli amici e tutta una vita di ricordi. Una zia, sorella della mamma, si prese cura di lui semplicemente portandogli da mangiare. Non potevamo pretendere che lo adottasse ma i fatti hanno dimostrato che non sarebbe stato possibile”. (p. 28).

“Lo stipendio di papà era composto da un 50 per cento di paga e l’altro 50% di assegni familiari che magari male, ma ci facevano campare. Ad un certo punto il governo decise di togliere gli assegni a chi aveva qualche terreno e noi eravamo tra questi. Chi conosce le zone sa che ci sono più rocce che terra e la resa è minima. Per dire che non ci facevano certo arricchire quei quattro campi. Insomma si cominciava a fare la fame e così, d’accordo anche con altri parenti, i nostri genitori decisero di chiedere i passaporti ed andarsene. Ci vollero due anni per averli pagando pure molto. Solo con l’aiuto del fratello Toni, che faceva l’autista per l’azienda di Pola, mio padre riuscì a racimolare l’importo necessario. Una volta in possesso dei documenti chiese di andare in Francia che, a quanto sembra, non ci volle. In Italia sì, come profughi. Poi venni a sapere che per ottenere il passaporto mio padre dovette firmare una rinuncia a tutto ciò che aveva. In parole povere lasciammo tutto: casa, vigna, orto, campi, bosco e pure il povero gatto rimase lì. Non so quali leggi internazionali potessero consentire ciò, ma fu esattamente così. Lavoro, sudore e morte del nonno buttati al vento o meglio lasciati a Tito” (pp. 29-30).

“Vicino a Dvori [Campi, NdR], in un terreno di proprietà del nonno poi di zio Giuseppe (Sip), c’è una foiba il cui ‘ingresso’ è riconoscibile perché attorno ci sono arbusti ed erbacce in quanto il taglio dell’erba o la sola manutenzione dell’area viene fatta tutto intorno senza avvicinarsi troppo al “buco” (…). “Anche un Carlo Radolović di Marzana / Marčana fu infoibato, ma mai ho sentito racconti sull’accaduto, dai parenti o amici. Solo in qualche libro o in Internet ho trovato notizie”. (p. 16).

“La decisione era presa e così facemmo i preparativi vendendo quello che si poteva e facendosi prestare qualche dinaro dai fratelli di nostro padre che lì rimanevano. I giorni prima della partenza ci fu una processione di parenti ed amici per i saluti di rito. Mentre i genitori si scambiavano parlavano scambiandosi ancora opinioni su cosa fosse meglio fare noi bambini giocavamo storpiando le parole fingendo così di parlare in italiano. Arrivò il giorno della partenza senza che noi sapessimo neanche una parola di italiano mentre, si sa, i nostri genitori e tutti gli altri adulti le conoscevano entrambe. Oltre a noi partirono: i nonni materni, Pietro Cerlenizza e Maria Pletikos con i figli Carlo, Antonio, Maria, Mirella, Miriana. Restarono Ljuba e Lidia. I Radolović rimasti furono, Antonio, Giuseppe ed Anna, perché Maria con il marito Pietro ed i due figli (Dino e Danilo) ci raggiunsero più avanti. [Sulla vicenda di Dino Radolovich, cugino dell’Autore, vedi in Bibliografia]. Il pomeriggio del 4 gennaio salimmo sul treno a carbone che ci portò a Trieste poi Udine quale centro di smistamento. Anche con i finestrini chiusi entrava la fuliggine e anneriva tutto lo scompartimento. Non dormii mai e guardai fuori dal finestrino per tutta la notte anche se l’unica cosa che si vedeva era qualche luce fioca in lontananza. Forse stavo prendendo coscienza di quello che stava accadendo. Non c’era più voglia di ridere o scherzare ma solo nostalgia della mia casa e del mio gatto che non avrei più visto” (p. 30).

“Arrivati a Udine abbiamo dormito una notte su un letto quasi vero poi la mattina seguente siamo rimontati sul treno che ci ha portato a Laterina in provincia di Arezzo. Di questa seconda parte di viaggio non ricordo niente (p. 31).

Edoardo Radolovich e la cisterna (costruita dal nonno Antonio) del 1926 a Ciòlin / Dvori (Campi), comune di Castellier-Santa Domenica / Kaštelir-Labinci, vicino a Parenzo,  Immagine del 2007. Collezione Edoardo Radolovich

L'arrivo al Crp di Laterina - “L’entrata era delimitata da due pilastri e probabilmente un tempo c’era anche una sbarra ed una garitta per il piantone dato che è stato un campo di detenzione bellica, poi reclusorio sotto i nazisti ed ancora campo di concentramento per tedeschi. Dal 1946 al 1963 come campo profughi dell’Istria, Fiume e Dalmazia. Entrammo nel CRP senza parlare con mio padre e la mamma che trascinavano le tre valigie come unico bagaglio con cui eravamo partiti. Lì dentro c’era tutto quello che avevamo ed eravamo riusciti a portare con noi. Sono convinto che tutti e quattro ci chiedessimo perché eravamo lì. Soprattutto noi bambini che non conoscevamo le vere motivazioni che ci avevano portato a lasciare tutto ciò che avevamo per andare in quel posto desolato pieno di baracche. Entrando si intravedevano alcune casupole qua e là che poi incominciammo a conoscere. C’era un piccolo negozio, un bar, gli uffici della direzione, l’asilo, la scuola ed altre costruzioni utili alla comunità. Più avanti, sulla sinistra la schiera di baracche tutte uguali con in fondo la chiesa ed in mezzo un campo da calcio con porte senza reti. Gli spazi all’interno delle lunghe baracche erano suddivisi da coperte militari appese a filo di ferro che creavano così delle piccole unità un cui risiedevano le famiglie. I letti erano brande militari a castello ed il servizio igienico ubicato all’esterno in fondo alla costruzione. (p. 31).

“Finestre fatiscenti e solaio di copertura a vista contribuivano a rendere impossibile un minimo di riscaldamento degli ambienti che erano veramente freddi, o meglio invivibili. Qualche fornello elettrico qua e là per cucinare completava l’arredo. Questa la nostra nuova casa. Per le prime necessità ci veniva data una indennità che era pari a quella dei militari di leva ovvero poche lire senza considerare che quest’ultimi avevano vitto, alloggio e vestiario gratis. Questi edifici erano situati nella piana vicino alle rive dell’Arno da cui si vedeva, in collina, il paese di Laterina dove, a volte, si andava a far spesa percorrendo una strada sterrata molto ripida che però faceva arrivare prima. Il campo da calcio al centro del complesso era il punto di ritrovo dei ragazzi e d’estate non c’era neanche un filo d’erba tanto era usato. Verso la fine del campo la chiesetta dove radunarono bambini e ci fecero vedere il film di Fatima [Nostra Signora di Fatima, 1952]. Era la prima volta che vedevamo uno spettacolo del genere”.

“Dopo poco alcuni uomini, tra cui mio padre, andarono a fare un corso da muratori. L’Arno era la migliore attrazione sia per la possibilità di fare il bagno sia perché comunque l’acqua ha sempre il suo fascino. In certe ore, d’estate, era possibile guadarlo ma verso sera era pericoloso perché aprivano una diga a monte e l’acqua saliva. Molti ragazzi purtroppo sono morti annegati in quel fiume. Lasciando l’Istria abbandonammo pure la scuola che là iniziava a sette anni mentre in Italia a sei. Mi trovai nella situazione di aver frequentato sette mesi della seconda elementare in lingua slava e così nasceva il problema su cosa fare. Pretendevano di farmi ricominciare dalla prima e cosi avrei perso un altro anno ma mio padre si oppose fermamente tanto che continuai la seconda in lingua Italiana. Mia sorella Laura aveva l’età giusta per la prima elementare. Non fu facile per nessuno di noi due ricominciare da zero in lingua italiana, ma i risultati sono stati lusinghieri. La mattina entravo in classe ed ascoltavo, ma non capivo praticamente nulla. Niente comunque mi distraeva e nulla mi sfuggiva di quanto dicesse la maestra, ma sempre scena muta feci per vari giorni se non mesi. L’unico momento in cui mi rilassavo era quando faceva aritmetica. Lì non serviva capire ma bastava conoscere i numeri ed intuire” (p. 32).

“A casa mi chiedevano come andasse ed io rispondevo che tutto procedeva nel migliore dei modi. Tutti tranquilli ma sapevo che avevano fiducia in me. Per agevolarci parlavano sempre in italiano, ma assomigliava di più al dialetto veneziano, anzi triestino, come direbbe qualcuno. Cosa che mai avevano fatto in Istria anche perché non era consigliabile in quei tempi. Dopo qualche mese mi svegliai improvvisamente dal ‘coma’ e cominciai a collegare le parole tra di loro con i relativi significati e mi bastò per iniziare la nuova vita in un nuovo paese. Ora mi fanno ancora ridere i genitori che insistono nel parlare la lingua, che magari manco conoscono bene, invece del dialetto pensando di aiutare i figli ad essere più intelligenti”.

“Gli spazi del campo erano delimitati dal lato est dall’ingresso e recinzione, dai lati sud e nord da altre recinzioni. In particolare oltre la rete a sud c’era un campo coltivato a tabacco. Piante affascinanti con altissime foglie almeno per un ragazzino come me. L’unica via libera era quella che portava al fiume Arno che distava pochissimi metri dal campo. La conformazione dell’insediamento, che in pratica era chiuso, faceva sì che i miei genitori mi lasciassero uscire di casa senza particolari problemi. D’altro canto era impensabile vivere nella baracca. La libertà, l’ambiente e le compagnie mi fecero diventare un po’ selvaggio. Stando tutto il giorno fuori era inevitabile qualche scaramuccia con gli altri bambini soprattutto se provocato. Purtroppo succede spesso quando i ragazzi sono troppo liberi. A me è costato un sasso in testa, dopo una disputa a sassate, che mi vide tornare a casa tutto insanguinato, ma me la cavai con qualche punto di sutura che mi fecero nell’infermeria presente in loco. La situazione si ripeterà. In pratica se al centro del campo si elevava una nube di polvere c’ero io che baruffavo con qualcuno e quasi sempre appariva mio padre che vedeva la nuvola e mi separava dal rivale di turno (p. 33).

Laterina, Baracche del Campo profughi in uno scatto fotografico di fine anni '60, dopo la dismissione della struttura. Collezione Edoardo Radolovich

Sulle rive dell’Arno - “Più volte avevamo notato che l’Arno in certe ore si abbassava di molto e consentiva quasi il suo attraversamento, ma più che una nuotata non avevamo fatto niente di azzardato. Studiata la situazione preparammo un progetto al fine di esplorare l’altra riva. Così comprammo un paio di scatolette di carne ed un po’ di pane mentre il terzo era addetto alle posate. La mattina partimmo con tutto l’occorrente ed attraversammo agevolmente il fiume. Poi salimmo sulla collinetta che ci trovammo davanti fino a trovare uno spiazzo dove mangiare la carne in scatola. Tutto bene e tutto buono e non poteva essere altrimenti ma spingendoci un po’ più in alto trovammo una fattoria con delle oche. Credo che fossero più grandi di noi e cominciarono a starnazzare e rincorrerci fino quasi a beccarci con una cattiveria come non si era mai vista. Oche da guardia. Il tempo passava ed era ora di tornare a casa e così facemmo. Guadammo l’Arno nel senso inverso ma, nel frattempo, le dighe a monte erano state aperte e proprio nell’ultimo tratto l’acqua era molto alta e così lo facemmo a nuoto. L’amico che portò le posate ne perse una e si disperò per quello che poi sarebbe successo una volta a casa. Si tuffò ma invano. Impossibile in un fiume trovare una forchetta”.

“A casa ci ritornammo sani e salvi, ma oramai era già buio. Per la verità molti abitanti il campo facevano quel percorso per andare a prendere l’acqua di una sorgente che aveva il pregio di essere pure frizzante. La nostra maestra [Giulietta Del Vita] non solo era brava, ma anche carina oltre che simpatica e per questi motivi eravamo molto legati a lei. Parlando del più e del meno un volta ci disse che abitava a Montevarchi che era un paese a nord di Laterina e distava 12-13 chilometri (p. 34).

“Era un giornata estiva e con il solito gruppetto camminavamo sulle sponde dell’Arno quando mi venne un’idea malsana. Andare a trovare la maestra e facendo un piccolo calcolo in due ore potevamo essere a Montevarchi. Oramai l’aritmetica e la logica erano il nostro pane. Continuammo lungo il fiume ma non era molto agevole anche perché ogni tanto c’era un torrentello che si immetteva e per noi era impossibile attraversarlo se non andare in cerca di qualche ponticello. Così però avremmo perso troppo tempo e già eravamo partiti a pomeriggio inoltrato. Decidemmo altresì di raggiungere la strada statale che stava poco più su. Camminammo molto ai bordi della stessa con qualche macchina che passava ogni tanto, ma a dire il vero erano pochissime in quel periodo. Dopo qualche ora arrivammo alle porte del paese ovvero dove c’era il cartello stradale con su scritto Montevarchi”.

“Tutti felici (eravamo in tre) guardammo il cartello, ma le luci stradali in quel momento si accesero e ci rendemmo conto che era quasi sera. Invertimmo velocemente la marcia e seguendo la strada ci incamminammo verso Laterina. Dopo un paio di ore era completamente buio ed eravamo scoraggiati anche se non proprio impauriti. D’altro canto avevamo circa otto-nove anni ed impreparati a tutto o quasi. Qualcuno di noi stava per disperarsi e minacciava di buttarsi sotto una delle poche automobili che passavano di lì” (p. 35).

“Nel frattempo, abbiamo saputo dopo, che nel campo c’era una grande agitazione perché tre ragazzi mancavano all’appello e la paura più grande era che fossimo annegati come molti altri purtroppo. Tutto un via vai di gente che non sapeva che fare se non avvisare le autorità della scomparsa dei bambini. Noi intanto camminavamo sconsolati perché, mentre all’andata e di giorno il tragitto sembrava facile e veloce, la sera era tutto diverso. Il tempo non passava mai e tantomeno diminuiva la distanza almeno così sembrava a noi. La fortuna ci assistette perché una Topolino [Fiat] si fermò ed il conducente ci chiese dove stavamo andando. Ci invitò a salire visto che anche lui andava in quella direzione. Salimmo su veloci ed un po’ rinfrancati oltre che contenti del nostro primo giro in macchina”.

Marzana / Marčana (Istria, Croazia), la stalla per capra e maialino abbandonata nel 1956, Collezione Edoardo Radolovich

Niente sculaccioni - “Arrivati alle porte del campo trovammo una marea di persone, tutte agitate, ed appena scesi la prima cosa che ci aspettavamo era uno sculaccione o, meglio ancora, un sonoro schiaffo come si deve. I miei erano infuriati e soprattutto mia madre che gridava un po’ per la gioia un po’ per il nervoso che non riusciva a contenere e urlando mi chiese: “Ma dove sei andato?” Non capivo più nulla e dissi una scemenza qualsiasi che ebbe un effetto liberatorio con tutti che si misero a ridere e così evitai punizioni. D’altro canto troppa era la loro gioia nel rivedermi e la mia nell’essere tornato a casa” (p. 36).

“Sfortuna volle che proprio nel 1957 scoppiasse l’influenza asiatica. Ci ammalammo tutti. Io per ultimo e, proprio quando pensavo di cavarmela, la febbre arrivò. Si può dire che quel periodo è servito per organizzarci dall’inizio per poi ripartire e fare una vita normale. Mamma acquistando a rate una macchina da cucire Singer, papà lavorando come muratore quando trovava [occupazione]. Un anno di campo poteva bastare anche perché non era quella la vita che potevamo continuare a fare. Così mio padre partì per Venezia, dove c’erano dei conoscenti che lo ospitarono fino a quando non trovò lavoro. Provò alla Montedison di Marghera ma non funzionò. Forte della qualifica di carpentiere in ferro, maturata allo Scoglio Olivi di Pola tentò alla Breda, sempre a Marghera, ora Fincantieri. Fu assunto” (p. 36). “Il 4 giugno 1958 partimmo per Venezia lasciando Laterina ed il campo profughi” (p. 37). “Alla fine del 1969, appena congedato dal Reggimento Lagunari Serenissima, l’assunzione al Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione Generale Antichità e Belle Arti – poi Ministero per i Beni Culturali – mi permise di acquistare a rate la mia prima macchina. Una NSU PRINZ 4L (L sta per lusso) di colore champagne (p. 42). Ciò successe subito dopo il congedo dal “Reggimento Lagunari Serenissima” ovvero fine 1969.  Quest’auto ci ha permesso di tornare, in varie occasioni, nella nostra terra natia ed ogni volta era una emozione, quando passato il confine, si incominciava a vedere la terra rossa caratteristica dell’Istria". 

Il ritorno in Istria - "Prima della morte di Tito (1980) - ha aggiunto Edoardo Radolovich in una email - attraversare la frontiera ci procurava sempre un po’ di ansia perché, una volta consegnati i passaporti, i militi, chiusi nel gabbiotto, li guardavano attentamente poi ci scrutavano ad uno ad uno, controllavano una lista di nomi su dei fogli e, finalmente, gira e rigira ci facevano passare senza il classico saluto 'dobar dan' (buon pomeriggio).  Cominciava il tempo in cui iniziavo a farmi e fare delle domande. Fino a quel tempo i miei genitori non avevano mai parlato, in casa, delle vicende politiche ma solamente quelle legate alla vita di tutti i giorni di cui ho scritto". 

"Tra queste quando papà andò, più grandicello, a fare il caddy nell’isola di Brioni dove c’è un campo da golf. Ma era ancora Italia. Successivamente, come noto, diventò residenza privata di Tito. Ora è visitabile e, nel piccolo museo, ci sono alcune foto dell’Imperatore con personaggi famosi. Anche con Sofia Loren.  Una delle prime volte che tornammo a Marzana, mio padre volle, per prima cosa, andare nell’osteria in centro sperando di trovare e salutare gli amici di una volta.  All’interno praticamente nessuno. Poi andammo dallo zio Toni e mio padre chiese: 'Come mai non c’è nessuno in osteria?' Risposta: 'Cosa succede quando vai in osteria? Bevi, poi parli e di cosa parli? Di politica!'. Ecco, è meglio non parlare perché anche i muri hanno orecchie e così il bicchiere di Malvasia lo beviamo a casa dove nessuno ci sente". 

"Provai molte volte, preso coscienza di quanto accaduto nell’immediato dopoguerra, a chiedere cosa successe e perché, con chiaro riferimento alla pulizia etnica. Ciò in considerazione del fatto che, sempre, avevo sentito parlare di italiani che erano venuti a lavorare e si erano stabiliti dalle nostre parti. Si sa che i veneti ed i lombardi furono molti. Mai una parola su dissidi di qualunque genere.  Dopo vari tentativi venni a sapere che, di notte, passavano dei camion e prelevavano alcuni in odore di fascismo ma non riuscii mai a sapere chi fossero gli informatori. Gli addetti non erano del posto e pertanto era logico che le informazioni sulle tendenze, anche non violente di alcuni, venissero da abitanti del paese". 

"Considerazioni tutte mie. Tra le, oramai, frequenti visite alla nostra terra di origine rimasero memorabili quelle in cui si andava a trovare il nostro zio Bić, marito della sorella di mio padre Anna, e poi, alla morte della zia, convivente con una serba. Forse.  Abitava a Pola centro proprio ad est dell’arena e a due passi dalla stessa.  L’ira di mio padre quando, andati nel cimitero di Monte Ghiro a Pola, dove è sepolta la zia Anna, divorziata dal marito, e trovammo scritto sulla lapide 'Anna Bicić' e non: Anna Radolović.  Ci dissero che così si usava da quelle parti.  Ma il meglio avveniva a notte fonda dopo aver parlato, e soprattutto bevuto, sulla questione case. Lo zio abitava, appunto, in un appartamento abbandonato dalla famiglia che fuggii in Italia subito dopo la guerra come il 90% dei polesani. La disputa era sulla proprietà dell’immobile. Bić diceva che gli era stato assegnato dal Comune e pertanto era tutto regolare. Mio padre insisteva sul fatto che il tavolar (Tavolare) catasto Austroungarico diceva tutt’altra cosa. Ovvero che in quel documento, probatorio, erano ancora registrati i proprietari originari dell’immobile.  La successiva visita, dopo l’opportuna verifica dello zio, confermò la tesi del papà.  Comunque oramai Pola era persa". 

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Fonti originali - Archivio dell’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR). Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Scuole elementari, Circolo Didattico di Montevarchi, Registro degli scrutini e degli esami, Scuola di Campo Profughi, Classe 1^ insegnante Del Vita Giulietta, anno scolastico 1956-1957, pp. 10, stampato e ms. Consultazione di Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo.

- Edoardo Radolovich, Dvori. Breve storia di un bimbo Slavo con genitori Italiani e nonni Austriaci, testo in PDF con fotografie, 2021 pp. 42. Inoltre: email di E. Radolovich a E. Varutti del 7.2.2022. Collezione E. Varutti. 

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Cenni bibliografici e di sitologia

-  Comune di Laterina, Scuola Primaria di Laterina, Istituto Comprensivo “F. Mochi” di Levane, Mentre l’Arno scorreva. Memorie orali sull’Arno e i suoi affluenti raccolte nel territorio di Laterina, Arezzo, 2006.

- Giuliana Pesca, Serena Domenici, Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello, Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

- Dino Radolovich, Senza patria, Parma, Helios edizioni, 2021.

- E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Aska edizioni, Firenze, 2021.

- E. Varutti, Il mio amico Antonio. Una storia dal Centro raccolta profughi di Laterina, 1958, on line dal 16 gennaio 2022 su eliovarutti.blogspot.com

Marzana, chiesa di S. Antonio da Padova. Collezione Edoardo Radolovich

Note – Autore principale: Edoardo Radolovich. Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Altri testi di: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Edoardo Radolovich e professor Enrico Modotti. Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/

domenica 16 gennaio 2022

Il mio amico Antonio. Una storia dal Centro raccolta profughi di Laterina, 1958

Ecco un tragico racconto scritto da Dino Radolovich, nato a Marzana (Pola) nel 1947 e dimorante al Crp di Laterina (AR) dal 1957 al 1960, poi in quello di Tortona (AL) prima di approdare a Seriate (BG). Lo ringraziamo per questo originale brano di grande umanità. È la dimostrazione pratica dell’integrazione dei profughi giuliano dalmati nell’ambiente aretino degli anni ’50, che li spinge a tentare di salvare un giovane autoctono annegato nell’Arno. Non è la prima volta che un giuliano dalmata si tuffa nelle acque del fiume per salvare dall’annegamento un aretino. Teresa Arrigucci, classe 1919, di Laterina nel 2004 ha ricordato di essere stata salvata da una slava profuga nell’Arno, dov’era caduta, con la figlia, rischiando di affogare dopo il cedimento di una passerella; vedi pag. 24 di Mentre l’Arno scorreva, edito dal Comune di Laterina, in Bibliografia. Mi è capitato di parlare con la bambina salvata in quel frangente. Si chiama Silvana Rossi, poi maestra pure lei e amica degli esuli di Zara. La donna che ci ha salvato dall’affogamento – ha detto la maestra Rossi – si chiamava Gigliola, poi da Laterina emigrò a Genova; ci si telefonava e me la ricorderò sempre. Vedi: La patria perduta, p. 58.

Campo profughi di Laterina, merenda per i giovani profughi con le maestre e don Bruno Bernini vicino alla canonica, 1959. Dino Radolovich è davanti col pallone, suo fratello è il secondo a destra. Fotografia di Dino Radolovich

Dino Radolovich è autore di: Senza patria, Parma, Helios edizioni, 2021, disponibile nel web. È un libro che tratta le vicissitudini personali e di migliaia di famiglie istriane divenute profughe quando, nel 1947, l'Istria (oggi regione della Croazia) passò dal Regno d'Italia alla Jugoslavia di Tito, oltre a descrivere la vita tribolata nei Campi profughi. Dino Radolovich, nei contatti intrapresi per la presente diffusione nel blog, mi ha comunicato di essere transitato per il Centro smistamento profughi di Udine, da dove passano oltre 100mila esuli, dal 1945 al 1960.

Le fotografie del Crp di Laterina sono di Dino Radolovich (ANVGD di Bergamo). Quelle della lapide di Antonio Chini, ricercata nel 2015 da Claudio Ausilio Manlio Giadrossich e Claudio Picchioni, nipote di Egidio Rocchi, esule di Rovigno, sono dell’ANVGD di Arezzo.  (a cura di Elio Varutti).

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Noi ragazzi del C.R.P. di Laterina non ci si annoiava mai: eravamo talmente tanti che qualche passatempo lo si trovava sempre, specialmente nel periodo estivo. Ma non eravamo mai tutti insieme, si formavano sempre dei gruppetti spontanei a seconda di ciò che qualcuno di noi proponeva di fare. Questo, però, succedeva solo qualche giorno dopo l’inizio delle vacanze scolastiche, quando ci si rendeva conto che non c’erano più i compiti da fare.

Si cominciava sempre col gioco a carte, il solito sette-e-mezzo, per vincere i giornalini che ogni giocatore metteva in palio. Il posto prescelto era, per lo più, lo spazio antistante la baracca 21 che sino alla fine dell’anno scolastico 1956-1957 era occupata dalla maestra Pasqua Benvegnù Sponza e la sua famiglia. Dinanzi all’abitazione c’era una stretta aiuola e qualche pianta che ci forniva una giusta ombra, e per di più la baracca si trovava in una zona centrale del campo e quindi ben visibile a tutti gli interessati.

Con l’avanzare delle belle giornate nei gruppi avveniva un’ulteriore suddivisione: c’erano quelli che andavano a fare le prime nuotate nell’Arno mentre altri preferivano dedicarsi alla pesca e portare, trionfanti, alle mamme le proprie prede infilate in un rametto di ginestra. Al pomeriggio e fino all’ora di cena ci si dedicava al gioco del pallone, ma non sempre sul campo centrale (bello grande, pianeggiante e con le porte vere) ma sul praticello di fianco alla nostra chiesetta perché il “vero” campo se lo accaparravano i giovanotti che si dovevano allenare per le sfide contro le squadre dei paesi vicini.

Solamente al campicello mi accorgevo che al nostro Centro, oltre a noi maschietti, c’erano pure le femminucce che facevano dei giochi che a noi non interessavano per niente. Per la verità me n’ero accorto benissimo che in classe c’erano pure loro, ma una volta fuori dalla scuola è come se sparissero, perché elettrizzato dalle nuove compagnie e dai nuovi passatempi non mi rendevo minimamente conto che ci fossero anche loro.

L’inizio delle vacanze dell’anno 1958, però, non sono riuscito a godermele completamente perché, avendo voluto frequentare le scuole medie, all’esame d’ammissione sostenuto ad Arezzo ero stato rimandato a settembre. E sì che per essere ben preparato avevo cominciato a ricevere lezioni private già prima dell’inizio del terzo trimestre.

Io ero l’unico profugo con queste “grandi” mire di studio, però avevo scoperto subito che ero sì l’unico profugo ma non l’unico del Centro con queste intenzioni. Nella mia classe, infatti, c’era un altro ragazzo di quinta che vedevo piuttosto isolato, alla mia sinistra, in fondo al tavolaccio che ci serviva da banco, e che parlava l’italiano bene come la nostra maestra. Diceva le doppie proprio come bisognava pronunciarle, solo alcune parole che iniziavano con la lettera “C” le pronunciava come fossero delle “H”, ma la maestra sembrava non badarci. Questo ragazzo si chiamava Antonio, era un tipo tranquillo, non ha mai giocato a carte con noi, abitava dietro alla chiesa nella baracca 18 e si univa al nostro gruppo solo quando giocavamo a pallone nel campetto che confinava col suo alloggio. Mi ricordo che, come sentiva i nostri schiamazzi, usciva di casa e dopo un minuto veniva fuori anche la sua mamma tenendo per mano una bambinetta.

Antonio Chini, immagine dalla lapide. Fotografia di Claudio Ausilio del 2015

Mai avrei pensato che questo coetaneo e compagno di classe sarebbe diventato presto uno dei miei più affiatati amici, nemmeno quando, una sera, mio padre mi disse che per andare alle medie avrei dovuto esprimermi in italiano puro e non in dialetto triestino e che per questa ragione aveva contattato un maestro di Laterina. E fu sempre quella sera che mi riferì, oltretutto, che sarei andato assieme ad Antonio che era (lo seppi proprio allora) il figlio del magazziniere signor Chini, toscano purosangue, responsabile del magazzino da cui uscivano e rientravano i materiali necessari ai profughi: brande, coperte, stoviglie, sedie e tavoli (se ce n’erano). Era proprio il periodo in cui mio padre dava una mano in quel magazzino ed era diventato amico e braccio destro del responsabile così come io divenni subito amico del figlio.

Da quel momento io e Antonio divenimmo inseparabili. Andavamo e tornavamo sempre assieme dal maestro Carlo Staderini che abitava in una bella casa subito sotto il paese, di fianco alla strada che scende verso la via Aretina e appena poco prima delle scuole elementari. Ricordo che oltre a noi due c’erano altri due ragazzi con questo problema delle lezioni supplementari: uno, di nome Giorgio, disse di essere figlio del guardiano della centrale elettrica, il secondo era un nipote del maestro Carlo e si chiamava Egisto. Era la prima volta che sentivo il nome Giorgio e mi piaceva come suono; il nome Egisto, invece, mi dava un senso di severità e mi sembrava adatto a persone importanti e non a un ragazzo.

Loro tre mi sembrarono molto più preparati di me, lo confidai ad Antonio subito il primo giorno che stavamo tornando a casa e lui m’incoraggiò dicendomi che ce l’avrei fatta di sicuro anch’io. E mi confidò, in quello stesso giorno, che lui avrebbe voluto diventare un sacerdote e per questo motivo, per frequentare il seminario, doveva andare alle medie.

Sia all’andata che al ritorno facevamo lo stesso percorso: usavamo un viottolo, lastricato con ciottoli di fiume, che a pochi metri dall’uscita del campo profughi saliva quasi dritto verso Laterina sbucando vicino a un pianoro che i ragazzi del paese adoperavano come campo da gioco. Mi ricordo che delle volte si fermavano in quello spiazzo anche dei piccoli circhi e delle giostre. Io e Antonio ci andammo un paio di volte: una volta al circo e l’altra alle giostre. Queste ultime ci divertirono di più perché facemmo tanti “giri premio” vinti afferrando un pupazzetto che veniva appeso in alto sopra il giro che compivano i sedili. Antonio stava sul seggiolino dietro al mio e al momento opportuno mi dava una bella spinta e io, distendendomi, riuscivo a prenderlo.

Mi è rimasto però sul gozzo una melagrana che non riuscimmo a gustarci. La pianta di melograno era cresciuta nella siepe del viottolo che percorrevamo ogni giorno e quel frutto l’abbiamo visto crescere e maturare. Se non che, rimanda oggi rimanda domani per coglierlo alla maturazione giusta, successe che qualcuno ci precedette e se lo gustò al posto nostro. Ci guardammo sconsolati e ci promettemmo che la prossima volta non avremmo più fatto un errore simile. 

Purtroppo, quella promessa non servì a molto perché alla fine di quell’anno scolastico (1957-1958) avvenne un fatto che nessuno di noi due avrebbe minimamente immaginato: era estate piena, era una calda domenica d’agosto e praticamente tutti gli ospiti del nostro Centro erano a rinfrescarsi sulle sponde dell’Arno. Io, mio fratello e altri amici sguazzavamo nel fiume andando un po’ di qua e un po’ di là, senza un posto fisso. A un certo punto vedemmo, nella zona dei pioppi, un’agitazione strana: persone che s’incrociavano tra loro, confabulavano e poi correvano verso il Campo, altre che dal Campo correvano verso i pioppi.

Cos’era successo nella zona dei pioppi? Ci chiedemmo preoccupati e curiosi.

Quel giorno erano andati a prendere il fresco all’ombra di quegli alberi anche i miei genitori; decisi allora di raggiungerli per chiedere cosa stesse succedendo. Arrivato là, tra la sponda destra dell’Arno e i filari dei pioppi vidi subito i miei genitori che schiacciavano la schiena di un bambino, poi lo rivoltavano e gli schiacciavano il petto, lo mettevano a gambe in su e lo battevano ancora sul petto e sulle spalle. Mi feci spazio tra la gente e raggiunsi i miei: stavano cercando di salvare il mio amico Antonio. Non mi servì chiedere cosa fosse successo, era ben chiaro: era annegato.

I commenti della gente erano i più svariati: probabilmente aveva appena mangiato, forse aveva battuto la testa, avrà trovato della corrente più fredda, magari era il cuore… Dopo un po’ arrivò anche il dottor Fiore, il medico del Campo; fece distendere il bambino all’ombra, gli controllò le pupille, guardò i miei (supponendo che fosse il loro figlio) posò la mano sulla spalla del mio papà e disse scuotendo la testa: “Non c’è più niente da fare”. Guardando la gente radunata intorno, allargò le braccia come per scusarsi e se ne andò facendo lo slalom tra i presenti rimasti tutti scioccati.

Il dottore aveva senz’altro ragione, lui aveva studiato, sapeva se c’erano ancora speranze o meno, ma mio padre, memore forse della sua esperienza di quando si era bruciato da soldato e del comportamento dei medici in quell’occasione, non si arrese. E nemmeno mia madre. No! Non potevano rinunciare così; forse il dottore si era sbagliato, forse si poteva ancora risvegliare quel corpicino inanimato che adesso, coi muscoli rilassati e non rispondenti agli stimoli, mi sembrava più piccolo di come era in realtà.

Laterina, lapide del giovane Antonio Chini, nato ad Arezzo il 26.1.1947 e morto a Laterina il 3.8.1958. Fotografia di Claudio Ausilio

Fecero di tutto per farlo tornare a respirare: gli chiudevano il naso e gli soffiavano in bocca, gli schiacciavano ritmicamente il petto, gli muovevano contemporaneamente le braccia e le gambe, lo mettevano con la pancia per terra e premevano sulla schiena, con le gambe per aria e davano delle pacche sul sedere come ai neonati in sala parto. Erano sudati e stravolti, e ansimavano.

Sapevo che mio padre aveva letto libri e aveva imparato tante cose, ma mia madre non la immaginavo così esperta nell’eseguire tutte quelle azioni in perfetta sincronia col papà.

A un certo punto due dei presenti, con gli occhi lucidi, s’avvicinarono a mio padre e gli appoggiarono, con grande rispetto, una mano sulla spalla dicendo: «Radolovich, xe tuto inutile. Lassèmolo ai sui» [Radolovich, è tutto inutile. Lasciamolo ai suoi (genitori)]. Dov’erano i suoi, per la verità, non lo so. Forse erano lì accanto ma io non li vidi, forse avevano fiducia nei miei e non osavano intervenire.

In mezz’ora, non so come, la notizia si sparse per tutto il Campo e oltre; vidi arrivare tante persone da Laterina e fra queste anche il nostro maestro Carlo Staderini con la sua Lambretta azzurro chiaro. Ma non ho proprio presenti i genitori di Antonio. Il funerale si svolse nella loro città, ad Arezzo. 

Quando trent’anni anni dopo ritornai a vedere il nostro Campo, volli arrivare sino all’Arno e naturalmente sino ai pioppi. Le sponde del fiume mi sembrarono melmose e l’acqua torbida; non c’era più il boschetto ordinato dei pioppi e non avrei saputo riconoscere neanche il punto dov’era successa la disgrazia se non fosse stato per una piccola lapide di marmo, con la foto il nome e cognome, messa dalla famiglia di Antonio per ricordare il figlio agli amici del Campo che cercarono di salvarlo.

La piccola lapide era abbandonata e quasi coperta dai rovi, dall’erba alta e dalle zolle dei campi arati.

Nessuno più la vede, nessuno più ricorda l’accaduto. Forse solo noi del Campo che, quando possiamo e per non dimenticare, almeno una volta siamo tornati in seguito a rivedere il nostro primo impatto con la terra d’Italia.

Dino Radolovich

Laterina, Manlio Giadrossich e Claudio Picchioni sulla riva dell'Arno in veste di "tagliatori di erbacce" alla ricerca della lapide del giovane Antonio Chini, 2015. Fotografia di Claudio Ausilio

Cenni bibliografici e di sitologia

-  Comune di Laterina, Scuola Primaria di Laterina, Istituto Comprensivo “F. Mochi” di Levane, Mentre l’Arno scorreva. Memorie orali sull’Arno e i suoi affluenti raccolte nel territorio di Laterina, Arezzo, 2006.

- Giuliana Pesca, Serena Domenici, Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello, Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

- Dino Radolovich, Senza patria, Parma, Helios edizioni, 2021.

- E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Aska edizioni, Firenze, 2021.

- E. Varutti, L’esodo di Egidio Rocchi da Rovigno al Centro profughi di Laterina e Torino, 1949, on line dal 5 dicembre 2021 su   varutti.wordpress.com

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Note – Autore principale: Dino Radolovich, ANVGD di Bergamo. Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Altri testi di: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Dino Radolovich. Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:    https://anvgdud.it/


Planimetria ricostruita del Crp di Laterina, con appunti di Dino Radolovich, in colore viola. Collezione Dino Radolovich