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domenica 13 marzo 2022

Ecco Mario Candotto, da Ronchi, sopravvissuto al Campo di concentramento di Dachau

È riuscito a sopravvivere al lager perché lavorava in modo coatto per la BMW, vicino a Monaco di Baviera. Ci sapeva fare col tornio, nonostante le sue conoscenze di meccanica fossero dovute solo alla scuola, come ha raccontato. Solo così è riuscito a portare a casa la ghirba. Si sa che a Flossenbürg i tedeschi realizzano uno stabilimento sotterraneo BMW per la produzione di motori per mezzi corazzati, come ha scritto Maria Chiara Laurenti, nel 2007.

Lo scampato al lager è Mario Candotto, da Ronchi dei Legionari (GO) - foto sopra -, che ha detto di aver lavorato per la BMW a Trostberg, un sotto-campo di Dachau e, per tre mesi, dal 20 luglio 1944 in poi, anche a Markisch, in Bassa Lorena, annessa al Terzo Reich, in francese è: Sainte-Marie-aux-Mine. Ovvero: Santa Maria delle Miniere. La fabbrica là era in un tunnel ferroviario, per sfuggire ai bombardamenti angloamericani. Io dipendevo da un ‘meister’ in fabbrica, che non mi maltrattava, come invece facevano le guardie nel lager con baracche di 500 detenuti, anzi lui mi faceva trovare qualche pezzo di pane. L’ho rivisto nel dopoguerra e faceva finta di niente, ero assieme ad un altro sopravvissuto di Pola, che gli ha gridato: Ehi meister, così ci siamo messi a scambiare qualche parola. Il turno di lavoro in fabbrica era di 12 ore e quello che subentrava al mio posto era un croato del lavoro volontario, un ustascia, guai se avesse saputo che ero stato catturato come sospetto partigiano, perché me gaveria copà”.

Mi vuol parare di Dachau? “Sì, i nazisti in Campo di concentramento volevano cancellare l’essere umano – ha risposto – eravamo più di 32.000 prigionieri, ma per loro eravamo solo dei numeri. Negli appelli estenuanti al freddo io dovevo dire, in tedesco, il n. 69.610. Era tutto un gridare. Nessuna guardia parlava in modo normale. Il problema più grave era la fame. Poi le botte, il terrore, le urla e la divisa a righe, che oggi… digo el pigiama. Nel dopoguerra no te podevi parlar del Campo de concentramento neanche in famiglia. Iera robe che pochi i credeva, sembrava esagerazioni. Me diseva: Basta parlar de guera ”. Foto sotto: cartolina di Ronchi dei Legionari, viaggiata nel 1935 foto G. Peluchetti, Monfalcone.

Quando è stato arrestato a Ronchi dei Legionari e da chi? “Era il 24 maggio del 1944 – ha detto Candotto – all’alba arrivano i camion di tedeschi con i repubblichini per un rastrellamento. Hanno catturato una settantina persone, compresa la mia famiglia. Dopo si sa che 32 ronchesi sono morti nei lager. A casa mia sono entrati i repubblichini e sono andati a cercare in vari posti, compresa la vaschetta del water, dove avevo nascosto una bustina partigiana con la stella rossa [il copricapo è detto: la titovka, NdR]. Ci hanno portati via tutti. Con me c’erano mia mamma Maria Turolo, mie sorelle Ida e Fede, oltre a mio papà Domenico Candotto, detto Muini [in friulano], o Monego [in bisiaco, idioma di Ronchi e Monfalcone, NdR], perché era sagrestano a Porpetto (UD). Ci hanno trasferito al carcere del Coroneo di Trieste. Dopo un po’ di giorni ci hanno caricato sui carri ferroviari, non sapevamo perché, poi abbiamo visto il campo di concentramento. I carri con i prigionieri erano aperti, ma nessuno, per paura, tentava di scappare. Il grande rastrellamento nazista a Ronchi è stato possibile perché due partigiani avevano fatto la spia: erano un certo Florean, detto ‘Cicogna’ e il tale Soranzio, detto ‘Crock’, oppure: ‘Cubo”.

Sono diversi i partigiani doppiogiochisti, anzi troppi. Gli esperti ne parlano poco, forse perché la polvere del salotto è meglio lasciarla sotto il tappeto. È stato Mario Tardivo, presidente dell’ANED di Ronchi a fare i nomi di quelle due spie sulla Cronaca di Gorizia de «Il Piccolo» del 5 maggio 1999; si tratterebbe di Ferruccio Soranzio, nome di battaglia ‘Crock’ ed Umberto Florean ‘Cicogna’. Le cifre degli arresti di Ronchi sono state pubblicate su «Il Piccolo» del 26 maggio 2016. Gli arrestati sono imprigionati dalla “SIPO Triest” (Archivi di Arolsen). La Scherheitspolizei (SIPO) è la polizia di sicurezza tedesca di stanza a Trieste. Per i ronchesi ed altri detenuti il 31 maggio 1944 è il giorno di partenza per i lager nazisti.

Lager di Dachau - Scheda di Candotto Mario, nato nel 1926 a Polpetto (sic, in realtà: Porpetto). Arolsen Archives (D).

Com’è stata la liberazione a Dachau? “Ci sono arrivato il 2 giugno 1944 e alla fine pesavo circa 40 chili – ha replicato Mario Candotto – un prigioniero russo spilungone pesava solo 28 chili, la mattina del 29 aprile 1945 molte guardie SS erano scappate con i kapò resisi colpevoli di violenze e assassini di detenuti. Prima di quella giornata hanno preso 1.500 prigionieri dal nostro sotto-campo per ammassarli a Dachau, volevano far sparire tutte le tracce della prigionia. Non ci danno la sveglia alle 4,30 come al solito e c’era trambusto da qualche giorno, poco dopo abbiamo visto una jeep coi soldati americani vicino al Campo, era una grande gioia, ci hanno detto di stare calmi, per evitare spargimento di sangue e vendette varie sulle ultime guardie arresesi agli alleati, così abbiamo fatto, poi con i documenti in una decina di italiani ci siamo diretti verso Salisburgo e lì abbiamo trovato un Campo per reduci, dove ci hanno rifocillato e poi via verso Tarvisio e l’Italia. È a Salisburgo che una mia sorella sopravvissuta pure lei ad Auschwitz, ha visto il mio nome scritto sul registro del Campo di reduci, scoprendo che ero ancora vivo”.

Con quale mezzo viaggiavate? “Son tornà a casa a pie in più di dieci giorni! – ha detto Candotto – ma mio papà e mia mamma non sono più tornati, mia mamma Maria Turolo (1890-1945) ha finito di vivere in una Marcia della morte, così mi ha raccontato una certa Brumat, detta Slavica, mio papà Domenico Candotto (1886-1944) stava nella baracca dei preti per almeno due mesi, lavorava in fabbrica ed è morto in una succursale del lager. L’ha sotterrato un altro detenuto di Monfalcone nel piccolo cimitero del paese, mi disse che aveva un anello di ferro al dito, prodotto da un chiodo”.

In effetti negli Archivi di Arolsen (Germania), consultabili in Internet, si è trovato il certificato di morte del padre di Mario Candotto. Il suo babbo Domenico Candotto, di Porpetto (UD), risulta deceduto il: “23 novembre 1944 a Dachau II”.

Lager di Dachau - Documento di Candotto Mario, nato nel 1926 a Polpetto (sic, in realtà: Porpetto). Arolsen Archives (D).

Come mai da Porpetto la sua famiglia è giunta a Ronchi dei Legionari? “Mio papà era caligher – ha aggiunto Mario Candotto – pensi che nel 1911 aveva fabbricato un paio di scarpine per la principessa Iolanda di Savoia, ma non le sono state recapitate, perché qualcuno aveva introdotto un biglietto contro i regnanti, così sono ritornate indietro con i carabinieri in casa. Eravamo sette fratelli e il primogenito Massimo era un seminarista, ma poi ha cambiato idea, così è stato uno scandalo per tutta la famiglia. Venivamo segnati a dito per il paese; è per tale motivo che mio padre ha cercato lavoro nei cantieri, ci siamo stabiliti a Ronchi e ha dovuto iscriversi al fascio per lavorare. Due mie sorelle si sono sposate. Poi arriva la seconda guerra mondiale, un mio fratello è militare in Jugoslavia e ci raccontava le ingiustizie contro la popolazione che vedeva là.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 cosa succede? “In tre fratelli, Lorenzo, Massimo ed io volevamo andare coi partigiani garibaldini – ha spiegato il testimone – ma a Vermegliano, che fa parte del comune di Ronchi dei Legionari, i miei fratelli mi hanno detto: Tu vai a casa, qui siamo già in due. Allora io son tornato a casa, mentre loro sono andati a Doberdò del Lago (GO), dove era in corso l’ammassamento delle reclute partigiane. Loro hanno partecipato alla costituzione della Brigata proletaria. Dopo un comizio ai cantieri navali del 10 settembre, c’è stato l’invito agli operai ad unirsi ai partigiani titini. Oltre 1.000 volontari si incamminano verso il punto di raccolta alle Cave di Selz, frazione di Ronchi, per attaccare poi Gorizia, difesa dai nazifascisti. La battaglia del 28 novembre 1943 segna l’annientamento della Brigata proletaria, dove muore anche un mio fratello. Poi io ho fatto il portaordini dei partigiani”.

Lager di Dachau - Certificato di morte di Domenico Candotto, padre di Mario. Archivi di Arolsen (D)

Conteme la storia delle due monete in Campo di concentramento. “Quando ero prigioniero a Dachau – ha precisato Candotto – mentre si aspettava l’appello in cortile, spostavo la ghiaia con i piedi e ho visto due monete da cinque marchi l’una, allora le ho ricoperte e, dopo la guerra, quando sono tornato a Dachau in un viaggio della memoria con l’ANED, perché sa, io sono iscritto all’ANED di Udine, sono andato a cercare proprio quelle monete tra la meraviglia e la curiosità dei presenti, ma non le ho mica più trovate”.

Nella primavera del 1947, dopo la firma del trattato di pace (10 febbraio) e il ritorno della sovranità italiana nell’Isontino (Gorizia, Ronchi e Monfalcone), più di duemila operai dei Cantieri navali di Monfalcone, uno dei principali del Mediterraneo, lasciano il lavoro, le case e l’Italia per raggiungere i Cantieri di Fiume e Pola e altre località ormai annesse alla Jugoslavia, dove sperano di vivere in una società libera e più giusta. In seguito, la delusione per le condizioni di vita e la scelta di appoggiare Stalin contro Tito dopo la “scomunica” del partito comunista jugoslavo in seguito alla Risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948, causarono una sconfitta bruciante che ebbe devastanti ripercussioni sulle vite personali e familiari: dal ritorno a casa alla detenzione nei gulag di Tito, tra i quali “l’inferno” di Goli Otok, l’Isola Calva. (vedi: Chiara Fragiacomo, 2017).

Ho saputo che è stato uno dei ‘cantierini’ andati a rinforzare il cosiddetto paradiso socialista di Tito. “Sì, sono partito anch’io come tanti qui di Ronchi e lavoravo in una autorimessa – ha concluso Mario Candotto – ma sono ritornato in Italia quattro mesi prima della Risoluzione del Cominform del 1948, così non mi hanno recluso nel campo di concentramento titino. Che delusione un guerrigliero come Tito, che poi pensa solo al potere, così ho gettato la tessera del partito comunista e mi sono avvicinato al movimento anarchico”.

Sul "Piccolo", del 30 luglio 2025, e sul sito web della RAI, TGR del Friuli Venezia Giulia, si legge che Mario Candotto è morto a Ronchi dei Legionari (GO).

Fonte orale – Mario Candotto - foto sopra -, Porpetto (UD), 2 giugno 1926, intervista di Elio Varutti del giorno 11 marzo 2022 a Ronchi dei Legionari (GO), in presenza di Paolo Boscarol, Franco Pischiutti e di Zorzin.

Cenni bibliografici e del web (consultazione del 12.3.2022)

- Arolsen Archives, Archiv zu den Opfern und Überlebenden des Nationalsozialismus, Bad Arolsen, Deutschland, personen Candotto Mario, geburtsdatum 06.02.1926, prisoner 69.610.

Chiara Fragiacomo, Fuga dall’utopia. la tragedia dei“monfalconesi”. 1947-1949, Novecento.org, n. 8, agosto 2017.

- Maria Chiara Laurenti, L’economia tedesca e il lavoro dei deportati, Pinerolo (TO), aprile 2007.

Giovanni Melodia, La liberazione di Dachau nelle parole degli americani, Archivio storico dell’Associazione Nazionale Ex Deportati (ANED).

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Note – Progetto e attività di ricerca di: Elio Varutti, docente di Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata all’Università della Terza Età (UTE) di Udine. Networking di Girolamo Jacobson e E. Varutti. Lettori: Mario Candotto, Paolo Boscarol e il professor Stefano Meroi. Grazie all’architetto Franco Pischiutti (ANVGD di Udine) per la collaborazione riservata alla ricerca. Copertina: Mario Candotto. Fotografie di Elio Varutti.

Ricerche per il blog presso l’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/


sabato 30 aprile 2016

L’agonia di Toni, Dignano d’Istria 1944

Morire di botte legato ad un albero. È successo per mano dei fascisti repubblichini a Antonio Franco, vigile urbano di Dignano d’Istria, ritrovato cadavere irriconoscibile nel 1944. Era come nel sogno premonitore di sua moglie Filomena Marin, che continuava ad andare dal podestà a dirgli di cercare il marito, sparito nel nulla. «Signor podestà, diceva mia mamma disperata, me lo sogno tutte le notti el xe morto nel bosco degli ulivi racconta Evelina Franco, figlia di Toni   Il podestà ripeteva sempre lo stesso ritornello e tentava di rassicurala con queste parole: Ma no, signora, sarà andà in bosco coi partigiani».
 
Sebastiano Pio Zucchiatti, Suggestioni su Calle Nova a Dignano d'Istria, elaborazione al computer, stampa acquerellata, gouache e pastelli su carta, cm 18 x 21, 2016 - da una fotografia di C. Stincich di Pola 1907. 
Un altro bravo fotografo di Dignano d'Istria fu Francesco Giachin, attivo negli anni 1930-1937.

Invece Antonio Franco, vigile di Dignano d’Istria conosciuto e stimato da molti paesani, era proprio penzolante da un olivo, sfigurato, massacrato di legnate, con gli abiti laceri. «Adesso so perché il podestà non voleva fare le ricerche – continua la testimonianza – passati tre mesi dalla sua scomparsa è stato trovato da chi andava a fare erba per i conigli e fu avvisato il paese. Certi paesani andarono sul luogo del supplizio. Mio fratello Libero, nato nel 1932, non lo riconobbe, continuava a ripetere: No, no xe papà».
Allora, come è stato riconosciuto?
«Mia mamma si ricordava che ad un alluce di papà mancava l’unghia, persa durante la naia e mai più ricresciuta bene – aggiunge la signora Evelina Franco – poi ha detto a chi è andato nel bosco degli ulivi a recuperare quel cadavere: Guardate in bocca, perché Toni ha due denti d’oro». Fu in questo modo sconvolgente che fu identificata la guardia Antonio Franco di Dignano d’Istria, nonostante i capelli allungati e i pantaloni blu sbiaditi, per essere stato esposto al sole e alle intemperie, dopo le strazianti torture. «A quell’epoca mio padre era un’autorità importante – spiega la signora Franco – ma non voleva essere comunista, né repubblichino».
Avete trovato i colpevoli delle sevizie mortali?
«Saputa la notizia dell’identificazione, mia madre era svenuta – continua Evelina Franco – poi tutto il paese si strinse vicino a lei per il cordoglio, perché mio papà era una persona giusta, in gamba e benvoluta da tutti. Il suo corpo martoriato fu esposto su un balcone in piazza e i partigiani, che nel frattempo avevano preso il paese, fecero un processo e i due assassini alla fine hanno confessato».
Successe tutto dopo l’8 settembre 1943. Avete capito come mai fu torturato e ucciso a percosse?
«In quei mesi c’era confusione – spiega la signora Evelina  – c’era molto odio, poi c’erano le uccisioni nelle foibe, ammazzavano per dei rancori, mio padre ripeto era un’autorità importante e non voleva essere comunista, né repubblichino».
 
Domande sull'esodo istriano, testo predisposto dagli allievi della classe 2^ E alberghiero dell'Istituto "B. Stringher" di Udine, con la guida di Anna Ghersani Durini, insegnante di Storia, 2016

Dopo la guerra avete affrontato anche voi l’esodo?
«Scappati da Dignano d’Istria, siamo partiti da Pola – riferisce la testimone – nel  mese di febbraio del 1947, col piroscafo Toscana fino alla città di Ancona, perché nonna Filomena Marin, disperata, continuava a dire a mia madre: Cosa farai adesso che sei vedova con tre figli?».
Sa, per caso, come si chiamava la madre di nonna Filomena, cioè la sua bisnonna?
«Sì, me lo ricordo bene, era Filomena pure lei e, per giunta, figlia ancora di una Filomena – aggiunge Evelina Franco – perché mia mamma mi raccontava sempre che la levatrice di Dignano, quando sono nata io, nel 1935, disse a mia madre: Non sta ciamarla Filomena, eh!».
Allora, con la nave arrivate ad Ancona e lì vi hanno portato in un Campo Profughi?
«Ricordo che ad Ancona ci hanno accolto le crocerossine – riferisce la signora Evelina Franco – col latte e la cioccolata calda, poi ci portarono in treno a Rovigo, stavamo in una palestra, coi materassi per terra, per tre giorni siamo stati lì, era scomodo, tutti insieme maschi, femmine e bambini, poi le donne si lamentavano, perché non potevano lavarsi in tranquillità, per fortuna un conoscente, il padrino di mio fratello, ci ha portato da lui, avevano campagna con i coloni, ma mio fratello non c’era perché sul piroscafo un prete raccoglieva i ragazzi per portarli in un collegio per orfani di profughi a Oderzo, in provincia di Treviso, ma mio fratello Libero, dopo tre anni passati lì, scappò dal collegio e arrivò da noi, ma non lo riconoscevamo perché era cresciuto tanto e poi era magro come un chiodo».
Insomma avete trovato una sistemazione a Rovigo…
«Un po’ di anni più tardi – aggiunge la signora Evelina Franco – mia madre trovò una casa a Bellombra, in provincia di Rovigo, mentre mia sorella Ida, nata nel 1938 a Dignano, ed io abbiamo trovato lavoro presso le suore e il fratello Libero continuava a lavorare da agricoltore presso il suo santolo, cioè il padrino. Da Torino, città di esilio di Bonetta Franco, sorella di mio papà, la zia Bonetta diceva sempre a mia mamma di andare tutti a Torino, perché là potevamo cambiare vita. Dopo molte insistenze siamo partiti per Torino in treno. Essendo profughi di guerra e profughi giuliani, mio fratello Libero ha trovato lavoro alla Fiat, mia sorella Ida in una fabbrica di piastrelle ed io in un laboratorio di maglieria. Ci siamo così sistemati».


Materiali grigi sull'esodo istriano, scheda di intervista somministrata da Davide L. alla signora Evelina Franco (sua nonna), esule a Torino, correzioni e cancellature a cura degli allievi della classe 2^ E alberghiero dell'Istituto "B. Stringher" di Udine, con la guida di Anna Ghersani Durini, insegnante di Storia, 2016

Anche questa è storia d’Italia, secondo lei?
«Sì, bisogna sapere queste cose – dice la signora Evelina Franco – adesso possiamo parlare, raccontare e ricordare questi fatti e chiedo solo rispetto per i nostri morti».
Qualcuno dei suoi partenti è rimasto a Dignano d’Istria, dopo il 1945-1947?
«Sì, mio cugino Vittorio Marin è rimasto là – conclude la signora Franco – ma è morto un po’ di anni fa, i Marin avevano campagna, olivi e vino, prima della guerra».
Vorrebbe tornare a Dignano d’Istria?
«No».
È ritornata qualche volta in Istria e le è piaciuto ritornare là?
«Sono ritornata, ma non mi è piaciuto, perché è tutto diverso».
Preferisce Dignano d’Istria, oppure Torino?
«Torino».

 
Sebastiano Pio Zucchiatti, Nuvola scura sopra Piazza Italia a Dignano d'Istria, elaborazione al computer, stampa acquerellata, gouache e pastelli su carta, cm 20 x 20,50, 2016. 
Da una fotografia del 1930.

1.   Il santo co la bareta rossa
Da un’altra fonte orale si viene a sapere una storia tutta particolare e al limite del ridicolo. Nella chiesa di Dignano d’Istria era d’uso, durante la processione interna, cantare le litanie e pregare i santi davanti agli altari, alle immagini e alle statue. Però di un santo non si sapeva proprio il nome. C’era la statua, ma si era persa la sua denominazione, nonostante il copricapo rosso che portava. Così il popolo devoto cantava: «Che sia quel santo che sia co la bareta rossa». Le notizie di questa originale cultura popolare dei santi di Dignano d’Istria sono state riferite dai discendenti di Iris D.P., nata a Pola nel 1921.

Il mistero del “Santo co la bareta rossa”
Il “santo co la bareta rossa” è con tutta probabilità un beato, morto nel 1207. Il riferimento bibliografico è il seguente: Mons. Antonio Conte, Guida al Duomo e alle chiese dignanesi, Torino, Famiglia Dignanese, 2006.
Si tratta di beato Leone Bembo, di nobile famiglia veneziana, che fu vescovo di Modone (Methoni), nella Morea o Peloponneso, sottoposto alla Repubblica di Venezia. Egli è raffigurato non in una statua (come accennato dalla fonte orale), ma su una tavola dipinta in stile bizantino su sfondo dorato, da Paolo Veneziano, nel secolo XIV. Tale opera, menzionata come il Trittico di Beato Leone Bembo, era appesa alla parete sinistra del presbiterio del duomo di Dignano.
L’intitolazione e l’attribuzione furono incerte sino oltre il primo quarto del Novecento. Abbellimenti e cure del duomo sono successivi al 1926. Ecco come si spiega la non conoscenza popolare dei devoti cristiani di Dignano, poco prima e poco dopo la Grande Guerra, cui si fa riferimento nella fonte orale.
Si sa che certe reliquie e alcune opere d’arte furono portate a Dignano, nel 1818, dal pittore veronese Gaetano Grezler (el sior Gaetano), chiamato a decorare il nuovo duomo, consacrato nel 1808, in seguito al crollo di quello precedente. Antonio Alisi, in Istria: città minori, scrive che, dopo la furia di Napoleone, a Venezia furono distrutti il convento di San Lorenzo e la chiesetta di San Sebastiano, tanto che Gaetano Grezler comprò alcune reliquie (mummie), come quelle di beato Leone Bembo e di prete Giovani Olini, oltre ad altari, pitture ed altri oggetti. Già sul cognome di quest’altro religioso ci fu confusione nell’Ottocento, dato che egli figura in un catartico come: «b. Joannes olim presbiter-plebanus». Gli studiosi di tradizione veneziana, avendo letto male la parola “olim” (= una volta), la interpretarono come un cognome di famiglia: “Olini” (Conte, pag. 42).
Si pensi che nel 1909 la pittura del Trittico di Beato Leone Bembo – come scrive l’Alisi – stava rovesciata in sacristia, appoggiata su dei cavalletti ad uso tavolo per smoccolar candele o per sistemare i materiali di adornamento degli altari. In seguito fu appeso in chiesa, senza sapere molto su di esso.
Il Trittico di Beato Leone Bembo è il quadro più antico del duomo. Il dipinto è diviso il tre parti. La figura centrale è quella del beato, raffigurato in piedi ricoperto da una tunica talare scura sulla quale si evidenzia un mantello fulvo aperto sulla destra e allacciato sulla spalla. Intorno al collo – scrive il Rismondo nel suo Dignano d’Istria nei ricordi, pag. 167 – il beato ha una breve mozzetta di pelle nera, alluso greco. Ciò fa spiccare con maggiore chiarezza la testa e il mento barbuto. Sul capo, cinto di aureola d’oro, porta una cuffia bianca per cingere i capelli arruffati e sopra questa sta un’altra cremisina simile a una calotta. Poi la descrizione iconografica procede con tanti altri particolari. Dunque la cuffia cremisina simile a una calotta è proprio la “bareta rossa” del popolino devoto.
Persino i dati anagrafici dei beati in questione non sono definiti. Ogni autore sembra fare a gara per smentire quelli precedenti. Tale confusione tra gli esperti provocò una ignoranza nel popolo, che scelse di onorare comunque la reliquia e la pittura di Dignano nelle litanie col canto: «Che sia quel santo che sia co la bareta rossa».


Riferimenti bibliografici. Mons. Antonio Conte, Guida al Duomo e alle chiese dignanesi, Torino, Famiglia Dignanese, 2006, pagg. 33-36.

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Ringraziamenti
Ringrazio, per avermi concesso l’intervista, la signora Evelina Franco, nata a Dignano d’Istria nel 1935 ed esule a Torino, da me ascoltata al telefono il 28 aprile 2016. Sono riconoscente a suo nipote Davide L., studente della classe 2^ E alberghiero, presso l’Istituto “B. Stringher” di Udine, dove con la conduzione della professoressa di Storia Anna Ghersani Durini, è stata sviluppata una ricerca sull’esodo giuliano dalmata nella primavera 2016, nell’ambito del Piano dell’Offerta Formativa, con interviste alla nonna Evelina Franco.   
Per la storia religiosa del «Santo co la bareta rossa» sono grato a Gabriele D.C., nato a Venezia nel 1947, discendente dei Bunder di Dignano d’Istria, da me intervistato a Udine il 23 aprile 2016. 
Per i disegni di questo articolo ringrazio l'autore.
Sono riconoscente a Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria, che ha cortesemente messo a disposizione delle mie ricerche la collezione di 300 cartoline d’epoca riprodotta da Piero Delbello (a cura di), Saluti dall’Istria e da Fiume, Edizioni Svevo, Trieste, con gli auspici di: Unione degli Istriani, Associazione delle Comunità Istriane, Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Trieste.
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Ricerche personali ragionate
Mi è capitato di raccogliere varie testimonianze riguardo a Dignano d’Istria, che qui mi permetto di ricordare per il lettore incuriosito. 
1)      Maria Chialich, nata a Dignano d’Istria nel 1919 e morta a Udine nel 2010 assieme ai suoi discendenti ha vissuto la vicenda più tragica, dato che ebbero ben sette familiari uccisi e gettati nella foiba dai miliziani di Tito. Si veda in questo stesso blog il paragrafo n. 2, intitolato “Una famiglia, sette infoibati” nell’articolo seguente: Scappare dall’Istria via pel mondo, 1943.
2)      Giorgio e Daria Gorlato persero il padre Giovanni, notaio di Dignano d’Istria, ucciso dai titini. Vedi il saggio: “Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960”, del 2015.
3)      Armando Delzotto, detto “Terere” ha scritto un memoriale di ricordi su Dignano d’Istria, intitolato “I miei ricordi di Dignano d’Istria (dalla nascita all’esodo), edizioni del Sale, Udine, 2014. Vedi l’articolo: “ANVGD Udine, Memoriale di Delzotto sull’esodo istriano”.
4)      Maria Giovanna Copic, nata a Tarvisio, provincia di Udine, nel 1950, ricorda lo zio Pino Iursich, che con la moglie Celestina di Portole gestivano un forno e una trattoria a Dignano d’Istria, fino alla fuga alla volta di Trieste, presso parenti (int. del 30 gennaio 2004).
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Lettera di ringraziamento alla intervistata della classe 2^ E alberghiero, dell'Istituto “B. Stringher” di Udine, con la conduzione della professoressa di Storia Anna Ghersani Durini
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Questo articolo rientra nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne del ‘900”, che  ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana, ANED, ANVGD di Udine.