È successo a una famiglia di
italiani fuggiti nel 1943 dall’Istria per paura degli arresti fatti dai
partigiani di Tito. Scappare da Ruppa in treno con la capra Vava: sembra un
fatto curioso, eppure anche loro sono profughi istriani e di Fiume, venuti via
per sfuggire alle violenze titine.
Fiume, 1943. Fotografia di Francesco Slocovich
Questo racconto è di fantasia,
anche se riferito a fatti realmente accaduti. Al momento della pubblicazione
dell’intervista, effettuata mediante vari contatti del mese di febbraio 2016,
il testimone si è ritirato, per il dolore provato nel riportare i fatti accaduti
alla sua famiglia. È stata un’esperienza molto toccante. Allora io rispetto
questa difficile situazione e non cito i dati anagrafici della mia fonte orale.
Li ho elencati in chiaro, invece, per gran parte delle 226 interviste
sull’esodo giuliano dalmata svolte in precedenza. Per il racconto della fuga
con la capra Vava userò quindi nomi di fantasia.
È dal 2003 che ho iniziato in
modo programmato a raccogliere notizie, dati, fotografie, documenti sugli esuli
italiani d’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Dal 1995-1996 avevo segnato su
alcuni quaderni l’esperienza e la vita di un clan familiare di Fiume e di
Abbazia, quello dei costruttori Conighi.
Nel 2003 ho ricevuto l’incarico
dalla Commissione Cultura della Circoscrizione n. 4 – Udine Sud di raccogliere
dati e notizie sul Campo Profughi istriani di Via Pradamano. Su tale realtà
storica c’era un vago ricordo in qualcuno dei rappresentanti del Consiglio di
Circoscrizione, che aveva per presidente Carlo Giacomello, vice sindaco di
Udine, al momento in cui scrivo.
Nel 2007 vede la stampa il mio
volume intitolato “Il Campo Profughi di
Via Pradamano e l’associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico
sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007”,
Editore Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di
Udine.
Fiume 28.IX - 1.X.1931 - R.I. U. Maddalena (Regio Idrovolante Umberto Maddalena) - didascalia originale. Si tratta di un Dornier Do X idrovolante a scafo centrale, dotato di 12 motori di fabbricazione italiana. Fotografia della Collezione Conighi, Udine
Un mio saggio esce nel 2008 col titolo
“Cara maestra, le scrivo dal CampoProfughi. Bambini di Zara e dell’Istria scolari a Udine, 1948-1963”, «Sot
la Nape», 4, 2008, pp. 73-86.
Nel 2015 esce “Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuligiuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960”. Si
tratta di un’opera a più mani, scritta da Roberto Bruno, Elisabetta Marioni,
Giancarlo Martina ed Elio Varutti. Editore: Istituto Statale d’Istruzione
Superiore “B. Stringher” Udine, 2015.
1. Poliziotto goriziano incarcerato a Fiume
Spesso il testimone dei fatti
dell’esodo giuliano dalmata e di ciò che accadde nel 1945-1946 acconsente che
sia fatto il proprio nome. A volte ne parla addirittura in pubblico, dinnanzi a
decine di persone.
Succede dopo il 2004 con l’approvazione della legge che ha istituito il Giorno del Ricordo. È capitato al professore Pietro Mastromonaco, che a Udine, a Palazzo Garzolini – di Toppo Wassermann, ha raccontato il 29 febbraio 2016 la storia dell’incarceramento di suo padre. «La mia famiglia stava a Gorizia nel 1945 – ha detto Mastromonaco – quando ci furono i 40 giorni di occupazione jugoslava e poco prima, quando c’erano in città le retroguardie dei cetnici alleate dei tedeschi, come altre truppe collaborazioniste: domobranci, belogardisti e cosacchi».
Allora cosa accadde? «Mio padre, che era della polizia a Gorizia, fu ferito di striscio alla testa da un cetnico – ha proseguito Mastromonaco – poi fu ricoverato in ospedale e in seguito all’arrivo dei partigiani di Tito fu incarcerato a Fiume. Così per poter parlare con lui mia madre ed io siamo andati fino a Fiume in vari comandi e caserme, ma non ci davano retta, allora mia madre si arrabbiò e cominciò a protestare, fu così che un militare jugoslavo, in un buon italiano, cercò di calmare mia madre e poi ci fece vedere il babbo per pochi minuti».
Come è finita? «A settembre, dopo 4 mesi di prigionia – ha concluso Mastromonaco – il papà è stato liberato, avrebbe potuto finire nella foiba, come tanti carabinieri, finanzieri e altri, solo perché italiani».
Succede dopo il 2004 con l’approvazione della legge che ha istituito il Giorno del Ricordo. È capitato al professore Pietro Mastromonaco, che a Udine, a Palazzo Garzolini – di Toppo Wassermann, ha raccontato il 29 febbraio 2016 la storia dell’incarceramento di suo padre. «La mia famiglia stava a Gorizia nel 1945 – ha detto Mastromonaco – quando ci furono i 40 giorni di occupazione jugoslava e poco prima, quando c’erano in città le retroguardie dei cetnici alleate dei tedeschi, come altre truppe collaborazioniste: domobranci, belogardisti e cosacchi».
Allora cosa accadde? «Mio padre, che era della polizia a Gorizia, fu ferito di striscio alla testa da un cetnico – ha proseguito Mastromonaco – poi fu ricoverato in ospedale e in seguito all’arrivo dei partigiani di Tito fu incarcerato a Fiume. Così per poter parlare con lui mia madre ed io siamo andati fino a Fiume in vari comandi e caserme, ma non ci davano retta, allora mia madre si arrabbiò e cominciò a protestare, fu così che un militare jugoslavo, in un buon italiano, cercò di calmare mia madre e poi ci fece vedere il babbo per pochi minuti».
Come è finita? «A settembre, dopo 4 mesi di prigionia – ha concluso Mastromonaco – il papà è stato liberato, avrebbe potuto finire nella foiba, come tanti carabinieri, finanzieri e altri, solo perché italiani».
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A volte le eliminazioni
effettuate dai partigiani avvenivano in modo truculento. I rastrellati presi a
Gorizia, Manzano e Premariacco finivano male. Venivano uccisi a “La Cjasate di
Ipplis”, comune di Premariacco, provincia di Udine, oppure alla “Casa di Truda”,
a Craoretto, comune di Prepotto.
Ecco la testimonianza di Marco Lesizza, che
riporta i violenti fatti descritti dai suoi genitori. «Non siamo parlando di
decine di morti, ma centinaia. Li uccidevano con il martello e il piccone. Tutti lo
sapevano. Tutti» (Davide Vicedomini, Ecco la Casa di Truda il secondo mattatoio, «Messaggero Veneto», Cronaca di Udine,
3 marzo 2016, pagg. 22-23).
Su tali fatti va ancora
fatta chiarezza. Ad esempio non si sa che fine abbiamo fatto tutte quelle
decine di cetnici che stazionavano a Gorizia alla fine della guerra. Con le
loro carrette vagavano fino a Cormòns e Prepotto. Vollero essi arrendersi agli
inglesi, per non finire nelle mani dei titini, che li consideravano traditori e
allora da eliminare. A chiederselo è anche Paola Del Din, partigiana e
insegnante, medaglia d'oro al valor militare.
2. La fuga con la capra Vava
Ecco qui la storia di pura
fantasia degli italiani di Ruppa che partono in treno con la capra Vava per
sfuggire alle violenze dei partigiani di Tito.
«Mia madre era Eda Rizzi –
mi racconta Marco F., di Tavagnacco – era nata a Monfalcone nel 1919 e morì
a Gorizia nel 1971».
Mi viene da chiedergli: - Cosa c’entrano i suoi familiari
con Fiume e Ruppa?
A questo punto non capisco il suo atteggiamento. Da un lato vorrebbe
parlare, dall’altro è molto combattuto dal desiderio di restare ancora in
silenzio. Per quali motivi? Ha gli occhi lucidi, forse per il freddo, anche se
siamo entrati al calduccio di un’osteria udinese, perché io possa scrivere, col
suo permesso, quanto intende raccontarmi. Poi sbotta così: «Mia
madre lavorava a Fiume nella profumeria Lescovac in Piazza Umberto I e abitava
a Ruppa, vicino a Fiume fino alla fine del 1943».
Altro momento di pausa. Mi fermo anche io. Sono imbarazzato. Siamo nel
periodo del Giorno del Ricordo Che
devo fare? Del resto è stato lui a fermarmi in città, per ringraziarmi. «Grazie per quello che fai per i profughi
istriani e dalmati!» – mi ha detto con voce decisa il Marco che io conosco
da decine di anni, ma non avevo mai saputo che avesse anche lui dei familiari
coinvolti nell’esodo giuliano dalmata.
La busta della lettera di Emilia Duimich, timbrata a Fiume il giorno 11 dicembre 1946 per Helga Conighi, esule a Udine
Rompo gli indugi, anche se mi accorgo che la lacrima scesa da un occhio
non è per il freddo. Raccontami, se vuoi, dopo cosa è successo?
«I miei genitori sono scappati
da Ruppa – mi spiega, di nuovo con voce sicura – per paura degli arresti
dei partigiani titini. Mio nonno Emanuele Rizzi, ferroviere, fu fatto
prigioniero dai titini e tenuto rinchiuso per due settimane. Per fortuna poi fu
liberato ed allora disse: “Basta, basta, bisogna andar via da qua”. Fu così che
scappammo tutti».
Allora – gli chiedo con una certa
cautela – i tuoi familiari sono fuggiti per la paura degli arresti, ma c’erano
anche fatti di violenza?
«Partirono tra ottobre e
novembre del 1943 – aggiunge Marco – c’erano continue uccisioni, la
gente spariva… mia mamma raccontava di tre sue amiche croate, andate coi
partigiani e uccise nel bosco.»
Vorrei chiudere lì l’intervista. Sono confuso più di lui. Provo
a fare un’altra domanda. Ci sono dei ricordi riguardo ad altri suoi familiari?
«Mio zio Renzo Rizzi, fratello
di mia madre – continua Marco, come un fiume in piena – raccontava la
durezza della guerra. Per spregio, fu obbligato dai partigiani titini a fare da
‘treppiede’ per un fucile mitragliatore. Lo zio raccontava spesso quel brutto
evento. Renzo non ha mai voluto tornare a Fiume, per queste paure. Lo
convinsero i figli, dopo anni di rifiuti e fu una vera delusione».
Vorrei chiedergli tante altre
tante cose, ma non voglio abusare delle sue rivelazioni. Scoprirò più tardi che
tali fatti non erano stati raccontati nemmeno a sua moglie, negli oltre
cinquanta anni di matrimonio. Sapute queste notizie, resto molto colpito. Con
quali mezzi sono fuggiti da Fiume i suoi familiari?
«I miei familiari sono
scappati con la capra Vava – è la risposta sorprendente di Marco F. – hanno
viaggiato in treno fino a Monfalcone, dove sono andati da parenti, poi furono
alloggiati in alcune case requisite per i profughi».
La risposta mi stupisce. Ho un presagio. Questi ricordi potrebbero
far star male l’intervistato. Mi
azzardo a fare l’ultima domanda. Come è stato vivere da profughi
istriani? Hanno raccontato mai ai discendenti le loro tristi esperienze? O
fanno parte pure loro del Silenzio dei profughi istriani?
«I miei familiari non parlavano
quasi mai dell’esodo – conclude con durezza – sono stati maltrattati, in
quanto profughi, con l’accusa di portar via la casa alla gente di Monfalcone».
Ebbene sì, anche questi fatti sono un pezzo di storia dell’Italia.
La prima pagina della lettera di Emilia Duimich da Fiume, datata 12 dicembre 1946
2. Fiume
1946, il doloroso distacco. Lettere dell’esodo giuliano dalmata
Ecco alcune testimonianze
scritte sul dolore per l’esilio da Fiume e da Trieste. Queste fonti sono autentiche.
Esse ci consentono di fare un confronto con i documenti ufficiali della storia,
nonché con le fonti orali, nonostante ci sia chi dubita assai delle
testimonianze, perché i ricordi possono essere offuscati da fattori vari.
Vi racconterò di Emilia Duimich,
una maestra di musica di Fiume, che con un coraggio impareggiabile dava lezioni
ai suoi allievi, poco dopo la seconda guerra mondiale. Come se niente fosse,
lei faceva musica, mentre il mondo stava uscendo da un baratro. La signora Emilia
Duimich scrive una lettera da Fiume, il 2 dicembre 1946, alla sua amica Helga Maria
Conighi (Fiume 16.10.1923 – Udine 2000). La signora Conighi è esule a Udine.
Legge la missiva della cara amica e la conserva gelosamente. Il raro documento
è arrivato fino a noi.
La Duimich esprime il desiderio di
normalità e la ricerca di buone notizie «dopo tanti inverni disastrosi
sopportati dal principio della guerra». La signora Duimich dà lezioni di
pianoforte a tale Otello Lentini e si è impegnata molto per «due saggi e tu
cara Helga sai quanto la preparazione stanca e quanto tempo occupa».
La maestra di pianoforte si dice
contenta di sapere che parte della famiglia Conighi è riparata da Fiume a
Udine. «Fa proprio bene al cuore – scrive la Duimich – sentire che il nonno ha
potuto fare il viaggio ed arrivare a Udine senza stancarsi, e poi ha avuto la
felicità di rivedere subito figli e nipoti che lo hanno potuto consolare del
doloroso distacco di qui, tanto più doloroso nella sua tarda età». Il
riferimento al nonno è da farsi all’ingegnere Carlo Alessandro Conighi (Trieste
1853 – Udine 1950), costruttore edile a Fiume, oltre che presidente della
Camera di Commercio e Industria sino alla Grande Guerra
Lettera da Buenos Aires per Helga Conighi dall'amica Nerina
Il verbo “consolare” appare in
molte corrispondenze dell’esodo giuliano dalmata, come pure le frasi fatte,
tipo “non tutto il male viene per nuocere”. È la ricerca della normalità ad
impegnare sia i profughi che i rimasti. I fiumani si scrivono e comunicano tra
di loro, nonostante la censura di Tito. È difficile spezzare le amicizie e le
conoscenze, anche se in mezzo c’è un fatto epocale come l’esodo di oltre 30 mila
fiumani (dal 1945 al 1958) dalla loro amata città natale o di adozione, sotto
la pressione dei titini armati. Nel 1939 la città aveva 58.616 abitanti, dopo
la fine della seconda guerra mondiale in base ad un censimento del 30 novembre
1945 ne contava 47.839. Oggi Fiume appartiene alla Repubblica di Croazia e
conta circa 167 mila abitanti (dati De Agostini - Atlante 1997) di cui circa
4.000 appartengono ufficialmente alla minoranza italiana rappresentata dalla
Comunità Italiana con proprio statuto e propria sede.
L’esodo e i vari spostamenti hanno
portato i fiumani, gli istriani e i dalmati anche lontano dall’Italia. Tra le
numerose comunicazioni del carteggio di Helga Conighi si è scelta la seguente
lettera proveniente da Buenos Aires. È scritta da una non meglio identificata
Nerina, moglie di Aldo, originaria di Trieste. In Argentina la signora Nerina
non si trova bene. Tra le varie affettività si legge che: «è il mio unico sogno
venire in Italia, qui proprio non mi piace, non posso ambientarmi (…)». In
questo caso non c’è consolazione, ma disagio, anzi profondo disagio. «(…) ti
assicuro che piango la mia piccola Trieste più di una volta (…), preferirei
magiare polenta ma nella mia Trieste con i miei cari tutti (…), insomma non mi
piace niente di questa Argentina, questa è la morale!»
La lettera - biglietto natalizio di Liliana Bulian da Montreal (Canada), scritta a macchina il 14 dicembre 1954, l'affrancatura originale è stata strappata
L’ultimo messaggio che si propone
in questa parte di articolo è datato, su un biglietto natalizio, 12 dicembre
1954; è scritto da Liliana Bulian, fiumana emigrata in Canada, per lavorare in
veste di dattilografa, conoscendo la stenografia in lingua inglese. C’è la
consapevolezza di essere profughi, anzi c’è addirittura una forma di propaganda
per fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia verso gli USA, o in Canada.
C’è la consolazione di fare un viaggio e vedere dei bei posti come «Cannes,
Barcellona e Lisbona», dato che le navi partivano da Genova, oltre che da
Trieste stessa. Anche tra le persone di Fiume, c’è una mentalità di fondo
mitteleuropea, che sostiene l’individuo e fa affrontare ogni novità, anche se
può sembrare difficoltosa.
«Devi sapere che come profughi
giuliani abbiamo delle facilitazioni per emigrare sia in USA che qui – aggiunge
Liliana Bulian – così tanto per far qualcosa ho fatto la domanda e siccome
figuravo sempre residente in Austria la cosa è andata ancora più presto di
quanto si immaginava». Per descrivere il clima di Montreal, l’autrice del
messaggio scrive che è «una mezza via tra Milano e Innsbruck».
Si deducono così le tappe
dell’esodo dei Bulian di Fiume: si va dall’Austria (per la conoscenza della
lingua tedesca), a Milano, il Canada e, infine, la Liguria. Si evidenzia così che a fuggire da
Fiume è stata pure quella parte italiana, che costituiva l’élite culturale della
città quarnerina.
Una parte della lettera - biglietto natalizio di Liliana Bulian, da Montreal, all'amica Helga Conighi, esule a Udine
3. Fiumani
nel mondo
Le lettere menzionante e le
fotografie qui riprodotte appartengono alla collezione Conighi di Udine; si
ringrazia tale famiglia per la concessione alla diffusione e pubblicazione di
tali preziosi materiali. Tra le altre, nella citata collezione familiare
emergono certi contatti soprattutto epistolari, telefonici e commerciali con le
seguenti famiglie di Fiume esuli nel resto d’Italia o del mondo, ma pure con
quelle rimaste a Fiume e dintorni, dopo il 1945.
I Zanetti sono profughi a
Firenze, come pure i Dokmanovich. Il gruppo dei Rassmann Kienel ripara a
Norimberga (Germania), mentre altri Rassmann sono a Klagenfurt (Austria). La
famiglia Hromatka è a Forlì, come pure i Sorgarello, mentre i Sarcià sono a
Ferrara. I Lehmann si dividono tra Bolzano e Milano. I Rudan sono a Roma e gli
Schönheim a Udine. Ci sono, infine, gli orafi Giraldi autori dei famosi
moretti fiumani, a New York (USA).
Tra i rimasti si notano i
Podhorska di Abbazia, altri Rassmann e i Ronćević a Fiume.
Collezione documentaria
Le immagini qui riprodotte appartengono alla Collezione famiglia Conighi di Udine.
Bibliografia essenziale
- Davide Vicedomini, Ecco la Casa di Truda il secondo mattatoio, «Messaggero Veneto», Cronaca di Udine, 3 marzo 2016, pagg. 22-23.
- Davide Vicedomini, Ecco la Casa di Truda il secondo mattatoio, «Messaggero Veneto», Cronaca di Udine, 3 marzo 2016, pagg. 22-23.
Fonti orali
- Helga Maria Conighi vedova Orgnani (Fiume 1923 – Udine
2000), intervista del 22.08.1999 a Udine a cura di E. Varutti.
- Marco F. (nome di fantasia), Monfalcone 1949 (luogo e
data di fantasia), int. di febbraio 2016.
- Pietro Mastromonaco, Roma 1934, ha vissuto a Gorizia dal 1937 al dopoguerra, intervista a Udine del 29.02.2016 a cura di E. Varutti.
- Pietro Mastromonaco, Roma 1934, ha vissuto a Gorizia dal 1937 al dopoguerra, intervista a Udine del 29.02.2016 a cura di E. Varutti.
Trieste, 3.11.1954 - didascalia originale, carro armato italiano
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Questo articolo rientra
nelle attività del Centro
di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata,
per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari
momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di
storia dell’Istituto
Stringher di Udine, di cui è
referente il professor Giancarlo Martina. È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie
di donne del ‘900”, che ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio
di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana,
ANED,
ANVGD di Udine.
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