venerdì 9 giugno 2017

Esodo e Giorno del Ricordo, un libro di Maria Luisa Bressani



Fin dalle prime righe di questo volume fa una bella mostra una cartolina di Trieste italiana, riprodotta pure in copertina.
 Trieste, Libreria Ubik, presentazione del libro di Maria Luisa Bressani, al microfono; è il 24 maggio 2017

L’autrice custodisce il cimelio sin dal 26 ottobre 1954, quando Trieste viene riannessa all’Italia, dopo la fallimentare esperienza del Territorio Libero di Trieste (1945-1954). E, riguardo a quella data, aggiunge questa nota personale e familiare: «quando con i miei genitori e mio fratello Ferruccio, arrivati da Genova, in piazza dell’Unità attendemmo le navi italiane».
Già così si capisce che è un volume sull’esodo giuliano dalmata, scritto dalla viva voce di una che l’esodo della sua famiglia fino a Genova l’ha vissuto quotidianamente, essendo nata a Trieste nel 1942. Il testo è miscellaneo. È un insieme di tanti racconti, tante testimonianze. Raccoglie vari articoli che la giornalista Maria Luisa Bressani ha scritto su «Il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» ed altri giornali.
 
Da destra Bruna Zuccolin, Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo, Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.

Bressani è poi autrice di vari libri, vincendo alcuni premi letterari. Salta subito agli occhi la tecnica espositiva usata per questa produzione. Non c’è solo il racconto della fuga dalle terre perse e tutto quello che si è (o non si è) raccontato in famiglia. Qui ci sono delle inusuali riflessioni sul rapporto tra la Shoah e l’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
L’autrice chiosa e commenta i suoi articoli pubblicati sulla stampa nazionale. Aggiunge poi degli inediti. Molti di questi pezzi sono scritti col cuore. Il lettore precisino noterà alcune ripetizioni e dei concetti esposti poche pagine addietro, ma lo scrive la Bressani stessa che non ha voluto modificare o tagliare certe parti dei testi pubblicati. Molti originali interventi sono sulla data del Giorno del Ricordo, nata per legge dal 2004, ma attiva in molte parti d’Italia già da qualche tempo prima.
L’autrice compie numerose incursioni cronachistiche nei fatti e scrittori del Novecento e anche in quelli del Terzo Millennio: Piazza Tienanmen, terrorismo islamico, Giampaolo Pansa, papa Wojtyla. Ma non scorda di rintuzzare i bolsi negazionisti degli eccidi nelle foibe.

 
Maria Luisa Bressani

Il volume è corredato da una serie di fotografie dell’epoca e di qualche ritaglio di giornale. Contiene paragrafi stampati a colore rosso (per evidenziare e per dare maggio risalto).
Come mai la famiglia Bressani va via da Trieste? È uno strano esodo avvenuto in treno nel 1948 da Via dello Scoglio. Il motivo è che il clima cittadino, nel dopoguerra, non era dei più favorevoli. Ecco qualche brano (tratto da pag. 10) per capire meglio la situazione.
«Trieste allora non era solo questa festa [della birreria Dreher]: quando per il 4 novembre i miei esponevano il Tricolore, con un fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma sabaudo, scendevano gli slavi dal Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un donnone slavo quando mia madre in bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie del tram cadde, le gridò: “Crodiga de un’italiana!” che sta per la cotenna del maiale».

Durante l’esodo il fratello della Bressani, Ferruccio cantava a fior di labbra: «No ghe esisti un altro paradiso più splendido de ti, Trieste mia».
Il volume gode del patrocinio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine e dell’Associazione Giuliani nel Mondo.
L’interessane volume di Maria Luisa Bressani è stato presentato a Trieste, con una folta partecipazione di pubblico il giorno di mercoledì 24 maggio 2017, alle ore 18, presso la libreria Ubik, in Galleria Tergesteo - Piazza della Borsa 15. Alla presentazione ha parlato Bruna Zuccolin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato provinciale di Udine.
L’intervento dotto è stato diretto dal professor Giuseppe Benelli, dell’Università di Genova e presidente dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G. Capellini” di La Spezia. Erano presenti anche Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo e Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.
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Le fotografie sono di proprietà di Fabiana Burco, ove non altrimenti scritto.
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Maria Luisa Bressani, Alla mia Trieste e ai profughi giuliano-dalmati, Tricase (LE), Youcanprint, 2017, pagg. 174, euro 18, con fotografie in bianco e nero e a colori.

ISBN 978-88-92642-45-4
 
La copertina e, sotto, una pagina del volume
Il segnalibro col logo dell'ANVGD - Comitato Provinciale di Udine che ha dato il patrocinio alla originale presentazione nella libreria Ubik di Trieste
 
Ecco l'interessante e lungo intervento di presentazione del professor Giuseppe Benelli.

La cartolina della copertina col tricolore, con due vedute di Trieste e sotto la scritta «Saluti da Trieste italiana», ricorda il 26 ottobre 1954, quando le truppe italiane entrarono a Trieste. È una data importante perché segna per l’Italia la fine della seconda guerra mondiale, nove anni dopo che si era conclusa sui campi di battaglia. In quel giorno il generale Winterton sale sulla nave da guerra su cui si era già imbarcato l’ultimo contingente di truppe inglesi, mentre il generale Edmondo De Renzi entra nella città. Trieste esce così definitivamente dalla guerra. «Eravamo tornati ogni anno come in pellegrinaggio – scrive Maria Luisa Bressani - e alla vigilia del 4 novembre ‘54, ritorno di Trieste all’Italia, nell’unica stanza d’albergo dove dormimmo tutti e quattro, mio padre andò avanti e indietro tutta la notte. Il giorno dopo i bersaglieri in corsa tra la folla scaldavano come il sole. E quel 5% di sloveni che temevano ripercussioni simili a ciò che loro avevano fatto, dovettero ricredersi: non gli fu torto un capello».

        Poche città italiane, tra la metà dell’Ottocento e la metà del secolo successivo, hanno sviluppato una civiltà della portata di quella di Trieste. Questo luogo di confine, abitato in parte da italiani e in parte da popolazioni affluite da varie parti del nostro continente, ha espresso opere poetiche, letterarie, artistiche di eccezionale qualità. Per l’autrice Trieste è «città-simbolo di tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco- Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana, S. Michele Anglica­na, la Sinagoga di S. Francesco. E oltre alla città vecchia, ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro. La dominano la Cattedrale e il Castello di San Giusto martire, per la sua festa coperto di vite rossa. Nel bianco Carso quando la vite ver­gine rosseggia si dice: “È il sangue dei nostri martiri”. La domina il Santuario del Grisa dove ho trovato un dépliant con il testamento dell’Arcivescovo Antonio Santin, testimone di due guerre mondiali: “Ho assistito allo strazio della mia povera terra e delle nostre buone popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice sprofondato nelle viscere della terra... Quello che tutti ci unisce e ci fa ricchi è l’amore”».

La catena della memoria è la trama che consente all’uomo identità e progettualità. La memoria è ricordo, un ri-accordo che dalla dispersione genera unità, e nell’unità rintraccia quell’identità che per la ragione occidentale definisce la storia nazionale. Condizione che obbliga a fare i conti col passato, a riparare ai torti subiti dalle vittime, a onorare la loro memoria e organizzarne la commemorazione. Dopo quel 1954, quando la vicenda triestina è di fatto conclusa, su tutta la complessa e delicata questione del confine nord-orientale cala il silenzio generalizzato. Trieste e i giuliani non servono al confronto politico interno e neppure a quello internazionale. Tuttavia la storia nazionale è da tempo il campo di battaglia più affollato nelle polemiche culturali italiane, almeno a partire dal dibattito sull’eredità di Renzo De Felice, quando il termine «revisionista» diventa di volta in volta una bandiera da sventolare o un’accusa da cui difendersi. Ma non si sono solo incrociate le armi: anzi in parallelo con una guerra combattuta tra libri, prese di posizioni pubbliche e qualche anatema, il modo di scrivere storia è cambiato molto, si è allargato, ha investito altri campi che tradizionalmente venivano ignorati. Nasce l’esigenza di giungere una storia condivisa del passato, nella consapevolezza che «condividere» non significa né assolvere, né confondere i progetti e i valori per i quali nel 1940-45 si era combattuto. La storia è per sua natura revisionista, sia perché ha il dovere di verificare la veridicità dei fatti, sottraendoli alla versione dei vincitori, sia perché deve prendere posizione pubblica contro l’invadenza della politica.

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Maria Luisa Bressani, nata a Trieste, ha preso la Maturità al Liceo classico D’Oria di Genova. Laurea con 110 e lode, medaglia d'argento e «proposta di richiesta del diritto di pubblicazione della tesi» sull’Aristeia omerica e virgiliana da parte del relatore, l’insigne grecista Enrico Turolla. Diplomata con il massimo dei voti alla Scuola Superiore  delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e diplomata, sempre con il massimo dei voti, alla Scuola di Specializzazione in Giornalismo della stessa università. Ha lavorato per «il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» (pagine della cultura), il «Settimanale cattolico» diocesano di Genova. Ha scritto diversi saggi per «Archivum Bobiense», rivista prestigiosa fondata da Michele Tosi. Poi sotto la direzione di Flavio Nuvolone, docente di Patristica a Friburgo, ha collaborato con diversi saggi da I mulini di Valtrebbia a Forni e pane, e studi su artisti tra cui Italo Londei e  Alberto Nobile, che allestì il primo Museo dell’Abbazia di Bobbio con Gianluigi Olmi ed Enrico Mandelli.
I libri pubblicati: Begonza («ovvero della donna due volte gonza», con etimologia da lei inventata); Scrivere o ricamare: scrittrici  italiane del Novecento; Lettere d'amore e di guerra, libro tratto dalle mille lettere dei genitori. Nel 2015 Nel tempo, raccolta di racconti con riflessioni su alcuni temi cari all’autrice. Dal «perché credere» all’indagine sulla condizione femminile, al dramma dell’aborto e al valore intangibile della vita, dalla ribellione della giovinezza al mistero dell’arte, allo splendore del mondo su cui camminiamo, fino al dramma della Giustizia che prima ti condanna a morte civile e poi ti riabilita perché «il fatto non sussiste». Tra i tanti premi ricordiamo il Candoni-TeatroOrazero, Sìlarus, Bontempelli, Scrittori per la scuola, Premio Pieve di Santo Stefano e il premio UCSI Liguria per il Giubileo 2000 (articolo su San Colombano comparso sul «Giorno»). Sposata da più di 50 anni, ha tre figli e sei nipoti.
Ho conosciuto Maria Luisa Bressani nel 2006 in occasione dell’uscita del suo libro, Lettere d’amore e di guerra. L’epistolario dell’ufficiale Edgardo Bressani all’amata Ida, con la battaglia di Tunisia e la prigionia a Saida (1934-1945), Lint editoriale, San Dorligo della Valle (Trieste). La storia d’amore tra Edgardo Bressani e Ida Ragaglia, i protagonisti di questo libro tratto dalle lettere raccolte e spiegate dalla figlia Maria Luisa. Un’appassionante “microstoria” familiare, segnata dall’esperienza della prigionia in un campo francese in Algeria, che restituisce in uno stile immediato, giornalistico, l’umanità e il vissuto di un paese in guerra. Forte autenticità, ricostruzione obiettiva, debito affettuoso. È suo padre che l’ha spinta involontariamente a fare la giornalista; un uomo coinvolto ingiustamente in un processo, ma assolto perché innocente e perché il fatto non sussiste. «Il mio giornalismo – scrive Maria Luisa Bressani – è nato da una questione di mala giustizia (in un primo tempo) e per tenere la penna pulita, per non fare come quei tre giornalisti dei quaranta articoli in prima pagina e della notizia d’assoluzione all’interno in poche righe».
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In questo libro Alla “mia” Trieste e ai profughi giuliano – dalmati Maria Luisa Bressani racconta di vite negate, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, scampoli di vita e di morte, che per pudore l’esule arrivato dall’Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiude nel dolore. In questo modo una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. L’esule dei paesi comunisti non è mai stato troppo gradito e le sue scelte giudicate con sospetto. Il partito comunista jugoslavo era impegnato a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli esuli che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Per avere la dimensione dell’esodo, prima della seconda guerra mondiale in Istria gli italiani erano dall’80 al 95%, in Dalmazia Zara era italiana al 95% e a Spalato e Ragusa vi­vevano floride “colonie” di italiani discendenti dai veneti che le abi­tavano dai tempi della Repubblica Marinara. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d’acqua e di latte da dare ai bambini. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva “il Migliore”, che il confine italiano fosse sull’Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia.
Nel marzo 2004 viene istituita la «Giornata del ricordo» per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l’esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant’anni per incominciare a restituire un po’ di verità alla storia e chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani. Nei suoi articoli per le Giornate del Ricordo Maria Luisa Bressani ospita solo testimoni del tempo. Contro ogni barbarie riporta voci autorevoli su cosa conclude una guerra, su scempi diplomatici riguardo le migrazioni, sui tanti perché di una memoria negata. Scrive nell’articolo L ’Odissea dimenticata.
Mezzo secolo di colpevole silenzio: «Tra il ’45 e il ’46 i comunisti slavi uccisero oltre diecimila persone, ma nessuno ne parlò. Sono trecentocinquantamila i profughi giuliano-dalmati che abbandonarono terra e case, affrontando la povertà per non rinunciare ad essere italiani. L’esodo ebbe due fasi: la prima dopo l’8 settembre 1943 per sfuggire all’emergenza degli infoibamenti, la seconda nel dopoguerra e in conseguenza del Trattato di Pace del ’47: gli esuli furono più del 60% degli abitanti di quella che era stata la Venezia Giulia e che comprendeva Gorizia, Trieste, Pola, Zara».
Giulio Vignoli, titolare all’Università di Genova della cattedra di Diritto delle Co­munità europee, scrive in Gli italiani dimenticati (Giuffré, Milano, 2000): «In Istria nel biennio 45/46 scomparvero più di diecimila per­sone e di esse non fu più trovata traccia tranne i cadaveri di alcune centinaia ricuperati dalle foibe. Di questo genocidio, di questa barba­rie, delle torture e delle efferatezze compiute ben poco si seppe e si sa in Italia. La Sinistra, che tanta voce in capitolo e tanto controllo dell’informazione ebbe ed ha in Italia, evitò di citare delitti compiuti da forze politiche ad essa ideologicamente affini...». Da ricordare ancora l’esodo silenzioso da Trieste, conseguenza del terrore dei quaranta giorni di occupazione titina e del cli­ma conflittuale creatosi con gli slavi fatti infiltrare nel territorio. «Poi la marginalità della città nel tessuto industriale italiano durante gli 11 anni di Territorio Libero, ma in regime di amministrazione straniera, che spinse tanti triestini a cercar lavoro altrove. In 2.100 emigrarono in Australia con il piroscafo Castel Verde nella primavera ‘54 quan­do ancora Trieste non era tornata italiana».
        L’autrice descrive Zara. perla d’italianità, capoluogo storico della Dalmazia e unica città dalmata annessa al Regno d’Italia dopo la prima guerra mondia­le. «Zara della storia romana, vene­ta e italiana, ebbe sei Accademie, la prima, degli Animosi, fondata nel 1562 e l’ultima, L’Economica-Agraria, nel 1793; ebbe la Biblio­teca Paravia con 66.571 volumi e l’Archivio di Stato con 18.887 vo­lumi. A Zara, dal 1912 al 1945 era attiva una sezione della Società Dante Alighieri che è stata ricostituita nel 1995».
Viene bombardata pesantemente dagli angloamericani, sulla falsa indi­cazione dei titini di obbiettivi militari, per distruggere l’unico centro rimasto a maggioranza italiana. «Subì 60 incursioni aeree per cui già nel ’42 la parte storica della città era in macerie, come è documenta­to in Vennero dal cielo, 185 fotografie di Zara distrutta, 1943-44, a cura di Oddone Talpo e Sergio Brcic. In Dalmazia. Una cronaca per la storia '1943-44) (Roma, 1994) Talpo ha raccolto le testimonianze delle efferatezze dei partigiani slavo-comunisti dopo l’ingresso in città il 31 ottobre 1944 e la mattanza di 372 persone, nominativa­mente ricordate: ricordare non è per rinfocolare odi o riacuire dolore di chi non ha smesso di piangere i propri morti, ma per riprendere in futuro il passato di civile convivenza».
Famose le sue distillerie. «Bisogna far giustizia - commenta Riccardo Vlahov la cui famiglia prima della guerra aveva la fabbrica dell’Amaro Zara e cento operai -. Far giustizia su silenzio e omertà di menzogne riguardo l’esodo, perché un establishment politico consegnò una città e una popolazio­ne italiana ad una terra straniera. Nella nostra famiglia eravamo anti­fascisti e lo mettevamo in pratica nelle assunzioni degli operai aggi­rando filtri imposti dal regime, ma ciò non servì a proteggere mio padre Ramiro. Per potersene andare libero con la famiglia nel ’44 gli fu estorta la donazione delle macerie dalla fabbrica. Il nostro amaro era forte e secco, con poteri medicinali, e la ricetta era stata conse­gnata al mio bisnonno dal monastero per cui era fornitore di droghe speziali. Ho una foto del 1920 in cui se ne vede la pubblicità su una casa di New York».
        Stefano Zecchi, filosofo e romanziere, pubblica nel 2010 Quando ci batteva forte il cuore (Mondadori), libro che ci ricorda le ripercussioni della tragedia dell’esodo e ci narra un’«italiana universalità». «Zecchi, - scrive l’autrice - nato a Pola, fu abbandonato dalla madre entrata nella lotta clandestina dopo la Pace di Parigi, 10 febbraio 1947, che consegnò l’Istria alla Jugoslavia. Da un volantino del tempo: “Una banda criminale di malviventi, appartenente ad un CLN clandestino con sede a Pola, sta svolgendo attività di spionaggio e sabotaggio contro il potere popolare e la nuova Jugoslavia”. Tra i ri­cercati anche la sua mamma, la maestra Nives Parenti. Fu allora che il padre, artigiano di calzature, fuggì con lui per raggiungere l’Italia. Scrive Zecchi: “Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi. Mia madre è stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal fil di ferro, legata insieme ad altri sette sventurati...Non so neppure dove è sepolta”». Zecchi, dopo la  morte del padre, tornò a Pirano da don Egidio, il sacerdote che li aveva aiutati nella fuga a Trieste. «Da lui ebbe una lettera, lasciata dal padre per Nives, che non aveva potuto consegnarle. Una gran lettera d’amore. Zecchi non perdonò mai la mamma di averlo lasciato sce­gliendo la clandestinità. Al sacerdote che ne elogia il coraggio e l’amore dei genitori risponde e sembra Piccolo Mondo Antico: “Discutevano in continuazione, litigavano e sempre per la politica”. Don Egidio: “La politica li ha divisi, sono stati sfortunati, li ha separati prima la guerra, poi la pace”».
        Con grande coinvolgimento emotivo Maria Luisa Bressani entra nell’animo degli intervistati, li fa parlare di cose lontane e pur così tremendamente vicine. Il cuore dell’esule continua ad essere segnato dal dolore dei campi di accoglienza, fatti di sguardi mesti, occhi lacrimosi, voci balbettanti. Ciò che le testimonianze propongono con la forza amara dell’esperienza vissuta sono raccontate con estrema delicatezza e sofferenza condivisa. Nelle loro partenze non c’era la prospettiva di un cambiamento o la ricerca di un nuovo inizio, ma la consapevolezza di un andarsene senza ritorno e della rottura di una tradizione. Anna Maria Crasti, esule da Orsera, conclude la sua testimonianza nel 2013 su Anita Quarantotto, martire di Vergarolla: «Hai rimpianti? Sono passati sessantasei anni, eppure per noi Istriani, Fiumani, Dalmati non è cambiato quasi nulla. Spesso siamo considerati sempre e comunque fascisti... troppo (inutilmente italiani). Chiediamo solida­rietà, non compassione. Chiediamo di non dire Vrsar (Orsera) - Porec (Parenzo) - Rijeka (Fiume) - Zadar (Zara), ma di chiamarle co­me le hanno chiamata sempre non solo i Veneziani, ma gli Austriaci (Impero Asburgico), i Francesi (Napoleone) e tutti quelli che ci han­no difeso o dominato perché quello da sempre era il loro nome. Chiediamo troppo che alcune associazioni della Resistenza non defi­niscano “la commemorazione dei caduti delle foibe una pericolosa attività di agitazione revanscista?”. È troppo se chiediamo che un morto nelle foibe, istriano e quindi italiano, sia considerato uguale ad un morto in un lager nazista? Il dolore di un’istriana, madre, moglie, figlia d’infoibato non è eguale a quello di una madre, moglie, figlia di un ebreo, zingaro, prete, omosessuale comunista... morti in un lager nazista?». Sono i destini incrociati di una esperienza tragica, dove la guerra prosegue dentro la pace, e rispetto alla quale la storia ha ancora tanto da scrivere.
        Maria Luisa Bressani annota: «Amo il libro che ha storia, memoria e un po’ di sé per chi legge. Per lui - il lettore-amico! - finisco con un po’ di me». Nata a Trieste, dove vi ha vissuto solo due anni, dal 1946 al ‘48, ha struggenti ricordi legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. «Il vento che soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un salutista, ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le strade facevamo “catena” con gli altri: per mano perché “insieme si può”. Il vento per me ha il senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad indipendenza».
                                                  Giuseppe Benelli



Un cimelio da una casa di esuli fiumani; bandierina ricordo del 26 ottobre 1954 a Trieste. Collezione E. Conighi, Ferrara 


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