Fin dalle prime righe di questo volume fa una bella mostra
una cartolina di Trieste italiana, riprodotta pure in copertina.
Trieste, Libreria Ubik, presentazione del libro di Maria Luisa Bressani, al microfono; è il 24 maggio 2017
L’autrice
custodisce il cimelio sin dal 26 ottobre 1954, quando Trieste viene riannessa
all’Italia, dopo la fallimentare esperienza del Territorio Libero di Trieste
(1945-1954). E, riguardo a quella data, aggiunge questa nota personale e
familiare: «quando con i miei genitori e mio fratello Ferruccio, arrivati da
Genova, in piazza dell’Unità attendemmo le navi italiane».
Già così si capisce che è un
volume sull’esodo giuliano dalmata, scritto dalla viva voce di una che l’esodo della
sua famiglia fino a Genova l’ha vissuto quotidianamente, essendo nata a Trieste
nel 1942. Il testo è miscellaneo. È un insieme di tanti racconti, tante
testimonianze. Raccoglie vari articoli che la giornalista Maria Luisa Bressani
ha scritto su «Il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile»,
«Il Giorno» ed altri giornali.
Da destra Bruna Zuccolin, Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo, Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.
Bressani è poi autrice di vari
libri, vincendo alcuni premi letterari. Salta subito agli occhi la tecnica
espositiva usata per questa produzione. Non c’è solo il racconto della fuga
dalle terre perse e tutto quello che si è (o non si è) raccontato in famiglia.
Qui ci sono delle inusuali riflessioni sul rapporto tra la Shoah e l’esodo
degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
L’autrice chiosa e commenta i
suoi articoli pubblicati sulla stampa nazionale. Aggiunge poi degli inediti.
Molti di questi pezzi sono scritti col cuore. Il lettore precisino noterà alcune
ripetizioni e dei concetti esposti poche pagine addietro, ma lo scrive la
Bressani stessa che non ha voluto modificare o tagliare certe parti dei testi
pubblicati. Molti originali interventi sono sulla data del Giorno del Ricordo,
nata per legge dal 2004, ma attiva in molte parti d’Italia già da qualche tempo
prima.
L’autrice compie numerose incursioni
cronachistiche nei fatti e scrittori del Novecento e anche in quelli del Terzo
Millennio: Piazza Tienanmen, terrorismo islamico, Giampaolo Pansa, papa
Wojtyla. Ma non scorda di rintuzzare i bolsi negazionisti degli eccidi nelle
foibe.
Maria Luisa Bressani
Il volume è corredato da una
serie di fotografie dell’epoca e di qualche ritaglio di giornale. Contiene
paragrafi stampati a colore rosso (per evidenziare e per dare maggio risalto).
Come mai la famiglia Bressani va
via da Trieste? È uno strano esodo avvenuto in treno nel 1948 da Via dello
Scoglio. Il motivo è che il clima cittadino, nel dopoguerra, non era dei più
favorevoli. Ecco qualche brano (tratto da pag. 10) per capire meglio la
situazione.
«Trieste allora non era solo
questa festa [della birreria Dreher]: quando per il 4 novembre i miei
esponevano il Tricolore, con un fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma
sabaudo, scendevano gli slavi dal Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un
donnone slavo quando mia madre in bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie
del tram cadde, le gridò: “Crodiga de un’italiana!” che sta per la cotenna del
maiale».
Durante l’esodo il fratello
della Bressani, Ferruccio cantava a fior di labbra: «No ghe esisti un altro
paradiso più splendido de ti, Trieste mia».
Il volume gode del patrocinio dell’Associazione
Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine e
dell’Associazione Giuliani nel Mondo.
L’interessane volume di Maria
Luisa Bressani è stato presentato a Trieste, con una folta partecipazione di
pubblico il giorno di mercoledì
24 maggio 2017, alle ore 18, presso la libreria Ubik, in Galleria Tergesteo -
Piazza della Borsa 15. Alla presentazione ha parlato Bruna Zuccolin, presidente
dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato provinciale di
Udine.
L’intervento dotto è stato diretto
dal professor Giuseppe Benelli, dell’Università di Genova e presidente dell’Accademia
Lunigianese
di Scienze “G. Capellini” di La Spezia. Erano presenti anche Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo e Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel Mondo.
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Le fotografie sono di proprietà di Fabiana Burco, ove non altrimenti scritto.
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Maria Luisa Bressani, Alla
mia Trieste e ai profughi
giuliano-dalmati, Tricase (LE), Youcanprint, 2017, pagg. 174, euro 18, con fotografie in bianco e nero e a colori.
ISBN 978-88-92642-45-4
La copertina e, sotto, una pagina del volume
Il segnalibro col logo dell'ANVGD - Comitato Provinciale di Udine che ha dato il patrocinio alla originale presentazione nella libreria Ubik di Trieste
Ecco l'interessante e lungo intervento di presentazione del professor Giuseppe Benelli.
La cartolina della copertina col tricolore, con due vedute
di Trieste e sotto la scritta «Saluti da Trieste italiana», ricorda il 26
ottobre 1954,
quando le truppe italiane entrarono a Trieste. È una data importante perché
segna per l’Italia la fine della seconda guerra mondiale, nove anni dopo che si
era conclusa sui campi di battaglia. In quel giorno il generale Winterton sale
sulla nave da guerra su cui si era già imbarcato l’ultimo contingente di truppe
inglesi, mentre il generale Edmondo De Renzi entra nella città. Trieste esce
così definitivamente dalla guerra. «Eravamo
tornati ogni anno come in pellegrinaggio – scrive Maria Luisa Bressani - e alla
vigilia del 4 novembre ‘54, ritorno di Trieste all’Italia, nell’unica stanza
d’albergo dove dormimmo tutti e quattro, mio padre andò avanti e indietro tutta
la notte. Il giorno dopo i bersaglieri in corsa tra la folla scaldavano come il
sole. E quel 5% di sloveni che temevano ripercussioni simili a ciò che loro
avevano fatto, dovettero ricredersi: non gli fu torto un capello».
Poche città
italiane, tra la metà dell’Ottocento e la metà del secolo successivo, hanno
sviluppato una civiltà della portata di quella di Trieste. Questo luogo di
confine, abitato in parte da italiani e in parte da popolazioni affluite da
varie parti del nostro continente, ha espresso opere poetiche, letterarie,
artistiche di eccezionale qualità. Per l’autrice Trieste è «città-simbolo di
tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione
Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco- Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana,
S. Michele Anglicana, la Sinagoga di S. Francesco. E oltre alla città vecchia,
ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro. La
dominano la Cattedrale e il Castello di San Giusto martire, per la sua festa
coperto di vite rossa. Nel bianco Carso quando la vite vergine rosseggia si
dice: “È il sangue dei nostri martiri”. La domina il Santuario del Grisa dove
ho trovato un dépliant con il testamento dell’Arcivescovo Antonio Santin, testimone di due guerre mondiali:
“Ho assistito allo strazio della mia povera terra e delle nostre buone
popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice sprofondato nelle viscere
della terra... Quello che tutti ci unisce e ci fa ricchi è l’amore”».
La catena della memoria è la trama che consente all’uomo identità e
progettualità.
La memoria è ricordo, un ri-accordo che dalla dispersione genera unità, e
nell’unità rintraccia quell’identità che per la ragione occidentale definisce
la storia nazionale. Condizione che obbliga a fare i conti col passato, a
riparare ai torti subiti dalle vittime, a onorare la loro memoria e organizzarne
la commemorazione. Dopo quel 1954, quando la vicenda triestina è di fatto
conclusa, su tutta la complessa e delicata questione del confine nord-orientale
cala il silenzio generalizzato. Trieste e i giuliani non servono al confronto
politico interno e neppure a quello internazionale. Tuttavia la storia nazionale è da tempo il campo di
battaglia più affollato nelle polemiche culturali italiane, almeno a
partire dal dibattito sull’eredità di Renzo De Felice, quando il termine
«revisionista» diventa di volta in volta una bandiera da sventolare o un’accusa
da cui difendersi. Ma non si sono solo incrociate le armi: anzi in parallelo
con una guerra combattuta tra libri, prese di posizioni pubbliche e qualche
anatema, il modo di scrivere storia è cambiato molto, si è allargato, ha
investito altri campi che tradizionalmente venivano ignorati. Nasce l’esigenza
di giungere una storia condivisa del passato, nella consapevolezza che
«condividere» non significa né assolvere, né confondere i progetti e i valori per
i quali nel 1940-45 si era combattuto. La
storia è per sua natura revisionista, sia perché ha il dovere di
verificare la veridicità dei fatti, sottraendoli alla versione dei vincitori,
sia perché deve prendere posizione pubblica contro l’invadenza della politica.
***
Maria
Luisa Bressani, nata a Trieste, ha preso la Maturità
al Liceo classico D’Oria di Genova. Laurea con
110 e lode, medaglia d'argento e «proposta di richiesta del diritto di
pubblicazione della tesi» sull’Aristeia omerica e virgiliana da parte del
relatore, l’insigne grecista Enrico Turolla. Diplomata con il massimo dei voti alla Scuola Superiore delle
Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e diplomata, sempre con il massimo dei voti, alla Scuola di Specializzazione
in Giornalismo della stessa università. Ha lavorato per «il Giornale», «Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile»,
«Il Giorno» (pagine della cultura), il «Settimanale cattolico» diocesano di
Genova. Ha scritto diversi saggi per «Archivum Bobiense», rivista prestigiosa fondata da Michele Tosi. Poi sotto la direzione di Flavio Nuvolone, docente di Patristica
a Friburgo, ha collaborato con diversi saggi da I mulini di Valtrebbia a Forni e pane, e studi
su artisti tra cui Italo Londei e Alberto
Nobile, che allestì il primo Museo dell’Abbazia di Bobbio con Gianluigi Olmi ed Enrico Mandelli.
I
libri pubblicati: Begonza («ovvero
della donna due volte gonza», con etimologia da lei inventata); Scrivere o ricamare: scrittrici italiane del Novecento; Lettere d'amore e di guerra, libro tratto dalle mille
lettere dei genitori. Nel 2015 Nel tempo,
raccolta di racconti con riflessioni su alcuni temi cari all’autrice.
Dal «perché credere» all’indagine sulla condizione femminile, al dramma dell’aborto
e al valore intangibile della vita, dalla ribellione della giovinezza al
mistero dell’arte, allo splendore del mondo su cui camminiamo, fino al dramma
della Giustizia che prima ti condanna a morte civile e poi ti riabilita perché «il
fatto non sussiste». Tra
i tanti premi ricordiamo il Candoni-TeatroOrazero, Sìlarus, Bontempelli,
Scrittori per la scuola, Premio Pieve di Santo Stefano e il premio UCSI Liguria per il Giubileo 2000 (articolo su San
Colombano comparso sul «Giorno»). Sposata da più di 50 anni, ha tre figli e sei nipoti.
Ho conosciuto
Maria Luisa Bressani nel 2006 in occasione dell’uscita del suo libro, Lettere d’amore e di guerra. L’epistolario
dell’ufficiale Edgardo Bressani all’amata Ida, con la battaglia di Tunisia e la
prigionia a Saida (1934-1945), Lint editoriale, San Dorligo della
Valle (Trieste). La
storia d’amore tra Edgardo Bressani e Ida Ragaglia, i protagonisti di
questo libro tratto dalle lettere raccolte e spiegate dalla figlia Maria Luisa. Un’appassionante “microstoria” familiare,
segnata dall’esperienza della prigionia in un campo francese in Algeria, che
restituisce in uno stile immediato, giornalistico, l’umanità e il vissuto di un
paese in guerra. Forte autenticità, ricostruzione
obiettiva, debito affettuoso. È suo padre che l’ha spinta involontariamente a
fare la giornalista; un uomo coinvolto ingiustamente in un processo, ma assolto
perché innocente e perché il fatto non sussiste. «Il mio giornalismo – scrive
Maria Luisa Bressani – è nato da una questione di mala giustizia (in un primo
tempo) e per tenere la penna pulita, per non fare come quei tre giornalisti dei
quaranta articoli in prima pagina e della notizia d’assoluzione all’interno in
poche righe».
***
In
questo libro Alla
“mia” Trieste e ai profughi giuliano – dalmati
Maria Luisa Bressani racconta di vite
negate, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, scampoli di vita e di morte,
che per pudore l’esule arrivato dall’Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiude
nel dolore. In questo modo una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le
sconvenienti ragioni degli sconfitti. L’esule dei paesi comunisti non è mai
stato troppo gradito e le sue scelte giudicate con sospetto. Il partito
comunista jugoslavo era impegnato a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli
italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni
di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia
gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di
essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e
infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di
migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri
che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli esuli che lasciarono tutto, pur di rimanere
italiani e vivi. Per avere la dimensione dell’esodo, prima della seconda guerra
mondiale in Istria gli italiani erano dall’80 al 95%, in Dalmazia Zara era
italiana al 95% e a Spalato e Ragusa vivevano floride “colonie” di italiani
discendenti dai veneti che le abitavano dai tempi della Repubblica Marinara. Accolti
in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti
potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Il treno che
doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri
comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare
rifornimento d’acqua e di latte da dare ai bambini. A quel tempo, Togliatti
aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il
vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con
esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva “il Migliore”,
che il confine italiano fosse sull’Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la
Venezia Giulia.
Nel marzo 2004 viene istituita la «Giornata del ricordo» per
celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l’esilio
dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant’anni per
incominciare a restituire un po’ di verità alla storia e chiedere scusa alle
migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché
volevano rimanere italiani. Nei suoi articoli
per le Giornate del Ricordo Maria Luisa Bressani ospita solo testimoni del
tempo. Contro ogni barbarie riporta voci autorevoli su cosa conclude una guerra,
su scempi diplomatici riguardo le migrazioni, sui tanti perché di una memoria
negata. Scrive nell’articolo L ’Odissea dimenticata.
Mezzo secolo di colpevole silenzio: «Tra il ’45 e il ’46 i comunisti slavi uccisero oltre diecimila
persone, ma nessuno ne parlò. Sono trecentocinquantamila i profughi
giuliano-dalmati che abbandonarono terra e case, affrontando la povertà per non
rinunciare ad essere italiani. L’esodo ebbe due fasi: la prima dopo l’8
settembre 1943 per sfuggire all’emergenza degli infoibamenti, la seconda nel
dopoguerra e in conseguenza del Trattato di Pace del ’47: gli esuli furono più
del 60% degli abitanti di quella che era stata la Venezia Giulia e che
comprendeva Gorizia, Trieste, Pola, Zara».
Giulio Vignoli, titolare all’Università di Genova della cattedra di Diritto
delle Comunità europee, scrive in Gli italiani dimenticati (Giuffré,
Milano, 2000): «In Istria nel biennio 45/46 scomparvero più di diecimila persone
e di esse non fu più trovata traccia tranne i cadaveri di alcune centinaia
ricuperati dalle foibe. Di questo genocidio, di questa barbarie, delle torture
e delle efferatezze compiute ben poco si seppe e si sa in Italia. La Sinistra,
che tanta voce in capitolo e tanto controllo dell’informazione ebbe ed ha in
Italia, evitò di citare delitti compiuti da forze politiche ad essa
ideologicamente affini...». Da ricordare ancora l’esodo silenzioso da Trieste,
conseguenza del terrore dei quaranta giorni di occupazione titina e del clima
conflittuale creatosi con gli slavi fatti infiltrare nel territorio. «Poi la
marginalità della città nel tessuto industriale italiano durante gli 11 anni di
Territorio Libero, ma in regime di amministrazione straniera, che spinse tanti
triestini a cercar lavoro altrove. In 2.100 emigrarono in Australia con il
piroscafo Castel Verde nella primavera ‘54 quando ancora Trieste non era
tornata italiana».
L’autrice
descrive Zara. perla d’italianità, capoluogo storico della Dalmazia e
unica città dalmata annessa al Regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale. «Zara
della storia romana, veneta e italiana, ebbe sei Accademie, la prima, degli Animosi,
fondata nel 1562 e l’ultima, L’Economica-Agraria, nel 1793; ebbe la
Biblioteca Paravia con 66.571 volumi e l’Archivio di Stato con 18.887 volumi.
A Zara, dal 1912 al 1945 era attiva una sezione della Società Dante Alighieri che è
stata ricostituita nel 1995».
Viene bombardata pesantemente dagli angloamericani, sulla
falsa indicazione dei titini di obbiettivi militari, per distruggere l’unico
centro rimasto a maggioranza italiana. «Subì 60 incursioni aeree per cui già
nel ’42 la parte storica della città era in macerie, come è documentato in Vennero
dal cielo, 185 fotografie di Zara distrutta, 1943-44, a cura di Oddone Talpo e
Sergio Brcic. In Dalmazia. Una cronaca per la
storia '1943-44) (Roma, 1994) Talpo ha raccolto le testimonianze delle
efferatezze dei partigiani slavo-comunisti dopo l’ingresso in città il 31
ottobre 1944 e la mattanza di 372 persone, nominativamente ricordate:
ricordare non è per rinfocolare odi o riacuire dolore di chi non ha smesso di
piangere i propri morti, ma per riprendere in futuro il passato di civile
convivenza».
Famose le sue distillerie. «Bisogna far giustizia - commenta
Riccardo Vlahov la cui famiglia
prima della guerra aveva la fabbrica dell’Amaro Zara e cento operai -.
Far giustizia su silenzio e omertà di menzogne riguardo l’esodo, perché un
establishment politico consegnò una città e una popolazione italiana ad una
terra straniera. Nella nostra famiglia eravamo antifascisti e lo mettevamo in
pratica nelle assunzioni degli operai aggirando filtri imposti dal regime, ma
ciò non servì a proteggere mio padre Ramiro. Per potersene andare libero con la
famiglia nel ’44 gli fu estorta la donazione delle macerie dalla fabbrica. Il
nostro amaro era forte e secco, con poteri medicinali, e la ricetta era stata
consegnata al mio bisnonno dal monastero per cui era fornitore di droghe
speziali. Ho una foto del 1920 in cui se ne vede la pubblicità su una casa di
New York».
Stefano Zecchi,
filosofo e romanziere, pubblica nel 2010 Quando ci batteva forte il cuore
(Mondadori), libro che ci ricorda le ripercussioni della tragedia dell’esodo e
ci narra un’«italiana universalità». «Zecchi, - scrive l’autrice - nato a Pola,
fu abbandonato dalla madre entrata nella lotta clandestina dopo la Pace di
Parigi, 10 febbraio 1947, che consegnò l’Istria alla Jugoslavia. Da un
volantino del tempo: “Una banda criminale di malviventi, appartenente ad un CLN
clandestino con sede a Pola, sta svolgendo attività di spionaggio e sabotaggio
contro il potere popolare e la nuova Jugoslavia”. Tra i ricercati anche la sua
mamma, la maestra Nives Parenti.
Fu allora che il padre, artigiano di calzature, fuggì con lui per raggiungere
l’Italia. Scrive Zecchi: “Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho
conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi. Mia madre è
stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal fil di
ferro, legata insieme ad altri sette sventurati...Non so neppure dove è
sepolta”». Zecchi, dopo la morte del
padre, tornò a Pirano da don Egidio, il sacerdote che li aveva aiutati nella fuga
a Trieste. «Da lui ebbe una lettera, lasciata dal padre per Nives, che non
aveva potuto consegnarle. Una gran lettera d’amore. Zecchi non perdonò mai la
mamma di averlo lasciato scegliendo la clandestinità. Al sacerdote che ne
elogia il coraggio e l’amore dei genitori risponde e sembra Piccolo Mondo
Antico: “Discutevano in continuazione, litigavano e sempre per la
politica”. Don Egidio: “La politica li ha divisi, sono stati sfortunati, li ha
separati prima la guerra, poi la pace”».
Con grande
coinvolgimento emotivo Maria Luisa Bressani entra nell’animo degli
intervistati, li fa parlare di cose lontane e pur così tremendamente vicine. Il
cuore dell’esule continua ad essere segnato dal dolore dei campi di
accoglienza, fatti di sguardi mesti, occhi lacrimosi, voci balbettanti. Ciò che
le testimonianze propongono con la forza amara dell’esperienza vissuta sono
raccontate con estrema delicatezza e sofferenza condivisa. Nelle loro partenze
non c’era la prospettiva di un cambiamento o la ricerca di un nuovo inizio, ma
la consapevolezza di un andarsene senza ritorno e della rottura di una
tradizione. Anna Maria Crasti, esule da Orsera, conclude la sua testimonianza
nel 2013 su Anita Quarantotto, martire di Vergarolla: «Hai rimpianti? Sono
passati sessantasei anni, eppure per noi Istriani, Fiumani, Dalmati non è
cambiato quasi nulla. Spesso siamo considerati sempre e comunque fascisti...
troppo (inutilmente italiani). Chiediamo solidarietà, non compassione.
Chiediamo di non dire Vrsar (Orsera) - Porec (Parenzo) - Rijeka (Fiume) - Zadar
(Zara), ma di chiamarle come le hanno chiamata sempre non solo i Veneziani, ma
gli Austriaci (Impero Asburgico), i Francesi (Napoleone) e tutti quelli che ci
hanno difeso o dominato perché quello da sempre era il loro nome. Chiediamo
troppo che alcune associazioni della Resistenza non definiscano “la
commemorazione dei caduti delle foibe una pericolosa attività di agitazione
revanscista?”. È troppo se chiediamo che un morto nelle foibe, istriano e
quindi italiano, sia considerato uguale ad un morto in un lager nazista? Il
dolore di un’istriana, madre, moglie, figlia d’infoibato non è eguale a quello
di una madre, moglie, figlia di un ebreo, zingaro, prete, omosessuale
comunista... morti in un lager nazista?». Sono i destini incrociati di una
esperienza tragica, dove la guerra prosegue dentro la pace, e rispetto alla
quale la storia ha ancora tanto da scrivere.
Maria Luisa Bressani
annota: «Amo il libro che ha storia, memoria e un po’ di sé per chi legge. Per
lui - il lettore-amico! - finisco con un po’ di me». Nata a Trieste, dove vi ha vissuto solo due anni, dal 1946 al
‘48, ha struggenti ricordi legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. «Il
vento che soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un
salutista, ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le
strade facevamo “catena” con gli altri: per mano perché “insieme si può”. Il
vento per me ha il senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad
indipendenza».
Giuseppe Benelli
Un cimelio da una casa di esuli fiumani; bandierina ricordo del 26 ottobre 1954 a Trieste. Collezione E. Conighi, Ferrara
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