La signora Fiorella Capolicchio, classe 1941, tra
settembre 2015 e dicembre 2016, ha raccontato la vicenda del suo esodo istriano
nel profilo Google intestato al suo nome. Il suo certificato di cittadinanza
italiana rilasciato dal Comune di Pola “per uso esodo” è del 30 dicembre 1946, col piroscafo Toscana.
Nel febbraio 1947 ha inizio il valzer dentro e fuori dai Centri Raccolta Profughi (CPR) e i Centri dell'International Refugeé Organisasion (IRO). Tra le
varie tappe del suo peregrinare si ricordano i Centri di Bergamo (Gandino) e della
Campania (Bagnoli, Capua, Carinaro,
S.
Antonio di Pontecagnano). Lei studia e si fa una professione, dato che ricopre
il ruolo di aiuto infermiera all’ambulatorio del Centro rifugiati di Carinaro, provincia di
Caserta. Entra da bambina in un Campo Profughi, con la famiglia. Vi rimane fino
al 1962 quando, raggiunta la maggiore età, decide autonomamente di andarsene
dall’Italia, partendo da Napoli. In Svezia giunge con passaporto turistico
italiano nel 1963, poi lavora lì fino alla meritata pensione. Oggi vive a Göteborg.
---
Ringrazio per la diffusione delle fotografie e dei
testi, selezionati dallo scrivente, ove non specificato diversamente, la signora
Fiorella Capolicchio, nata a Pola il 31
marzo 1941, pensionata, che vive in Göteborg (Svezia).
I titoli dei paragrafi
sono a cura di E. Varutti. Ecco il racconto di Fiorella Capolicchio, contattata, via social media, il 19 e 20 settembre 2017, dall'Autore.
La didascalia, in sovrimpressione, è della signora Fiorella Capolicchio, prima a destra. Collezione Fiorella Capolicchio di Pola, ora a Göteborg (Svezia)
Partire da Pola, 1947
«Dovevamo
partire e basta! Disse mia madre con l’ultimo nato in braccio e poi aggiunse;
Metti scarpe e calze e asciuga quelle
lacrime che non abbiamo tempo per la tristezza, il carro aspetta e la nave è in porto, “ la
nostra via è segnata” Si,
ma quelle parole a me bambina non dicevano molto. Quello che più di tutto mi
aveva fatto preoccupare erano, le scarpe e le calze. Proprio così, aveva detto
la mamma. Bisognava obbedire e non perdersi in piagnistei.
Anche se il fratellino più piccolo stava al caldo in braccio alla mamma ed io
invece seduta per terra dovevo fare tutto da sola. Le sedie e i letti erano
ammucchiati in mezzo alla cucina, avremmo anche portato via lo “spacker” (la
foghera de ghisa) che aveva fatto mio padre.
Ubbidire
e basta, così mi hanno insegnato, e in quel di febbraio 1947, tutti abbiamo
obbedito alla cattiva sorte.
“Metite
scarpe e calse” (mettiti scarpe e calze) mia madre aveva detto scarpe e calse
proprio in questo ordine mi ripetevo nella mente, bisognava ubbidire senza
indugi, ma poi mia madre dovette aiutarmi a togliere la calza che io con grande
fatica avevo messo sopra la scarpa…
Ubbidire,
come quando i tedeschi avevano minato la casa per farla saltare, quando eravamo
sfollati a Capodistria ed io volevo tornare indietro per la scarpa persa, mia
madre con il piccolo in braccio e le pallottole dei partigiani sopra la testa
aveva gridato dal canale sotto il filo spinato, "lassa star la scarpa”
(lascia stare la scarpa).
Avevo
ubbidito stringendo forte la mano di mio fratello maggiore, continuai a correre
con il piede nudo nel fango, tra corpi ammazzati, mentre io mi preoccupavo per
la scarpa, la casa minata era saltata in aria, noi invece fummo salvi al riparo
del canale che era un buco di fogna.
Una
notte dopo i bombardamenti su Pola tornati dal rifugio e non potendo slegare il
laccio di una scarpa mia madre disse: “Va a dormir con la scarpa” (dormi con la
scarpa). Mi era sembrato molto strano appoggiare la scarpa sporca di fango sul
bianco delle lenzuola, vinse il sonno.
Sono cresciuta timida e ubbidiente qualità valide solo
se in ambiente familiare, ma devastanti per chi è esule, in giro per il mondo».
Particolare del Certificato di cittadinanza italiana del Comune di Pola, del 30 dicembre 1946, intestato a Fiorella Capolicchio, rilasciato "per uso: esodo". Collezione Fiorella Capolicchio di Pola, ora a Göteborg (Svezia)
Al CRP di Gandino nel 1947, al posto delle galline
«Gandino, in provincia di Bergamo, primo Comune di residenza dopo
l'esodo da Pola nel febbraio del 1947.
Nel cassetto del comò dove era stata messa la bambolina di pezza
con il vestitino a quadretti rosso e blu spedita dalla zia materna, quel giorno
la bambina ci trovò una nidiata di topolini e c'era anche la muffa.
In quell'ala del vecchio lazzaretto, (in paese chiamavano così il
vecchio ospedale), le suore fecero sgombrare le galline per far posto a noi
esuli. Un muro sottile ci separava dalla camera mortuaria da dove si sentiva il
pianto dei parenti del morto di turno.
Oltre la strada che portava all'ospedale c’era un prato in discesa
poi un’altra strada separava il prato dall'asilo gestito da suore, la stessa
che portava a Monte Farno e all’osteria Macallè dove mio padre a volte mandava
il mio fratellino a comperare il vino. Ma di sera con il buio lui di quattro
anni aveva paura di andarci da solo ed io sei anni dovevo andare con lui perché
in due ci si faceva coraggio. In principio mio padre lavorava come guardiano
notturno in una fabbrica tessile, ma la fabbrica fallì e lo pagarono dandogli
delle coperte che mio fratello maggiore cercava di vendere.
Eravamo in sette e mia sorella quattordicenne era l'unica che
lavorava nella fabbrica tessile di Leffe, ma la paga non bastava e ci andava a
piedi per risparmiare i soldi della corriera. Così che tornando a casa con le
vesciche ai piedi per le scarpe troppo grandi a volte neanche la cena trovava. A
volte mia sorella portava a casa dalla fabbrica il dopo lavoro, grandi rotoli
di frangia per copriletto da rifinire a mano con ciuffi come guarnizione. I
miei due fratelli più grandi di undici e diciassette anni che aiutavano mio
padre, facevano a gara a chi rifiniva più metri di frangia di copriletto oltre
ai metri imposti da mio padre in un periodo di tempo stabilito.
Volendo imparare anch'io e gareggiare con loro, dopo di aver tanto
insistito presi posto ad un lato del tavolo dove su tanti chiodini in fila vi
era attaccata parte della frangia da rifinire, dai chiodini si toglieva parte
di frangia rifinita che veniva arrotolata e penzolante posta in una cesta a
sinistra dopo che mio padre aveva contato i metri rifiniti dei miei due
fratelli, nuova frangia da rifinire prendeva posto sui chiodini dal rotolo di
destra. Tra un lato del tavolo e l'altro c'erano i metri stabiliti da mio padre
che ognuno doveva fare in fretta in modo di poter spostare il tutto di quel
lavoro a catena con nuovo metraggio.
Fiorella Capolicchio sulla vespa davanti al Centro Raccolta Rifugiati di Carinaro, provincia di Caserta, di cui si intravvede il Corpo di guardia. Collezione Fiorella Capolicchio di Pola, ora a Göteborg (Svezia)
Se il lavoro era fatto male si doveva disfare e si perdeva tempo. Fu
così che quando mio padre in piedi contava i metri di frangia rifiniti suoi e
dei miei fratelli usando come misura di metro la lunghezza dalla spalla
sinistra alla mano del braccio destro allungato, non poteva finire il conteggio
visto che al mio lato del tavolo non avevo finito il metro di frangia
assegnatimi. Come castigo per aver tanto insistito senza poi essere all'altezza
di quel lavoro a catena mi arrivò il frustino sulla coscia sinistra. Il
frustino era un rametto lungo e sottile. Guardai poi atterrita la conseguenza
del castigo inflittomi. Una ferita rossa e blu mi attraversava la coscia. Capii
che i miei fratelli non facevano a gara per gioco, ma contro la promessa di
quel frustino che mio padre teneva a fianco durante il lavoro.
L'ala del lazzaretto aveva tre portoni tramite i quali vi si
accedeva alle due stanze divenute nostra dimora, il nostro portone era vicino
al muro che faceva angolo con il muro del giardino del lazzaretto, dal portone
di mezzo alle camere di due famiglie esuli come noi, ed il terzo portone sulla
facciata portava alla camera dove il contadino Servali teneva il fieno. Il muro
del fienile non arrivava fino al tetto in modo che noi bambini salivamo sul
muro e da lì saltavamo sul fieno, divertente e proibito. Dall'altra parte del
muro si potevano vedere i fiori artificiali che le ammalate del reparto
tubercolosi sotto cura delle suore dell'ospedale preparavano per la processione
della madonna Pellegrina.
A giugno del 1947 mia madre diede alla luce il suo sesto figlio. Una
sera mio padre e mia madre uscirono in gran segreto con la borsa della spesa,
era la vigilia di natale, rimasti soli noi piccoli con i fratelli più grandi,
uno di loro ci svelò il gran segreto: mamma e papà andavano a prendere il
regalo di natale per i figli degli esuli visto che Babbo Natale non esiste. Ricordo
sì la delusione, ma mai dimentico la gioia all'indomani quando al nostro
risveglio trovammo sul letto di ognuno di noi un grande piatto di alluminio pieno
di noci mele e mandarini. Ancora oggi per me ormai non più credente noci mele e
mandarini sono i soli simboli gioiosi del Natale rimastimi».
Vittorio, Fiorella e
Galliano nel giardino della Scuola Elementare di stato Via Cesare Battisti, a
Gandino (Bergamo). Primo comune di residenza dopo l'esodo del 1947. Collezione Fiorella Capolicchio di Pola, ora a Göteborg (Svezia)
Il senso della patria
perduta. Centro rifugiati di Carinaro
«Tutti gli anni il 4 novembre attraverso il filo spinato che
recintava il campo profughi di Carinaro, provincia di Caserta, si poteva vedere
un piccolo gruppo di vecchine vestite di nero con scialle in testa, radunate
davanti al Monumento ai caduti del 1915-18.
E tutti gli anni attratta dalla banda musicale che suonava la canzone del Piave e l’Inno Nazionale, Fiorella correva verso il cancello per
uscire dal campo profughi e raggiungere il monumento dall’ altra parte del filo
spinato, per partecipare alla commemorazione di quella storia che le
apparteneva.
Fiorella era stata sempre l’unica profuga davanti al monumento ai
caduti il 4 novembre. Sua madre non le avrebbe mai permesso di uscire da sola
fuori dal campo, e tutti gli anni senza dire nulla a nessuno d’impulso seguiva
il richiamo della musica del Piave, che le faceva muovere i suoi passi verso il
monumento per unirsi al dolore di quelle donne che tenendo alti i cartelli con
foto ricordavano i loro morti, caduti per la Patria.
Quella Patria che per Fiorella ormai era per sempre perduta, anche
se allora era troppo piccola per poterlo capire.
Da Carinaro a S. Antonio di Pontecagnano. Sul camion viaggiava la
famiglia che dal campo di Carinaro in provincia di Caserta veniva trasferita al
Centro raccolta profughi stranieri di S. Antonio di Pontecagnano, in provincia
di Salerno.
Amici accompagnano Fiorella, a destra, in partenza per Napoli, finalmente maggiorenne: addio Campi profughi! Collezione Fiorella Capolicchio di Pola, ora a Göteborg (Svezia)
Al Campo Profughi di Sant’Antonio in Pontecagnano, 1961
«E come nei villaggi o piccoli paesi regnavano le chiacchiere e
gli uni sparlavano degli altri, le donne in fila, divertimento quotidiano, si
passavano le prime del mattino oppure le ultime della giornata.
Esse si raccontavano di tutto, anche storie e storielle che in
quegli anni potevano essere considerate improprie agli orecchi dei ragazzi che
accompagnavano le madri in fila davanti alla mensa in attesa di apertura.
Storie velate però in modo che solo i più smaliziati avrebbero capito.
Storie e storielle erano diventate noiose perché erano sempre le
stesse ed ormai non appassionavano più, ed i pettegolezzi avevano lasciato il
posto allo sdegno collettivo per la riprovevole situazione creatasi
ultimamente, già da prima si sapeva dei rifornimenti di verdura che prendevano
vie diverse, senza passare neanche il deposito viveri della mensa del campo
profughi.
Avevano spostato i pochi rimasti nelle baracche vicino alla nuova
direzione e poco distante dalla baracca magazzino da dove prima si
distribuivano vestiti estate / inverno ma che ultimamente non si distribuivano
più.
Eravamo agli ultimi sgoccioli, in un tardo pomeriggio di fine
settimana si vedevano gli impiegati della direzione uscire dal magazzino ad
intervalli di pochi minuti che con il viso nascosto nel bavero della giacca e
con un pacchetto sotto il braccio.
Passando ogni limite di sfacciataggine, pur con il viso nascosto
ormai rubavano a cielo aperto. Tuttavia quel quadretto idillico ora parte del
passato dell’allora diciottenne riaffiorando nella mente rimane esempio di come
la vita può regalare momenti armoniosi anche in tempi difficili».
Che prima o poi ci avrebbero trasferiti in un altro campo profughi
stentavamo a crederci, visto che negli ultimi anni avevano costruito una nuova
direzione per gli uffici con servizi igienici moderni e termosifoni per gli
impiegati che si erano lamentati per il mancato riscaldamento nella vecchia
direzione nel periodo invernale.
Speravamo che come cittadini italiani quelle due case, che avevano
costruito all'interno del muro di cinta del campo profughi che dava sulla
strada nazionale per Battipaglia, fossero state costruite per noi esuli. Noi
eravamo tra quelli finiti nei centri rifugiati del dopoguerra per scopo
emigrazione, ma mai emigrammo.
Pola, cartolina con vista giardini e Banca d'Italia, anni 1930. Si ringrazia per la diffusione e pubblicazione: Archivio storico digitale Patria Italia
--
Sitologia
Per un approfondimento sul senso della patria perduta, per degli esuli da Fiume, vedi: E.
Varutti, “La patria perduta. Profughi da Fiume, 1943-1947”, nel web dal
23.02.2016.
RispondiEliminaA titolo d'informazione:
Avevo postato su Google+ brani dei miei ricordi. Quando constatai che l'insieme dei brani falsa in parte la mia storia personale mi dissi che forse erano dettagli interessanti solo per me, l'importante era non tacere la storia degli esuli.
Oggi visto che alcuni mi contattano dicendomi ”Ho letto la tua storia” desidero precisare: io sono vissuta nei campi per rifugiati e non nei centri raccolta profughi come molti hanno fatto mantenendo cosi i contatti con altri esuli.
Io ho iniziato a conoscere la storia delle foibe e altri misfatti solo a partire dal 2002 tramite internet.
Io non ho deciso di lasciare l'Italia partendo da Napoli. Io decisi di lasciare la mia famiglia per i troppi maltrattamenti e imposizioni che subivo da mio padre, che oltre le botte non voleva che andassi a lavorare fuori dal campo e per questo ni adattai a lavorare nell'ospedale /ambulatorio per 8 ore al giorno con libera solo la domenica e per 6000 L. Al mese, senza diritti all pensione perché profuga assistita. E facevo anche il turno pronto soccorso di notte che con un camion portavamo con urgenza i pazienti all'ospedale convenzionato in città
E quello che avevo imparato l'avevo imparato solo per imitazione
Io sono arrivata in Svezia per puro caso e ci sono rimasta visto che in Italia non avevo dove ritornare e la mia città natia per me non esiste più visto che si trova in altra nazione.
E l'Italia, l'Italia a me minorenne non mi ha tutelato. E da maggiorenne meno che meno, perché quando feci la domanda per il riacquisto della cittadinanza italiana come da nuova legge, le autorità competenti che competenti non lo sono state, dopo molte peripezie seppi che nel 2008 avevo ancora la cittadinanza italiana ma non diritto al passaporto, visto che non era stato mai comunicato in Italia che ero diventata cittadina svedese. Qui finisco col dire che per dar fine alle complicanze che non finivano mai scrissi al mio ultimo comune di residenza in Italia che rinunciavo alla cittadinanza italiana.
Vi saluto
Fiorella Capolicchio
Gentile signora Fiorella Capolicchio, grazie per le sue importanti precisazioni. Distinti saluti.
Elimina