Il silenzio dei profughi può durare una vita. Ci è capitato
di segnalarlo, nel 2015, per certi profughi da Parenzo. Sono i Chersi, venuti
via dall’Istria col permesso di uscita nel 1949, dopo aver perso due familiari
nella foiba di Vines, prelevati e uccisi dai partigiani titini nel settembre
1943.
Fotografia proprietà di Elio Celli
Pochi giorni fa, nel web, si è letta un’altra toccante
testimonianza. È quella del signor Elio Celli, nato a Fiume il 20 ottobre 1934.
L’ha scritta il 1° luglio 2018, nel gruppo di Facebook intitolato “Un Fiume di Fiumani!”. Si è sentito sollecitato nel raccontare in pubblico la sua vicenda
dalla signora Cristina Scala, di Trieste, che vive a Portogruaro (VE), con
ascendenze fiumane. Il racconto di Elio Celli in poche ore ha ricevuto decine
di messaggi nel web e oltre 19 condivisioni. La sua esternazione sull’esodo
giuliano dalmata è divenuta, come si dice, virale, nel senso che è stata letta
e commentata da numerose persone connesse ad Internet con computer, tablet e
telefoni cellulari.
Celli ha portato pure delle novità riguardo al Centro smistamento profughi (CSP) esistente a Udine dal 1945 al 1960. In questo CSP
passarono oltre cento mila esuli, per essere sventagliati negli oltre cento
Centri Raccolta Profughi (CRP) allestiti in Italia per accogliere i 350 mila
dell’esodo giuliano dalmata (dati di padre Flaminio Rocchi).
Il Celli riferisce
che i profughi istriani, fiumani e dalmati, nel 1948, vengono messi a dormire
anche sui bordi della piscina chiusa e inutilizzata nella ex GIL di Via
Pradamano a Udine. Si sapeva che se il resto degli edifici della ex GIL erano
pieni di ospiti, i profughi venivano portati nei collegi religiosi e persino nella
cripta del Tempio Ossario, ma che fossero alloggiati sul bordo della piscina in
disuso è proprio una novità per il capoluogo friulano. Il signor Celli tratta,
con una rara sensibilità, anche del suicidio dei profughi istriani, fiumani e
dalmati.
La piscina dell'Opera Nazionale Balilla di Via Pradamano a Udine (1938), poi GIL e dal 1945 Campo profughi istriani, fiumani e dalmati. Collezione Elio Varutti
Egli conclude con fatti di attualità, che oggi non possiamo
ignorare, anche se per certi lettori i confronti potrebbero apparire fuori
luogo. Non ci vogliamo soffermare su quest’ultima parte del suo intervento. Ci
pare molto interessante, comunque, il suo resoconto sull’esilio vissuto dalla
sua famiglia, intitolato semplicemente “Ma perché?”, perciò si è ritenuto di
riportarlo in questo blog, con alcune aggiunte contestuali di scelta redazione.
Ecco il messaggio di Elio Celli.
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Ma perché?
“Ma perché nessuno racconta qualcosa dei primi anni in
esilio? – ha scritto Elio Celli – Il nostro dramma non è finito con l’esodo ma
è continuato con l’espatrio di tanti istriani, fiumani e dalmati e con altre
migliaia e migliaia finiti nei centonove campi profughi sparsi in tutta Italia.
Vecchie caserme, ex campi di prigionia, come quello di Laterina (AR) o Altamura
(Bari), dove gente piena di sofferenza e di speranza in cerca della libertà, si
è trovata in un campo recintato con una siepe di filo spinato. Voglio
raccogliere l’invito che fece Cristina Scala tempo fa a questo gruppo, per
raccontare e far conoscere ai nostri giovani, e non solo giovani, gli immani
sacrifici e sofferenze patite dai nostri genitori.
Lo so che fa male ricordare
un periodo tragico per noi esuli, e a me si stringe il cuore quando penso a mio
padre che per due anni visse da solo in una stanzetta in affitto, a 150
chilometri da Novara, dove trovò un posto di lavoro nel settore trasporti del
comune di Brescia, mangiando nelle osterie e saltando qualche pasto dovuto a
disagevoli orari di lavoro. Questo racconto mi porta inevitabilmente con il
pensiero a papà e mamma, e lo faccio in loro memoria.
Tessera di legittimazione n. 5954 del Comitato Fiumano di
Trieste dell’esule Ettore Celli, nato a Fiume nel 1904, con moglie e due figli.
Documento datato a Trieste il 10 maggio 1948. Collezione Elio Celli, Brescia
Quando lasciai Fiume, ero un ragazzino, come tanti di Voi, e
non provai sofferenza e tristezza a lasciare la mia città, forse questo
sentimento era riservato agli adulti, mentre per me era solo rimandato nel
tempo. Settanta anni fa, il nove maggio del 1948 arrivai a Trieste, Poche ore
dopo, destinazione Udine, centro smistamento profughi. Due giorni di permanenza.
Sistemati su brande a bordo di una piscina coperta e in disuso. Dalla Croce
Rossa mio padre ricevette una copertina, un pigiama, un paio di calzoni e
quattro pezzi di sapone (conservo ancora la ricevuta), tutto questo per quattro
persone.
Ultima destinazione, Novara, Centro Raccolta Profughi (CRP) ex caserma
Perrone, due anni e mezzo di “ospitalità”. Mica ci potevamo aspettare un hotel
con tutte quelle belle caserme inutilizzate. All’ingresso di questa, il posto
di Polizia di Stato con agenti in divisa. Alloggiavamo in camerate dove si
viveva, si dormiva, si mangiava, si piangeva e, anche si rideva, ma in una
promiscuità desolante, con spazi ridotti e priva di un minimo di privacy
soprattutto per le donne. I lavatoi erano in comune, con acqua fredda anche d’inverno.
Nessun tipo di riscaldamento. I bagni Lady & Gentleman erano semplicemente
dei cessi alla turca e situati negli androni delle scale. Per il vitto
funzionava una cucina da campo, che durò diversi mesi. Tutti in fila con la
pignatta in mano. Poi ci davano 100 lire, cento lire al giorno a persona,
l’equivalente ad oggi di 1,80 euro. Questo ci doveva bastare per mangiare. Un
umiliante sussidio dei poveri. Basta!
Ingresso del Centro di Raccolta Profughi di Altamura (Bari). Archivio
ANVGD Comitato di Torino. Si ringrazia ISTORETO di Torino per la pubblicazione e diffusione
della fotografia
Chiudo e passo con questa testimonianza di Padre Flaminio
Rocchi di Neresine, appartenente all’ordine dei Francescani. Egli racconta di
due coniugi, già benestanti a Fiume, avevano preso in affitto una camera con un
fornello. Ma presto si sono trovati senza un soldo. Il parroco mi ha detto “come
sono religiosi i tuoi profughi. Passano delle ore in chiesa”. Era l’unico luogo
che gli accoglieva gratis. La loro era fame e solitudine. Avevano rifiutato lo
squallore del campo. Una mano, una volta con i polsini d’oro, difficilmente si
apre per chiedere l’elemosina. Un giorno si sono comunicati, si sono messi il
vestito più bello, si sono stesi sul letto con le mani incrociate sul rosario
e, col gas, sono scivolati in paradiso.
Mi rendo conto che l’Italia nei primi anni del dopo guerra
era ancora in macerie e da ricostruire, ma non posso fare a meno di fare un
confronto con gli immigrati di oggi che, poveri cristi rischiano si la vita per
arrivare da noi, ma quando vengono sistemati in residence con piscina e TV
satellitare, e non ci vogliono stare perché lontani dal centro città, mi fa
inc…, oppure in hotel 3 stelle serviti con colazione, pranzo e cena, biancheria
da letto pulita, e si lamentano perché non c’è Hi-Fi. Beh, ma questi a casa loro
avevano la jacuzzi? Eh che… mi viene una parolaccia, si grattano i… gemelli da
mattina a sera e tanti di loro, per passatempo, spacciano?
A conclusione di questa considerazione, è con tanta amarezza
che mi vien da dire che il confronto è enormemente stridente. Dal punto di
vista emotivo, sono umanamente sensibile all’aiuto verso queste persone, in
modo particolare verso donne e bambini. Il nostro governo lo dimostra con
questa massiccia accoglienza e generosa assistenza. Ma porca p… perché noi
profughi italiani siamo stati accolti come dei lebbrosi. O come Italiani di
serie B, figli di un’Italia matrigna, e non dimentico un euro e ottanta (1,80)
contro trentacinque (35,00)?
P.S. Sarebbe interessante conoscere da qualche italiano
rimasto, come hanno vissuto dopo il Trattato di Pace del 1947”.
Elio Celli
Elio Celli
Facciata posteriore
della Tessera di legittimazione dei Celli del Comitato Fiumano di Trieste, del
10 maggio 1948. Si noti l’aquila monocefala nel timbro. Assistenza ricevuta:
biglietto ferroviario Trieste-Udine dal Centro raccolta profughi (CRP) del
Silos, del 10 maggio 1948. Due giorni dopo è al Centro smistamento profughi di
Udine. Il Comitato Provinciale di Udine della Croce Rossa Italiana (CRI)
consegna al profugo i seguenti beni: 1 copertina, 1 pigiama, 1 paio di
pantaloni, 4 pezzi di sapone. Collezione
Elio Celli, Brescia
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I commenti del web sul
testo di Celli
Tra i numerosi commenti positivi registrati nel web, ci
permettiamo di riportarne alcuni, per il loro significato riguardo al tema
dell’esodo giuliano dalmata.
Messaggio del 1° luglio 2018 di Albatro Instancabile (alias di
Ferruccio Lucchesi): “Sono andato via da Fiume nel 1949 e in Campo ci sono
stato fino al 1953. Due anni fa ho deciso di lasciare una testimonianza di quel
periodo, per i tanti che non sanno. Ne è venuto fuori un libro dal titolo Box, come si chiamavano gli spazi minimi
in cui vivevamo. Ma, a parte le copie regalate, pare che l’argomento non
interessi a nessuno”.
Nato a Fiume il 4 dicembre 1943 da genitori di lingua
italiana Ferruccio Lucchesi, nel 1949, con la famiglia partecipa all’esodo
verso l’Italia. Vengono accolti in un Centro Raccolta Profughi a Gaeta.
Trasferitosi a Napoli, viene avviato agli studi tecnici, che si concludono dopo
varie traversie educative con il diploma di perito aeronautico. Lucchesi associa
l’attività lavorativa allo studio dell’architettura, che però interrompe dopo
22 esami. Spazia in diverse attività dalla progettazione, alla redazione di
manuali tecnici, alla responsabilità dei Servizi Generali al settore acquisti. È
in cassa integrazione nel 1993; diventa Agente di Commercio, impegno che divide
con l’attività di educatore scout. Poi si dedica all’attività di scrittore.
Udine 1938 - Collegio Convitto Opera Nazionale Balilla,
progetto di Ermes Midena del 1934. Dal 1945 è Campo profughi istriani, fiumani
e dalmati. Collezione Elio Varutti
Un altro messaggio del 1° luglio 2018 è scritto da
Biancamaria Fama, di Verona, che vive a Firenze. “Signor Celli, la ringrazio
per la storia. È scritta benissimo, in maniera chiara e comprensibile,
soprattutto per chi non la sa. A me, figlia di fiumano, che tutta la vita è
andato cercando un’identità strappata, le sue parole fanno stringere il cuore
nuovamente. Povero papà, lo stato italiano nemmeno dopo 70 anni riconosceva il
nome della sua città natale. Fiume? Cos'è, dov’è, ma è Italia? Che stato di m… nemmeno
i suoi figli riconosce!”.
Nello stesso giorno la signora Marisa Fortunato, di Livorno,
ha scritto che: “Sono d’accordo con lei. Anche io figlia di fiumani arrivati a
Livorno dopo essere passati dal CRP di Altamura (BA), mi ricordo che spesso,
venivamo additati come profughi. Ma non come ora, dove peraltro prevale il
falso perbenismo, ma con cattiveria forse dovuta anche dall’ignoranza”.
È al centro delle comunicazioni e dei contatti tra esuli il messaggio
di Viviana Facchinetti, direttore
de «L’Arena di Pola» dal mese di luglio 2017. “Mi permetto di far presente che
fin dal 1998 – scrive la Facchinetti – ho cominciato a raccontare nei miei
libri, nei miei special televisivi e nei miei video le storie collegate
all’esodo raccolte in Australia, Canada, U.S.A., Sudafrica – oltre 400
biografie – grazie ai miei special RAI International due amici fiumani che si
erano persi di vista da oltre 60 anni (uno poi emigrato a Perth ed uno a Los
Angeles) si sono ritrovati e hanno potuto incontrarsi”.
Alcuni comunicati sono stringati, ma significativi circa la
laboriosità degli esuli e l’incontro con personaggi famosi. Ad esempio il
signor Claudio Ritossa, di Fiume, che vive a Trieste, ha scritto di aver
passato: “Un anno a Cremona (nel CRP). Ero piccolo, ma non era un bel posto.
Mia madre per guadagnare qualche soldino lavorava in una famiglia proprio un piano
sotto la famiglia di Mina”.
Facciata posteriore della Tessera di legittimazione dei Celli.
Il 20 maggio 1948, dopo aver dormito ai bordi della piscina coperta del Centro
smistamento profughi di Udine la famiglia Celli è inviata al Centro raccolta
profughi (CRP) di Novara. Sui documenti dell’esodo, con linguaggio da caserma,
si legge che il profugo è “preso in forza al Comitato Giuliano di Novara”. Collezione
Elio Celli, Brescia
Un’altra testimonianza è quella della signora Anna Maria
Giovanutti. “I miei genitori hanno lasciato la loro cara Abbazia con le lacrime
agli occhi – ha scritto la Giovanutti –. Noi, quattro sorelle, eravamo troppo
piccole e non capivamo perché dovevamo lasciare la nostra casa. I nostri
parenti i nostri amici, i nonni piangevano, loro erano troppo vecchi e avevano
deciso di rimanere come alcuni zii che preferivano quel presente a un domani
incerto. Per sopravvivere sono stati costretti a iscriversi al PC a malincuore.
I più giovani in seguito sono fuggiti all’estero. Un mio cugino è stato preso
più volte e imprigionato, dopo aver subito violenze. Anche per noi la vita non
è stata splendida. Ci hanno portato prima al campo di Trieste per selezionarci.
Ci hanno consegnato un sacco vuoto e dovevamo riempirlo di paglia per fare un
giaciglio per la notte. Poi la nostra famiglia è stata trasferita al campo
profughi di Lucca. Io cercavo la mia casetta e piangevo. Il CRP era in una
vecchia scuola, la palestra era stata divisa con tante tende e un angolo era
stato riservato a tutta la nostra famiglia. Non c’era la porta e quella tenda ci
divideva dalle altre persone. Il cibo era scarso. Mi ricordo che facevo lunghe
file sotto il sole per ricevere un po' di riso scotto. I bagni erano in comune con
gabinetto alla turca. Ci chiamavano: profugacci. Abbiamo vissuto così per più
di due anni. Noi sorelle eravamo sempre più magre per la denutrizione e io sono
stata ricoverata per parecchi mesi. Uscivamo dal campo solo per andare in chiesa
la domenica. Se penso ai miei genitori mi si stringe il cuore. Non hanno più
rivisto la loro Abbazia, i genitori, fratelli. Mamma aveva paura”.
Foto di gruppo nella scuola del Campo Profughi di Lucca,
1949. Archivio Privato Argia Barbieri. Si ringrazia ISTORETO di Torino per la
diffusione e pubblicazione della fotografia
Bombardieri anglo
americani sulla città di Fiume, 1944-1945
Quello che segue è un’originale, precisa e lunga
testimonianza scritta da Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova. Denso di
avvenimenti storici e di fatti familiari, questo memoriale di Tardivelli su
Fiume non è un caso isolato, poiché l’autore è un fecondo scrittore da tenere
nella giusta considerazione. Il resoconto Tardivelli si avvicina, per certi
aspetti, al Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on-line in questo blog dal 7 giugno
2016. Ecco le parole di Aldo Tardivelli, classe 1925.
“La storia e gli avvenimenti dell’ultima guerra – ha scritto
Aldo Tardivelli – sono una di quelle lezioni che non si possono sperimentare
un’altra volta nella vita. È un incubo di terrore per tutti quelli che hanno
provato, come l’inizio dei bombardamenti degli Alleati. La città di Fiume era
semivuota. La gente era sfollata per cercare un po’ di sicurezza in campagna e
quelli che erano rimasti scrutavano il cielo tentando di vedere comparire, da
un momento all’altro, i soliti stormi d’aerei. Intanto, lassù, altissimi, sotto
i primi raggi del sole luccicante di uno splendore maligno, i bombardieri
angloamericani dalle ali d’argento si stavano presentando sopra la città. Era
il terribile ronzio cupo e sinistro dei loro motori quando volavano sopra la
città con l’inevitabile seguito delle bombe e distruzioni.
L’inizio della sistematica distruzione delle strutture
industriali ha coinvolto anche gran parte delle case civili della città di
Fiume, avvenuto nel periodo 7.1.1944, intensificandosi nei giorni 21, 24 gennaio,
24, 25 febbraio, 24 marzo, 19 luglio, 3, 4, 5 e 6 novembre 1944. Il piano di distruzione
è proseguito per tutto il 1945, nei giorni 21 gennaio, 15 febbraio, 1, 16, 17,
18, 19, 21, 22, 26, marzo, 5, 13, 19 aprile. Ad un tratto, suonavano le sirene
d’allarme. Di solito in ritardo. In un batter d’occhio tutti erano scomparsi
come per incanto. I tram si erano fermati immediatamente, gli autobus erano
vuoti e abbandonati dove si trovavano. Un silenzio di morte scendeva sulla
città, come se fosse stata colpita dalla peste. Con l’infittirsi delle
incursioni, la popolazione aveva imparato, ben presto, a rifugiarsi al primo
rombo di un aereo.
Cartolina di Borgomarina a Fiume, anni 1930-1940, da Internet
Le persone trascorrevano lunghe e interminabili giornate nei
rifugi. Talvolta venivano risvegliate nel cuore della notte dal sinistro
ululato delle sirene. Correvano nei numerosi ricoveri antiaerei costruiti nelle
falde delle colline carsiche. Fiume sembrava abbandonata. L’oscuramento resosi
necessario dal conflitto, privava la città dell'illuminazione e della civiltà.
In giro non c'era quasi nessuno. Nell’imbrunire della sera una lampada a
petrolio spenta posta al centro del tavolo di cucina attendeva, come tutti noi,
d’essere accesa e pronta a guidarci, con la sua tenue luce, nella fuga notturna
verso il rifugio antiaereo.
Il nostro rifugio era lungo ampio, una galleria poco
illuminata scavata nella roccia della collina sovrastante l’Ospedale Civile.
Era sgocciolante un poco e secondo l’ora la gente era insonnolita, oppure aveva
voglia di parlare. Sopra la volta si sentivano le esplosioni sorde che
sfasciavano la città.
A tarda sera, le donne portavano impermeabili ed anche
pellicce sopra la camicia da notte. C’erano giovani signore che sonnecchiavano
appoggiate alla spalla del marito. Avevano occhi imbambolati e i capelli un
poco in disordine sul collo troppo scoperto. Anche le caviglie sembravano troppo
nude sotto la camicia stropicciata. Era un insieme di umanità che sapeva di
donna giovane fuggita improvvisamente con tanta paura, con in mano una valigia,
uno zaino, un sacco che era servito per andare ad una gioiosa festa in
compagnia d’amici o… al rifugio sul Monte Maggiore, dove, in tempo di pace
poteva ammirare con gli amici il Golfo del Quarnero e le località balneari di
Abbazia, Laurana.
Eravamo molto giovani, ma un po’ imprudenti e così mentre
tutti correvano verso il rifugio antiaereo, situato dietro l’Ospedale Civile,
ci fermavamo a guardare le fortezze volanti che solcavano il cielo, quando,
secondo noi, non c’era pericolo immediato. Ecco che arrivavano gli aeroplani,
gridavamo alla gente che era dentro il rifugio antiaereo. Ricominciava la scena
e il consueto rombare terrificante degli aerei e gli scoppi delle bombe
continuavano quasi senza sosta, giorno e notte, terrorizzando la popolazione.
Offrivano uno spettacolo grandioso! Benché non si scordi quello che accadeva e
le vite che in quel momento erano sacrificate. Mentre guardavamo affascinati i
bengala che scendevano dagli aeroplani isolati o a mazzi sulla zona industriale
della città, scintillanti e appesi al paracadute trascinati lentamente alla
deriva finché, alcuni più spostati dall’obiettivo, scomparivano nel Golfo del
Quarnero. La loro luce spettrale faceva sembrare irreali, illuminando le
montagne! Non so a quale cerchio dell’inferno dantesco si può paragonare quelle
scene.
La terra tremava e talvolta, se le esplosioni erano vicine. Dalla
volta della galleria si staccava del terriccio e qualche pietra sui rifugiati,
invasi dal terrore. Le fioche luci incominciavano a tremare, mancava la
corrente. Qualcuno accendeva una candela, ma poi la spegneva perché non si
consumasse e tutti speravano che qualcuno facesse un altro po’ di luce.
L’artiglieria contraerea, presa alla sprovvista, iniziava a
sparare dai monti circostanti lungo la costa, sempre uguale e assordante. I
proiettili traccianti, multicolori, simili ad una frangia a rovescio, salivano,
salivano lenti e graziosi. Non riuscivano a contrastare l’armata aerea con il
fuoco di sbarramento, trasformando l’azione di difesa della città in un inferno
d’urlo, con colonne di fumo che si alzavano in più punti. L’insieme era
terribile e affascinante, apocalittico, come un terremoto senza fine”.
Grazie a Dio, non è
toccata a noi
“S’attendeva con animo sospeso – ha aggiunto Tardivelli – Per
poi attendere di nuovo in uno stato di tensione ancora più grande un’altra
esplosione, poi un’altra, e ancora una. Grazie a Dio, non è toccata a noi.
Grazie a Dio! La morte poteva essere una luce che spegne, una stanza
improvvisamente al buio e il movimento della vita che se ne va lontano, in
fretta, in fretta. Il gioco della vita dai pericolosi margini di quel buio che
se ne va ed è cancellato. E poi più niente. Questa sarebbe stata la nostra fine
se l’inferno si fosse scatenato contro di noi. È un’esperienza che è meglio
dimenticare.
Giorno e notte centinaia di bombardieri rigavano
tranquillamente il cielo sventrando le case, squinternando strade e linee
ferroviarie, buttando all’aria ogni cosa. L’esplosivo paralizzava la vita nei
rifugi e gli uomini maledicevano ormai ogni cosa, sopra e sottoterra, in mare e
in cielo, ogni cosa che si muovesse perché ogni cosa poteva ormai uccidere con
una semplicità come non era mai stato.
Gli angloamericani passavano freddamente sopra la città
italiana, quasi indifesa, scardinandola. A volte gli aerei scendevano a
mitragliare i viandanti sulle strade, spezzonavano a casaccio illuminando
d’incendi il pallore delle notti di luna. Quando le sirene urlavano
immancabilmente nella notte, la gente si riversava nelle strade correndo nei
rifugi. Il buio si faceva vivo di scalpiccii, di voci, di richiami che si
spostavano lungo i muri. Subito dopo la terra cominciava tremare.
A causa dei molti allarmi aerei e del cessato allarme, che a
volte continuava fino alle quattro del mattino, era difficile riposare. Erano
allarmi ripetuti dalle sirene installate nella città. Non sentivo, né rumore di
motori, né artiglieria antiaerea. Se cercavo di ricuperare il sonno perduto
durante il giorno, non potevo a causa del continuo sbattere delle porte della
gente che correva su è giù per la scala, che sembrava proprio sopra la mia
testa provocandomi una depressione nervosa per lo stress subito.
La vita in città era diventata difficilissima: i
bombardamenti dei binari e i mitragliamenti del materiale rotabile avevano ridotto
a zero le comunicazioni. C’era scarsità di tutto, dai viveri agli indumenti,
dalle sigarette ai mezzi di trasporto.
Durante qualche pausa, il consueto terrificante spettacolo
delle macerie e case malmesse o distrutte dagli incendi, il cielo sopra la
città era annerito dal fumo del petrolio che bruciava in un bagliore rosso
degli impianti nella Zona Industriale. La R.O.M.S.A. (Raffineria di Olii
Minerali Società Anonima, costruita tra il 1882 e il 1883) era in fiamme. Poi c’era
la morte per coloro che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi nei ricoveri
antiaerei. Le incursioni aeree e i bombardieri sulla città e la sua periferia
erano onnipresenti duri e crudeli con distruzioni selvagge, a volte inutili.
Usciti dai rifugi antiaerei la gente si aggirava smarrita, senza meta fra le
macerie e tanta distruzione, mentre i sopravvissuti davano sepoltura
pietosamente ai loro morti insieme con i pochi amici rimasti”.
Ragazze di Fiume nel 1948 pubblicata da Laila Monti, di
Fiume, che vive a Castellarano, Reggio Emilia. La foto, del mese di febbraio
1948, mostra la mamma di Laila Monti con compagne di lavoro a Fiume: Ietta,
Silvana, Nives Schiozzi, Sterpi e un’altra giovane di cui non si sa il nome.
Post del 30 giugno 2018 nel gruppo “Un Fiume di Fiumani!”
Fiume va in rovina
sotto le bombe
“Così in quel tempo la città andava rapidamente in rovina
distrutta dalla guerra, in preda alla carestia. Centinaia e migliaia di persone
erano senza casa, le comunicazioni postali erano caotiche, i viaggi in treno
quasi impossibili.
Piccoli gruppi di cittadini facevano le fila davanti ai
negozi dalle vetrine semivuote, e poi, di nuovo in fila per i fiammiferi, le
sigarette, il sale, pronti a tagliare i bollini delle tessere annonarie. C’erano
lunghe code per qualche rara distribuzione straordinaria di 100 grammi di
zucchero, o per assicurarsi 200 gr. di pane nero. Le donne (tutte) anziane
scambiavano i bollini delle sigarette contro di quelli per il latte. Per
assicurarsi un po’ di brodo, dove nell’acqua che bolliva galleggiava qualche
occhio di grasso, si poteva fare una misera minestra con poca pasta o semolino,
orzo o anche sola farina. La scarsità dei prodotti si aggravava in un panorama
tutt'altro che eroico di razionamento e di stanchezza, da ultimo la fame.
Nell’aria si sentiva un leggero odore di bruciato simile a
quello stagnante in una cucina in cui si sia abbruciacchiato un pezzo di carne.
Alcune rovine sembravano recenti e le pietre erano sparse come i pezzi di un
gioco di costruzione sul tappeto di una stanza di bambini indisciplinati.
Nell’oscurità delle notti ognuno si avvicinava prudentemente per la strada in
direzione della propria abitazione trovandola, miracolosamente, un po’ malandata,
ma in piedi. Era stata un’altra delle lunghe notti. Ma era passata, come passa
la paura. Altri, i più sfortunati, si trovavano d’innanzi a uno spettacolo
orrendo, ove la zona era immersa nel vapore afoso del giorno morente.
Le case bombardate somigliavano a uccelliere vuote. Era
inverosimile che qui muri si reggessero ancora in piedi. Ogni tanto sembravano
curvarsi con il venticello della sera. La zona pareva ritagliata nel cartone
come i balocchi di poco prezzo, tenuta su artificialmente, provvisoria. Tutto era
avvolto nella polvere, polvere dei muri crollati, polvere di pietre spaccate,
polvere sui poveri sinistrati che tentavano di ricuperare, a stento, qualche
straccio.
Il freddo nei primi giorni di novembre era sensibilmente
diminuito, ma la temperatura si manteneva sempre vicino a zero. La poca neve
che era caduta ricopriva le strade e i tetti. I mucchi di macerie erano bianchi
e sembravano piramidi di neve; le pietre del selciato, sparse qua e là,
somigliavano ad enormi blocchi di ghiaccio. Quell’insieme di ruderi era meno
sinistro di prima, perché la coperta di neve nascondeva i particolari delle
distruzioni.
Cartolina di Fiume, Tempio di Cosala, da Internet
Da una voce di popolo era sembrato che gli aerei nemici per
colpire gli obiettivi industriali nella zona dei Pioppi e Borgomarina
prendessero come punto di riferimento il Tempio ossario, sulla collina di
Cosala, eretto alla memoria di tutti i caduti per la santa causa di Fiume
italiana. Il Tempio di Cosala, costruito nel punto più alto della città, con il
suo magnifico campanile in travertino bianco e splendente, era diventato come
un faro dei naviganti, per i bombardieri. Sta di fatto che i bombardieri
provenienti da sud, sorvolando sopra la città in prossimità del suddetto
Tempio, sganciando le loro bombe incendiarie al di sopra del Tempio erano in
grado di centrare, a colpo sicuro: le Raffinerie d’Olii minerali (ROMSA), il
Silurificio Whitehead nella zona dei Pioppi e i Cantieri Navali in Cantrida.
Un bel giorno il bianco e splendente campanile del Tempio era
stato dipinto dai tedeschi con una vernice nera per nascondere la sua presenza.
Forse, ma solo in parte, avevano raggiunto lo scopo.
Quell’anno, il 1944, fu il più triste della guerra che
volgeva ormai al suo epilogo. La notte di San Silvestro passò silenziosa, senza
essere celebrata. La macchina da guerra tedesca aveva iniziato a dare segni di
declino. Era sempre più costretta alla difensiva, mentre l’esito del conflitto
iniziava a vacillare su tutti i fronti.
I continui arretramenti del fronte e la sempre critica
situazione generale, indussero le truppe tedesche ad accelerare i lavori di
difesa delle fortificazioni e sbarramenti d’ogni tipo, in una linea che correva
lungo il tracciato del vecchio confine con la Jugoslavia. I partigiani di Tito
riuscirono ad avvicinarsi sempre più alla città respingendo i tedeschi
sfiduciati, ma sempre tenaci combattenti. Seguirono i primi colpi di cannone
dei titini e le granate cadevano sulle vie e case della città. L’esplosione
d’ogni colpo di mortaio significava la distruzione di case e famiglie senza
tetto o, peggio, ancora altre vittime.
Eravamo alla stretta finale e mentre gli eventi bellici si
facevano sempre più intensi, iniziò una distruzione sistematica di numerose
installazioni della città. Piovvero sulla città adiacente il porto materiali
d’ogni genere, come: spezzoni di carri ferroviari che in quel momento si
trovavano lungo le banchine del porto, bighi per l’ormeggio delle navi e parte
dei lastroni di pietre delle banchine portuali. Fra un’esplosione e l’altra si
formarono crateri d’ogni dimensione. Alla fine gli spostamenti d’aria
danneggiarono tutte le strutture abitabili fino ad una distanza di circa 200
metri. Avevamo l’impressione d’essere soli al mondo. La morte era in agguato
dappertutto. La distruzione sistematica continuò per parecchi giorni e notti,
provocando dei danni incalcolabili. Il povero Leone di San Marco, che si
trovava sulla cima del molo omonimo, se n’andò in mare. La situazione confusa a
Fiume durò non più di cinque giorni, mentre dalle alture della città partivano
verso Fiume le cannonate dei partigiani jugoslavi e, dall’altra parte, da
Trieste stava avanzando una colonna celere tedesca. Per noi sarebbe stato il
male minore, ci avrebbe salvato dall’irruzione delle bombe slave di partigiani
che ambivano di entrare in città”.
La casa dei Ferrovieri
dello Stato a Fiume
“Mi ricordo bene il pomeriggio in cui la colonna tedesca
sostò sul Viale della Camice Nere, vicino alla nostra casa a bordo dei carri amati
Tigre con la divisa nera delle SS. Gli aitanti e spavaldi tedeschi ci
guardavano con fare sprezzante, mentre spalmavano la margarina sulle fette di
pane e commentavano fra loro, ridendo certamente di noi.
Nel mese d’ottobre del 1943 avevo ottenuto il diploma ed era
ormai troppo tardi per essere assunto, ma le assunzioni furono soppresse. Un
traguardo che non fu mai realizzato. Non valsero a nulla le preghiere di
trasformare le norme rigide della burocrazia statale e le sue cieche esigenze.
Noi eravamo ormai poveracci, per i superiori del defunto Tullio Tardivelli,
Capostazione di Seconda Classe, scomparso nel 1943. Non meritava chiudere un
occhio per darmi uno spintone?
A metà del mese di novembre comparve sui muri della città un
altro bando tedesco per l’arruolamento. Era il 22 febbraio 1944, quando
Friedrich Rainer, Comandante Supremo della zona d’operazioni del Litorale
Adriatico, emanò un bando di mobilitazione per tutti gli uomini della classe
1923, 1924, 1925 (la mia) validi al servizio di guerra”.
Altri commenti dal web
C’è chi riesce ad esprimere solo poche parole, come Angela
Dicarlo, mentre commenta un articolo di Aldo Tardivelli, esule da Fiume a
Genova, spedito per posta elettronica: “Che tristezza – scrive Angela Dicarlo –
mio padre e mamma erano nel campo profughi di Padova”. Il resoconto di
Tardivelli si riferiva al CRP di Laterina (AR). Nel frattempo si conosce anche
la grigia realtà del CRP di Padova.
Furio Percovich ha inserito il seguente messaggio in Facebook
il 7 marzo 2018 citando la Società di Studi Fiumani – Archivio Museo storico di
Fiume, Documenti per la storia giuliano-dalmata nel secondo dopoguerra, Servizio
gratuito a soci e simpatizzanti e a quanti tengono conferenze nelle scuole.
L’oggetto della nota riguarda un caso a Fiume alla fine della seconda guerra
mondiale, circa la nazionalizzazione jugoslava delle imprese e di attività
commerciali e artigianali nelle terre occupate nel maggio 1945. È stato
mostrato un documento – l’originale è conservato presso l’Archivio museo
storico di Fiume a Roma, fondo esodo – molto importante per comprendere una
delle diverse motivazioni che spinsero gli italiani di Fiume e di altre parti
della Venezia Giulia occupata dagli jugoslavi che imposero anche un regime
comunista. In questo caso forniamo il documento (bilingue italiano e croato)
che comprova il passaggio della proprietà (cavalier Ettore Rippa) di una ditta
di Fiume nelle mani dei poteri popolari jugoslavi. Il proprietario in questo
caso subì solo qualche mese di detenzione, ma divenne poi operaio della sua stessa
ditta. Quando poté Ettore Rippa, riparò in Italia anche per ricostruirsi una
vita in un sistema democratico e parlamentare. Informazioni a cura di Marino
Micich.
Documento del ferroviere Tullio Tardivelli di Fiume, del 20 aprile 1941. Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova
--
Bibliografia e fonti
originali
- Angela Dicarlo, lettera del 12 giugno 2018 per e-mail da New
York, a Aldo Tardivelli ed altri.
- Ferruccio Lucchesi, Box,
s.l., Il mio libro self publishing, 2016, 2.a edizione.
- Flaminio Rocchi, L’esodo
dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Associazione Nazionale
Difesa Adriatica, 1990.
- Aldo Tardivelli, Era un
tempo di guerra, 1944 - 1945. Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume,
dattiloscritto in formato Word, 30 giugno 2018.
- Elio Varutti, Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Udine, Provincia di Udine / Provincie
di Udin, (1.a edizione 2017), 2018. Disponibile pure nel web.
Collezioni private e
archivi
- Archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD)
Comitato Provinciale di Torino.
- Archivio ANVGD, Comitato Provinciale di Udine.
- Archivio Museo storico di Fiume, Società di Studi Fiumani, Documenti
per la storia giuliano-dalmata nel secondo dopoguerra, Roma.
- Archivio Privato Argia Barbieri.
- Collezione Elio Celli, di Fiume, esule a Brescia.
- Collezione Laila Monti, di Fiume, che vive a Castellarano,
Reggio Emilia.
- Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova.
- Collezione Elio Varutti, Udine.
Fonti orali, digitali,
del web e ringraziamenti
Siamo grati per questo articolo ai seguenti signori, con i
quali si è in contatto personale, o nel web, oppure dei quali volentieri si leggono
i loro messaggi sull’esodo d’Istria, Fiume e Dalmazia nei social media. Le
interviste sono state condotte da Elio Varutti. Se non altrimenti detto, il
riferimento va ai messaggi del 1° luglio 2018 nel gruppo di Facebook intitolato
“Un Fiume di Fiumani!”:
- Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi, provincia
di Arezzo, int. al telefono del 12 – 20 gennaio 2017, messaggi in Facebook del
4-6 novembre 2017, oltre alla int. del 16-17 aprile 2018 a Montevarchi.
- Elio Celli, Fiume 1934, esule a Brescia, e-mail all'autore del 5 luglio 2018.
- Viviana Facchinetti, di Trieste, giornalista direttore de «L’Arena di Pola», vive a Trieste.
- Marisa Fortunato, di Livorno, figlia di fiumani, che vive a
Livorno.
- Anna Maria Giovanutti, Abbazia 1943, ha vissuto a New York.
- Claudio Ritossa, di Fiume, vive a Trieste.
- Cristina Scala, Trieste 1972, che vive a Portogruaro (VE),
amicizia di E. Varutti in Facebook da febbraio 2018.
- Aldo Tardivelli, Fiume 1925, esule a Genova, int. telefonica
e per e-mail nel periodo 20-24 gennaio 2017, con la preziosa collaborazione di
Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR).
- Si ringrazia l’Istituto piemontese per la storia della
Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (ISTORETO) di Torino
per la diffusione delle fotografie sui CRP.
- E. Varutti, Il Centro di smistamento profughi istriani di Udine, 1945-1960, on line dal 29
ottobre 2014.
- E. Varutti, La foiba di Mario e Giusto da Parenzo, 1943, on-line dal 27 aprile 2015.
- E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on-line dal 7 giugno 2016.
- E. Varutti, Esodo disgraziato dei Tardivelli, da Fiume a Laterina 1948, on-line dal 22
gennaio 2017.
- E. Varutti, Campo profughi Le Baracche e gli altri CRP di Bari, on-line dal 21 novembre 2017.
- E. Varutti, Baracche dell’esodo istriano. Visita all’ex Campo profughi di Laterina, Arezzo,
on-line dal 19 aprile 2018.
Cartolina di Neresine, Archivio ANVGD di Udine
--
Servizio giornalistico e di Networking a cura di Sebastiano
Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate
nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia
Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo
Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203. Presidente dell’ANVGD di
Udine è Bruna Zuccolin.
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