martedì 3 luglio 2018

Esuli da Fiume a Udine e Novara. La famiglia Celli in Campo profughi, 1948


Il silenzio dei profughi può durare una vita. Ci è capitato di segnalarlo, nel 2015, per certi profughi da Parenzo. Sono i Chersi, venuti via dall’Istria col permesso di uscita nel 1949, dopo aver perso due familiari nella foiba di Vines, prelevati e uccisi dai partigiani titini nel settembre 1943.
Fotografia proprietà di Elio Celli

Pochi giorni fa, nel web, si è letta un’altra toccante testimonianza. È quella del signor Elio Celli, nato a Fiume il 20 ottobre 1934. L’ha scritta il 1° luglio 2018, nel gruppo di Facebook intitolato “Un Fiume di Fiumani!”. Si è sentito sollecitato nel raccontare in pubblico la sua vicenda dalla signora Cristina Scala, di Trieste, che vive a Portogruaro (VE), con ascendenze fiumane. Il racconto di Elio Celli in poche ore ha ricevuto decine di messaggi nel web e oltre 19 condivisioni. La sua esternazione sull’esodo giuliano dalmata è divenuta, come si dice, virale, nel senso che è stata letta e commentata da numerose persone connesse ad Internet con computer, tablet e telefoni cellulari.
Celli ha portato pure delle novità riguardo al Centro smistamento profughi (CSP) esistente a Udine dal 1945 al 1960. In questo CSP passarono oltre cento mila esuli, per essere sventagliati negli oltre cento Centri Raccolta Profughi (CRP) allestiti in Italia per accogliere i 350 mila dell’esodo giuliano dalmata (dati di padre Flaminio Rocchi). 
Il Celli riferisce che i profughi istriani, fiumani e dalmati, nel 1948, vengono messi a dormire anche sui bordi della piscina chiusa e inutilizzata nella ex GIL di Via Pradamano a Udine. Si sapeva che se il resto degli edifici della ex GIL erano pieni di ospiti, i profughi venivano portati nei collegi religiosi e persino nella cripta del Tempio Ossario, ma che fossero alloggiati sul bordo della piscina in disuso è proprio una novità per il capoluogo friulano. Il signor Celli tratta, con una rara sensibilità, anche del suicidio dei profughi istriani, fiumani e dalmati.
La piscina dell'Opera Nazionale Balilla di Via Pradamano a Udine (1938), poi GIL e dal 1945 Campo profughi istriani, fiumani e dalmati. Collezione Elio Varutti

Egli conclude con fatti di attualità, che oggi non possiamo ignorare, anche se per certi lettori i confronti potrebbero apparire fuori luogo. Non ci vogliamo soffermare su quest’ultima parte del suo intervento. Ci pare molto interessante, comunque, il suo resoconto sull’esilio vissuto dalla sua famiglia, intitolato semplicemente “Ma perché?”, perciò si è ritenuto di riportarlo in questo blog, con alcune aggiunte contestuali di scelta redazione. Ecco il messaggio di Elio Celli.
---
Ma perché?
“Ma perché nessuno racconta qualcosa dei primi anni in esilio? – ha scritto Elio Celli – Il nostro dramma non è finito con l’esodo ma è continuato con l’espatrio di tanti istriani, fiumani e dalmati e con altre migliaia e migliaia finiti nei centonove campi profughi sparsi in tutta Italia. Vecchie caserme, ex campi di prigionia, come quello di Laterina (AR) o Altamura (Bari), dove gente piena di sofferenza e di speranza in cerca della libertà, si è trovata in un campo recintato con una siepe di filo spinato. Voglio raccogliere l’invito che fece Cristina Scala tempo fa a questo gruppo, per raccontare e far conoscere ai nostri giovani, e non solo giovani, gli immani sacrifici e sofferenze patite dai nostri genitori. 
Lo so che fa male ricordare un periodo tragico per noi esuli, e a me si stringe il cuore quando penso a mio padre che per due anni visse da solo in una stanzetta in affitto, a 150 chilometri da Novara, dove trovò un posto di lavoro nel settore trasporti del comune di Brescia, mangiando nelle osterie e saltando qualche pasto dovuto a disagevoli orari di lavoro. Questo racconto mi porta inevitabilmente con il pensiero a papà e mamma, e lo faccio in loro memoria.

Tessera di legittimazione n. 5954 del Comitato Fiumano di Trieste dell’esule Ettore Celli, nato a Fiume nel 1904, con moglie e due figli. Documento datato a Trieste il 10 maggio 1948. Collezione Elio Celli, Brescia

Quando lasciai Fiume, ero un ragazzino, come tanti di Voi, e non provai sofferenza e tristezza a lasciare la mia città, forse questo sentimento era riservato agli adulti, mentre per me era solo rimandato nel tempo. Settanta anni fa, il nove maggio del 1948 arrivai a Trieste, Poche ore dopo, destinazione Udine, centro smistamento profughi. Due giorni di permanenza. Sistemati su brande a bordo di una piscina coperta e in disuso. Dalla Croce Rossa mio padre ricevette una copertina, un pigiama, un paio di calzoni e quattro pezzi di sapone (conservo ancora la ricevuta), tutto questo per quattro persone. 
Ultima destinazione, Novara, Centro Raccolta Profughi (CRP) ex caserma Perrone, due anni e mezzo di “ospitalità”. Mica ci potevamo aspettare un hotel con tutte quelle belle caserme inutilizzate. All’ingresso di questa, il posto di Polizia di Stato con agenti in divisa. Alloggiavamo in camerate dove si viveva, si dormiva, si mangiava, si piangeva e, anche si rideva, ma in una promiscuità desolante, con spazi ridotti e priva di un minimo di privacy soprattutto per le donne. I lavatoi erano in comune, con acqua fredda anche d’inverno. Nessun tipo di riscaldamento. I bagni Lady & Gentleman erano semplicemente dei cessi alla turca e situati negli androni delle scale. Per il vitto funzionava una cucina da campo, che durò diversi mesi. Tutti in fila con la pignatta in mano. Poi ci davano 100 lire, cento lire al giorno a persona, l’equivalente ad oggi di 1,80 euro. Questo ci doveva bastare per mangiare. Un umiliante sussidio dei poveri. Basta!
Ingresso del Centro di Raccolta Profughi di Altamura (Bari). Archivio ANVGD Comitato di Torino. Si ringrazia ISTORETO di Torino per la pubblicazione e diffusione della fotografia

Chiudo e passo con questa testimonianza di Padre Flaminio Rocchi di Neresine, appartenente all’ordine dei Francescani. Egli racconta di due coniugi, già benestanti a Fiume, avevano preso in affitto una camera con un fornello. Ma presto si sono trovati senza un soldo. Il parroco mi ha detto “come sono religiosi i tuoi profughi. Passano delle ore in chiesa”. Era l’unico luogo che gli accoglieva gratis. La loro era fame e solitudine. Avevano rifiutato lo squallore del campo. Una mano, una volta con i polsini d’oro, difficilmente si apre per chiedere l’elemosina. Un giorno si sono comunicati, si sono messi il vestito più bello, si sono stesi sul letto con le mani incrociate sul rosario e, col gas, sono scivolati in paradiso.
Mi rendo conto che l’Italia nei primi anni del dopo guerra era ancora in macerie e da ricostruire, ma non posso fare a meno di fare un confronto con gli immigrati di oggi che, poveri cristi rischiano si la vita per arrivare da noi, ma quando vengono sistemati in residence con piscina e TV satellitare, e non ci vogliono stare perché lontani dal centro città, mi fa inc…, oppure in hotel 3 stelle serviti con colazione, pranzo e cena, biancheria da letto pulita, e si lamentano perché non c’è Hi-Fi. Beh, ma questi a casa loro avevano la jacuzzi? Eh che… mi viene una parolaccia, si grattano i… gemelli da mattina a sera e tanti di loro, per passatempo, spacciano?
A conclusione di questa considerazione, è con tanta amarezza che mi vien da dire che il confronto è enormemente stridente. Dal punto di vista emotivo, sono umanamente sensibile all’aiuto verso queste persone, in modo particolare verso donne e bambini. Il nostro governo lo dimostra con questa massiccia accoglienza e generosa assistenza. Ma porca p… perché noi profughi italiani siamo stati accolti come dei lebbrosi. O come Italiani di serie B, figli di un’Italia matrigna, e non dimentico un euro e ottanta (1,80) contro trentacinque (35,00)?
P.S. Sarebbe interessante conoscere da qualche italiano rimasto, come hanno vissuto dopo il Trattato di Pace del 1947”.
                                                                                                                           Elio Celli
Facciata posteriore della Tessera di legittimazione dei Celli del Comitato Fiumano di Trieste, del 10 maggio 1948. Si noti l’aquila monocefala nel timbro. Assistenza ricevuta: biglietto ferroviario Trieste-Udine dal Centro raccolta profughi (CRP) del Silos, del 10 maggio 1948. Due giorni dopo è al Centro smistamento profughi di Udine. Il Comitato Provinciale di Udine della Croce Rossa Italiana (CRI) consegna al profugo i seguenti beni: 1 copertina, 1 pigiama, 1 paio di pantaloni, 4 pezzi di sapone.  Collezione Elio Celli, Brescia
--
I commenti del web sul testo di Celli
Tra i numerosi commenti positivi registrati nel web, ci permettiamo di riportarne alcuni, per il loro significato riguardo al tema dell’esodo giuliano dalmata.
Messaggio del 1° luglio 2018 di Albatro Instancabile (alias di Ferruccio Lucchesi): “Sono andato via da Fiume nel 1949 e in Campo ci sono stato fino al 1953. Due anni fa ho deciso di lasciare una testimonianza di quel periodo, per i tanti che non sanno. Ne è venuto fuori un libro dal titolo Box, come si chiamavano gli spazi minimi in cui vivevamo. Ma, a parte le copie regalate, pare che l’argomento non interessi a nessuno”.
Nato a Fiume il 4 dicembre 1943 da genitori di lingua italiana Ferruccio Lucchesi, nel 1949, con la famiglia partecipa all’esodo verso l’Italia. Vengono accolti in un Centro Raccolta Profughi a Gaeta. Trasferitosi a Napoli, viene avviato agli studi tecnici, che si concludono dopo varie traversie educative con il diploma di perito aeronautico. Lucchesi associa l’attività lavorativa allo studio dell’architettura, che però interrompe dopo 22 esami. Spazia in diverse attività dalla progettazione, alla redazione di manuali tecnici, alla responsabilità dei Servizi Generali al settore acquisti. È in cassa integrazione nel 1993; diventa Agente di Commercio, impegno che divide con l’attività di educatore scout. Poi si dedica all’attività di scrittore.
Udine 1938 - Collegio Convitto Opera Nazionale Balilla, progetto di Ermes Midena del 1934. Dal 1945 è Campo profughi istriani, fiumani e dalmati. Collezione Elio Varutti

Un altro messaggio del 1° luglio 2018 è scritto da Biancamaria Fama, di Verona, che vive a Firenze. “Signor Celli, la ringrazio per la storia. È scritta benissimo, in maniera chiara e comprensibile, soprattutto per chi non la sa. A me, figlia di fiumano, che tutta la vita è andato cercando un’identità strappata, le sue parole fanno stringere il cuore nuovamente. Povero papà, lo stato italiano nemmeno dopo 70 anni riconosceva il nome della sua città natale. Fiume? Cos'è, dov’è, ma è Italia? Che stato di m… nemmeno i suoi figli riconosce!”.
Nello stesso giorno la signora Marisa Fortunato, di Livorno, ha scritto che: “Sono d’accordo con lei. Anche io figlia di fiumani arrivati a Livorno dopo essere passati dal CRP di Altamura (BA), mi ricordo che spesso, venivamo additati come profughi. Ma non come ora, dove peraltro prevale il falso perbenismo, ma con cattiveria forse dovuta anche dall’ignoranza”.
È al centro delle comunicazioni e dei contatti tra esuli il messaggio di Viviana Facchinetti, direttore de «L’Arena di Pola» dal mese di luglio 2017. “Mi permetto di far presente che fin dal 1998 – scrive la Facchinetti – ho cominciato a raccontare nei miei libri, nei miei special televisivi e nei miei video le storie collegate all’esodo raccolte in Australia, Canada, U.S.A., Sudafrica – oltre 400 biografie – grazie ai miei special RAI International due amici fiumani che si erano persi di vista da oltre 60 anni (uno poi emigrato a Perth ed uno a Los Angeles) si sono ritrovati e hanno potuto incontrarsi”.
Alcuni comunicati sono stringati, ma significativi circa la laboriosità degli esuli e l’incontro con personaggi famosi. Ad esempio il signor Claudio Ritossa, di Fiume, che vive a Trieste, ha scritto di aver passato: “Un anno a Cremona (nel CRP). Ero piccolo, ma non era un bel posto. Mia madre per guadagnare qualche soldino lavorava in una famiglia proprio un piano sotto la famiglia di Mina”.

Facciata posteriore della Tessera di legittimazione dei Celli. Il 20 maggio 1948, dopo aver dormito ai bordi della piscina coperta del Centro smistamento profughi di Udine la famiglia Celli è inviata al Centro raccolta profughi (CRP) di Novara. Sui documenti dell’esodo, con linguaggio da caserma, si legge che il profugo è “preso in forza al Comitato Giuliano di Novara”. Collezione Elio Celli, Brescia

Un’altra testimonianza è quella della signora Anna Maria Giovanutti. “I miei genitori hanno lasciato la loro cara Abbazia con le lacrime agli occhi – ha scritto la Giovanutti –. Noi, quattro sorelle, eravamo troppo piccole e non capivamo perché dovevamo lasciare la nostra casa. I nostri parenti i nostri amici, i nonni piangevano, loro erano troppo vecchi e avevano deciso di rimanere come alcuni zii che preferivano quel presente a un domani incerto. Per sopravvivere sono stati costretti a iscriversi al PC a malincuore. I più giovani in seguito sono fuggiti all’estero. Un mio cugino è stato preso più volte e imprigionato, dopo aver subito violenze. Anche per noi la vita non è stata splendida. Ci hanno portato prima al campo di Trieste per selezionarci. Ci hanno consegnato un sacco vuoto e dovevamo riempirlo di paglia per fare un giaciglio per la notte. Poi la nostra famiglia è stata trasferita al campo profughi di Lucca. Io cercavo la mia casetta e piangevo. Il CRP era in una vecchia scuola, la palestra era stata divisa con tante tende e un angolo era stato riservato a tutta la nostra famiglia. Non c’era la porta e quella tenda ci divideva dalle altre persone. Il cibo era scarso. Mi ricordo che facevo lunghe file sotto il sole per ricevere un po' di riso scotto. I bagni erano in comune con gabinetto alla turca. Ci chiamavano: profugacci. Abbiamo vissuto così per più di due anni. Noi sorelle eravamo sempre più magre per la denutrizione e io sono stata ricoverata per parecchi mesi. Uscivamo dal campo solo per andare in chiesa la domenica. Se penso ai miei genitori mi si stringe il cuore. Non hanno più rivisto la loro Abbazia, i genitori, fratelli. Mamma aveva paura”.
Foto di gruppo nella scuola del Campo Profughi di Lucca, 1949. Archivio Privato Argia Barbieri. Si ringrazia ISTORETO di Torino per la diffusione e pubblicazione della fotografia

Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume, 1944-1945
Quello che segue è un’originale, precisa e lunga testimonianza scritta da Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova. Denso di avvenimenti storici e di fatti familiari, questo memoriale di Tardivelli su Fiume non è un caso isolato, poiché l’autore è un fecondo scrittore da tenere nella giusta considerazione. Il resoconto Tardivelli si avvicina, per certi aspetti, al Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on-line in questo blog dal 7 giugno 2016. Ecco le parole di Aldo Tardivelli, classe 1925.
“La storia e gli avvenimenti dell’ultima guerra – ha scritto Aldo Tardivelli – sono una di quelle lezioni che non si possono sperimentare un’altra volta nella vita. È un incubo di terrore per tutti quelli che hanno provato, come l’inizio dei bombardamenti degli Alleati. La città di Fiume era semivuota. La gente era sfollata per cercare un po’ di sicurezza in campagna e quelli che erano rimasti scrutavano il cielo tentando di vedere comparire, da un momento all’altro, i soliti stormi d’aerei. Intanto, lassù, altissimi, sotto i primi raggi del sole luccicante di uno splendore maligno, i bombardieri angloamericani dalle ali d’argento si stavano presentando sopra la città. Era il terribile ronzio cupo e sinistro dei loro motori quando volavano sopra la città con l’inevitabile seguito delle bombe e distruzioni.
L’inizio della sistematica distruzione delle strutture industriali ha coinvolto anche gran parte delle case civili della città di Fiume, avvenuto nel periodo 7.1.1944, intensificandosi nei giorni 21, 24 gennaio, 24, 25 febbraio, 24 marzo, 19 luglio, 3, 4, 5 e 6 novembre 1944. Il piano di distruzione è proseguito per tutto il 1945, nei giorni 21 gennaio, 15 febbraio, 1, 16, 17, 18, 19, 21, 22, 26, marzo, 5, 13, 19 aprile. Ad un tratto, suonavano le sirene d’allarme. Di solito in ritardo. In un batter d’occhio tutti erano scomparsi come per incanto. I tram si erano fermati immediatamente, gli autobus erano vuoti e abbandonati dove si trovavano. Un silenzio di morte scendeva sulla città, come se fosse stata colpita dalla peste. Con l’infittirsi delle incursioni, la popolazione aveva imparato, ben presto, a rifugiarsi al primo rombo di un aereo.
Cartolina di Borgomarina a Fiume, anni 1930-1940, da Internet 

Le persone trascorrevano lunghe e interminabili giornate nei rifugi. Talvolta venivano risvegliate nel cuore della notte dal sinistro ululato delle sirene. Correvano nei numerosi ricoveri antiaerei costruiti nelle falde delle colline carsiche. Fiume sembrava abbandonata. L’oscuramento resosi necessario dal conflitto, privava la città dell'illuminazione e della civiltà. In giro non c'era quasi nessuno. Nell’imbrunire della sera una lampada a petrolio spenta posta al centro del tavolo di cucina attendeva, come tutti noi, d’essere accesa e pronta a guidarci, con la sua tenue luce, nella fuga notturna verso il rifugio antiaereo.
Il nostro rifugio era lungo ampio, una galleria poco illuminata scavata nella roccia della collina sovrastante l’Ospedale Civile. Era sgocciolante un poco e secondo l’ora la gente era insonnolita, oppure aveva voglia di parlare. Sopra la volta si sentivano le esplosioni sorde che sfasciavano la città.
A tarda sera, le donne portavano impermeabili ed anche pellicce sopra la camicia da notte. C’erano giovani signore che sonnecchiavano appoggiate alla spalla del marito. Avevano occhi imbambolati e i capelli un poco in disordine sul collo troppo scoperto. Anche le caviglie sembravano troppo nude sotto la camicia stropicciata. Era un insieme di umanità che sapeva di donna giovane fuggita improvvisamente con tanta paura, con in mano una valigia, uno zaino, un sacco che era servito per andare ad una gioiosa festa in compagnia d’amici o… al rifugio sul Monte Maggiore, dove, in tempo di pace poteva ammirare con gli amici il Golfo del Quarnero e le località balneari di Abbazia, Laurana.
Eravamo molto giovani, ma un po’ imprudenti e così mentre tutti correvano verso il rifugio antiaereo, situato dietro l’Ospedale Civile, ci fermavamo a guardare le fortezze volanti che solcavano il cielo, quando, secondo noi, non c’era pericolo immediato. Ecco che arrivavano gli aeroplani, gridavamo alla gente che era dentro il rifugio antiaereo. Ricominciava la scena e il consueto rombare terrificante degli aerei e gli scoppi delle bombe continuavano quasi senza sosta, giorno e notte, terrorizzando la popolazione. Offrivano uno spettacolo grandioso! Benché non si scordi quello che accadeva e le vite che in quel momento erano sacrificate. Mentre guardavamo affascinati i bengala che scendevano dagli aeroplani isolati o a mazzi sulla zona industriale della città, scintillanti e appesi al paracadute trascinati lentamente alla deriva finché, alcuni più spostati dall’obiettivo, scomparivano nel Golfo del Quarnero. La loro luce spettrale faceva sembrare irreali, illuminando le montagne! Non so a quale cerchio dell’inferno dantesco si può paragonare quelle scene.
La terra tremava e talvolta, se le esplosioni erano vicine. Dalla volta della galleria si staccava del terriccio e qualche pietra sui rifugiati, invasi dal terrore. Le fioche luci incominciavano a tremare, mancava la corrente. Qualcuno accendeva una candela, ma poi la spegneva perché non si consumasse e tutti speravano che qualcuno facesse un altro po’ di luce.
L’artiglieria contraerea, presa alla sprovvista, iniziava a sparare dai monti circostanti lungo la costa, sempre uguale e assordante. I proiettili traccianti, multicolori, simili ad una frangia a rovescio, salivano, salivano lenti e graziosi. Non riuscivano a contrastare l’armata aerea con il fuoco di sbarramento, trasformando l’azione di difesa della città in un inferno d’urlo, con colonne di fumo che si alzavano in più punti. L’insieme era terribile e affascinante, apocalittico, come un terremoto senza fine”.
Cartolina di Fiume, 1925, da Internet

Grazie a Dio, non è toccata a noi
“S’attendeva con animo sospeso – ha aggiunto Tardivelli – Per poi attendere di nuovo in uno stato di tensione ancora più grande un’altra esplosione, poi un’altra, e ancora una. Grazie a Dio, non è toccata a noi. Grazie a Dio! La morte poteva essere una luce che spegne, una stanza improvvisamente al buio e il movimento della vita che se ne va lontano, in fretta, in fretta. Il gioco della vita dai pericolosi margini di quel buio che se ne va ed è cancellato. E poi più niente. Questa sarebbe stata la nostra fine se l’inferno si fosse scatenato contro di noi. È un’esperienza che è meglio dimenticare.
Giorno e notte centinaia di bombardieri rigavano tranquillamente il cielo sventrando le case, squinternando strade e linee ferroviarie, buttando all’aria ogni cosa. L’esplosivo paralizzava la vita nei rifugi e gli uomini maledicevano ormai ogni cosa, sopra e sottoterra, in mare e in cielo, ogni cosa che si muovesse perché ogni cosa poteva ormai uccidere con una semplicità come non era mai stato.
Gli angloamericani passavano freddamente sopra la città italiana, quasi indifesa, scardinandola. A volte gli aerei scendevano a mitragliare i viandanti sulle strade, spezzonavano a casaccio illuminando d’incendi il pallore delle notti di luna. Quando le sirene urlavano immancabilmente nella notte, la gente si riversava nelle strade correndo nei rifugi. Il buio si faceva vivo di scalpiccii, di voci, di richiami che si spostavano lungo i muri. Subito dopo la terra cominciava tremare.
A causa dei molti allarmi aerei e del cessato allarme, che a volte continuava fino alle quattro del mattino, era difficile riposare. Erano allarmi ripetuti dalle sirene installate nella città. Non sentivo, né rumore di motori, né artiglieria antiaerea. Se cercavo di ricuperare il sonno perduto durante il giorno, non potevo a causa del continuo sbattere delle porte della gente che correva su è giù per la scala, che sembrava proprio sopra la mia testa provocandomi una depressione nervosa per lo stress subito.
La vita in città era diventata difficilissima: i bombardamenti dei binari e i mitragliamenti del materiale rotabile avevano ridotto a zero le comunicazioni. C’era scarsità di tutto, dai viveri agli indumenti, dalle sigarette ai mezzi di trasporto.
Durante qualche pausa, il consueto terrificante spettacolo delle macerie e case malmesse o distrutte dagli incendi, il cielo sopra la città era annerito dal fumo del petrolio che bruciava in un bagliore rosso degli impianti nella Zona Industriale. La R.O.M.S.A. (Raffineria di Olii Minerali Società Anonima, costruita tra il 1882 e il 1883) era in fiamme. Poi c’era la morte per coloro che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei. Le incursioni aeree e i bombardieri sulla città e la sua periferia erano onnipresenti duri e crudeli con distruzioni selvagge, a volte inutili. Usciti dai rifugi antiaerei la gente si aggirava smarrita, senza meta fra le macerie e tanta distruzione, mentre i sopravvissuti davano sepoltura pietosamente ai loro morti insieme con i pochi amici rimasti”.
Ragazze di Fiume nel 1948 pubblicata da Laila Monti, di Fiume, che vive a Castellarano, Reggio Emilia. La foto, del mese di febbraio 1948, mostra la mamma di Laila Monti con compagne di lavoro a Fiume: Ietta, Silvana, Nives Schiozzi, Sterpi e un’altra giovane di cui non si sa il nome. Post del 30 giugno 2018 nel gruppo “Un Fiume di Fiumani!”

Fiume va in rovina sotto le bombe
“Così in quel tempo la città andava rapidamente in rovina distrutta dalla guerra, in preda alla carestia. Centinaia e migliaia di persone erano senza casa, le comunicazioni postali erano caotiche, i viaggi in treno quasi impossibili.
Piccoli gruppi di cittadini facevano le fila davanti ai negozi dalle vetrine semivuote, e poi, di nuovo in fila per i fiammiferi, le sigarette, il sale, pronti a tagliare i bollini delle tessere annonarie. C’erano lunghe code per qualche rara distribuzione straordinaria di 100 grammi di zucchero, o per assicurarsi 200 gr. di pane nero. Le donne (tutte) anziane scambiavano i bollini delle sigarette contro di quelli per il latte. Per assicurarsi un po’ di brodo, dove nell’acqua che bolliva galleggiava qualche occhio di grasso, si poteva fare una misera minestra con poca pasta o semolino, orzo o anche sola farina. La scarsità dei prodotti si aggravava in un panorama tutt'altro che eroico di razionamento e di stanchezza, da ultimo la fame.
Nell’aria si sentiva un leggero odore di bruciato simile a quello stagnante in una cucina in cui si sia abbruciacchiato un pezzo di carne. Alcune rovine sembravano recenti e le pietre erano sparse come i pezzi di un gioco di costruzione sul tappeto di una stanza di bambini indisciplinati. Nell’oscurità delle notti ognuno si avvicinava prudentemente per la strada in direzione della propria abitazione trovandola, miracolosamente, un po’ malandata, ma in piedi. Era stata un’altra delle lunghe notti. Ma era passata, come passa la paura. Altri, i più sfortunati, si trovavano d’innanzi a uno spettacolo orrendo, ove la zona era immersa nel vapore afoso del giorno morente.
Le case bombardate somigliavano a uccelliere vuote. Era inverosimile che qui muri si reggessero ancora in piedi. Ogni tanto sembravano curvarsi con il venticello della sera. La zona pareva ritagliata nel cartone come i balocchi di poco prezzo, tenuta su artificialmente, provvisoria. Tutto era avvolto nella polvere, polvere dei muri crollati, polvere di pietre spaccate, polvere sui poveri sinistrati che tentavano di ricuperare, a stento, qualche straccio.
Il freddo nei primi giorni di novembre era sensibilmente diminuito, ma la temperatura si manteneva sempre vicino a zero. La poca neve che era caduta ricopriva le strade e i tetti. I mucchi di macerie erano bianchi e sembravano piramidi di neve; le pietre del selciato, sparse qua e là, somigliavano ad enormi blocchi di ghiaccio. Quell’insieme di ruderi era meno sinistro di prima, perché la coperta di neve nascondeva i particolari delle distruzioni.
Cartolina di Fiume, Tempio di Cosala, da Internet

Da una voce di popolo era sembrato che gli aerei nemici per colpire gli obiettivi industriali nella zona dei Pioppi e Borgomarina prendessero come punto di riferimento il Tempio ossario, sulla collina di Cosala, eretto alla memoria di tutti i caduti per la santa causa di Fiume italiana. Il Tempio di Cosala, costruito nel punto più alto della città, con il suo magnifico campanile in travertino bianco e splendente, era diventato come un faro dei naviganti, per i bombardieri. Sta di fatto che i bombardieri provenienti da sud, sorvolando sopra la città in prossimità del suddetto Tempio, sganciando le loro bombe incendiarie al di sopra del Tempio erano in grado di centrare, a colpo sicuro: le Raffinerie d’Olii minerali (ROMSA), il Silurificio Whitehead nella zona dei Pioppi e i Cantieri Navali in Cantrida.
Un bel giorno il bianco e splendente campanile del Tempio era stato dipinto dai tedeschi con una vernice nera per nascondere la sua presenza. Forse, ma solo in parte, avevano raggiunto lo scopo.
Quell’anno, il 1944, fu il più triste della guerra che volgeva ormai al suo epilogo. La notte di San Silvestro passò silenziosa, senza essere celebrata. La macchina da guerra tedesca aveva iniziato a dare segni di declino. Era sempre più costretta alla difensiva, mentre l’esito del conflitto iniziava a vacillare su tutti i fronti.
I continui arretramenti del fronte e la sempre critica situazione generale, indussero le truppe tedesche ad accelerare i lavori di difesa delle fortificazioni e sbarramenti d’ogni tipo, in una linea che correva lungo il tracciato del vecchio confine con la Jugoslavia. I partigiani di Tito riuscirono ad avvicinarsi sempre più alla città respingendo i tedeschi sfiduciati, ma sempre tenaci combattenti. Seguirono i primi colpi di cannone dei titini e le granate cadevano sulle vie e case della città. L’esplosione d’ogni colpo di mortaio significava la distruzione di case e famiglie senza tetto o, peggio, ancora altre vittime.
Eravamo alla stretta finale e mentre gli eventi bellici si facevano sempre più intensi, iniziò una distruzione sistematica di numerose installazioni della città. Piovvero sulla città adiacente il porto materiali d’ogni genere, come: spezzoni di carri ferroviari che in quel momento si trovavano lungo le banchine del porto, bighi per l’ormeggio delle navi e parte dei lastroni di pietre delle banchine portuali. Fra un’esplosione e l’altra si formarono crateri d’ogni dimensione. Alla fine gli spostamenti d’aria danneggiarono tutte le strutture abitabili fino ad una distanza di circa 200 metri. Avevamo l’impressione d’essere soli al mondo. La morte era in agguato dappertutto. La distruzione sistematica continuò per parecchi giorni e notti, provocando dei danni incalcolabili. Il povero Leone di San Marco, che si trovava sulla cima del molo omonimo, se n’andò in mare. La situazione confusa a Fiume durò non più di cinque giorni, mentre dalle alture della città partivano verso Fiume le cannonate dei partigiani jugoslavi e, dall’altra parte, da Trieste stava avanzando una colonna celere tedesca. Per noi sarebbe stato il male minore, ci avrebbe salvato dall’irruzione delle bombe slave di partigiani che ambivano di entrare in città”.
Fiume 1943, truppe tedesche occupano la città, fotografia da Internet

La casa dei Ferrovieri dello Stato a Fiume
“Mi ricordo bene il pomeriggio in cui la colonna tedesca sostò sul Viale della Camice Nere, vicino alla nostra casa a bordo dei carri amati Tigre con la divisa nera delle SS. Gli aitanti e spavaldi tedeschi ci guardavano con fare sprezzante, mentre spalmavano la margarina sulle fette di pane e commentavano fra loro, ridendo certamente di noi.
Nel mese d’ottobre del 1943 avevo ottenuto il diploma ed era ormai troppo tardi per essere assunto, ma le assunzioni furono soppresse. Un traguardo che non fu mai realizzato. Non valsero a nulla le preghiere di trasformare le norme rigide della burocrazia statale e le sue cieche esigenze. Noi eravamo ormai poveracci, per i superiori del defunto Tullio Tardivelli, Capostazione di Seconda Classe, scomparso nel 1943. Non meritava chiudere un occhio per darmi uno spintone?
A metà del mese di novembre comparve sui muri della città un altro bando tedesco per l’arruolamento. Era il 22 febbraio 1944, quando Friedrich Rainer, Comandante Supremo della zona d’operazioni del Litorale Adriatico, emanò un bando di mobilitazione per tutti gli uomini della classe 1923, 1924, 1925 (la mia) validi al servizio di guerra”.
Fiume, Casa dei ferrovieri, vicino alla Chiesa dei Cappuccini. Fotografia di Aldo Tardivelli

Altri commenti dal web
C’è chi riesce ad esprimere solo poche parole, come Angela Dicarlo, mentre commenta un articolo di Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, spedito per posta elettronica: “Che tristezza – scrive Angela Dicarlo – mio padre e mamma erano nel campo profughi di Padova”. Il resoconto di Tardivelli si riferiva al CRP di Laterina (AR). Nel frattempo si conosce anche la grigia realtà del CRP di Padova.
Furio Percovich ha inserito il seguente messaggio in Facebook il 7 marzo 2018 citando la Società di Studi Fiumani – Archivio Museo storico di Fiume, Documenti per la storia giuliano-dalmata nel secondo dopoguerra, Servizio gratuito a soci e simpatizzanti e a quanti tengono conferenze nelle scuole. L’oggetto della nota riguarda un caso a Fiume alla fine della seconda guerra mondiale, circa la nazionalizzazione jugoslava delle imprese e di attività commerciali e artigianali nelle terre occupate nel maggio 1945. È stato mostrato un documento – l’originale è conservato presso l’Archivio museo storico di Fiume a Roma, fondo esodo – molto importante per comprendere una delle diverse motivazioni che spinsero gli italiani di Fiume e di altre parti della Venezia Giulia occupata dagli jugoslavi che imposero anche un regime comunista. In questo caso forniamo il documento (bilingue italiano e croato) che comprova il passaggio della proprietà (cavalier Ettore Rippa) di una ditta di Fiume nelle mani dei poteri popolari jugoslavi. Il proprietario in questo caso subì solo qualche mese di detenzione, ma divenne poi operaio della sua stessa ditta. Quando poté Ettore Rippa, riparò in Italia anche per ricostruirsi una vita in un sistema democratico e parlamentare. Informazioni a cura di Marino Micich.
Documento del ferroviere Tullio Tardivelli di Fiume, del 20 aprile 1941. Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova
--

Bibliografia e fonti originali
- Angela Dicarlo, lettera del 12 giugno 2018 per e-mail da New York, a Aldo Tardivelli ed altri.
- Ferruccio Lucchesi, Box, s.l., Il mio libro self publishing, 2016, 2.a edizione.
- Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Associazione Nazionale Difesa Adriatica, 1990.
- Aldo Tardivelli, Era un tempo di guerra, 1944 - 1945. Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume, dattiloscritto in formato Word, 30 giugno 2018.
- Elio Varutti, Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Udine, Provincia di Udine / Provincie di Udin, (1.a edizione 2017), 2018. Disponibile pure nel web.

Collezioni private e archivi
Archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) Comitato Provinciale di Torino.
- Archivio ANVGD, Comitato Provinciale di Udine.
- Archivio Museo storico di Fiume, Società di Studi Fiumani, Documenti per la storia giuliano-dalmata nel secondo dopoguerra, Roma.
Archivio Privato Argia Barbieri.
Collezione Elio Celli, di Fiume, esule a Brescia.
- Collezione Laila Monti, di Fiume, che vive a Castellarano, Reggio Emilia.
- Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova.
- Collezione Elio Varutti, Udine.
Fiume, Molo San Marco col Leone finito in mare con i bombardamenti angloamericani del 1944-1945. Cartolina da Internet

Fonti orali, digitali, del web e ringraziamenti
Siamo grati per questo articolo ai seguenti signori, con i quali si è in contatto personale, o nel web, oppure dei quali volentieri si leggono i loro messaggi sull’esodo d’Istria, Fiume e Dalmazia nei social media. Le interviste sono state condotte da Elio Varutti. Se non altrimenti detto, il riferimento va ai messaggi del 1° luglio 2018 nel gruppo di Facebook intitolato “Un Fiume di Fiumani!”:
- Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi, provincia di Arezzo, int. al telefono del 12 – 20 gennaio 2017, messaggi in Facebook del 4-6 novembre 2017, oltre alla int. del 16-17 aprile 2018 a Montevarchi.
- Elio Celli, Fiume 1934, esule a Brescia, e-mail all'autore del 5 luglio 2018.
- Viviana Facchinetti, di Trieste, giornalista direttore de «L’Arena di Pola», vive a Trieste.
- Marisa Fortunato, di Livorno, figlia di fiumani, che vive a Livorno.
- Anna Maria Giovanutti, Abbazia 1943, ha vissuto a New York.
- Claudio Ritossa, di Fiume, vive a Trieste.
- Cristina Scala, Trieste 1972, che vive a Portogruaro (VE), amicizia di E. Varutti in Facebook da febbraio 2018.
- Aldo Tardivelli, Fiume 1925, esule a Genova, int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-24 gennaio 2017, con la preziosa collaborazione di Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR).
Si ringrazia l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (ISTORETO) di Torino per la diffusione delle fotografie sui CRP.

Sitologia
- E. Varutti, Il Centro di smistamento profughi istriani di Udine, 1945-1960, on line dal 29 ottobre 2014.

- E. Varutti, La foiba di Mario e Giusto da Parenzo, 1943, on-line dal 27 aprile 2015.

- E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on-line dal 7 giugno 2016.

- E. Varutti, Esodo disgraziato dei Tardivelli, da Fiume a Laterina 1948, on-line dal 22 gennaio 2017.

- E. Varutti, Campo profughi Le Baracche e gli altri CRP di Bari, on-line dal 21 novembre 2017.

Cartolina di Neresine, Archivio ANVGD di Udine
--
Servizio giornalistico e di Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Nessun commento:

Posta un commento