“Semo vignudi via nel 1948 e semo andadi al Silos de
Trieste”. Comincia così il racconto dell’esodo di Armida Villio, nata a Fasana, vicino a Pola, di fronte all'Isola di Brioni.
Armida Villio e Alda Devescovi a un incontro di soci ANVGD a Grado (GO) il 30 agosto 2018. Fotografia di Elio Varutti
I profughi istriani stavano poco al Silos, uno dei Campi Profughi di Trieste,
perché era sempre pieno. Poi venivano inviati al Centro di Smistamento Profughi di Udine e da lì assegnati a uno degli oltre cento Centri Raccolta Profughi
(CPR) sparsi per l’Italia. La signora Villio è arrivata a Grado, provincia di
Gorizia, una località balneare sorta sotto gli Asburgo nell’Alto Adriatico, a
poche miglia marine da Pirano e dall’Istria, nel frattempo passati alla
Jugoslavia.
Il CRP del Silos non era certo un hotel a tre stelle. Freddo,
finestre coi vetri rotti, tanta gente ammucchiata alla meno peggio e scarsa
pulizia. La signora Armida trova, tuttavia, anche un aspetto positivo della sua
permanenza nella Trieste del Territorio Libero (1945-1954) governata dagli
angloamericani. “Ze sta bel, jero al Silos, ma jera i americani che i sonava
dappertutto, musica e ballo per la città”. Così i profughi potevano dimenticare
le vessazioni e le violenze patite sotto i titini.
“Mio fradel Eligio Villio – continua la testimonianza – el ze
scampado con altri sedici ragazzi, tuti zoveni”. Com’è successo? “Ze partidi da
Fasana con due barche a motor e i ze finidi fin sul delta del Po – precisa la
signora Villio – jera marzo e fazeva fredo, me ricordo che i paroni de una
barca jera i Barattin e quei de la seconda barca jera i Chersin”.
La fuga dei 17 giovani di Fasana termina in provincia di
Rovigo e poi si sono fermati là? “No, la zente del posto diseva che i jera tuti
fascisti e no i li voleva – afferma la signora Armida – così ze stadi ciapadi
dentro da le munighe e dopo ze rivadi a Grado, mio fradel Eligio el ze andà a
studiar a Genova al convitto Cristoforo Colombo, più tardi, dopo esserse sposado con una signorina de Cherso, el mori a Trieste nel 1985”.
La vicenda non finisce solo così, perché il padre di Eligio e
Armida era rimasto a Fasana. “Durante la fuga delle due barche el pare el stava
atento che no vignissi nissun a scoprirli – aggiunge la testimone – il giorno dopo i titini,
non vedendo le barche in porto, i fa visita a ogni famiglia dei 17 scampadi e
il sior Chersin, pare de tre de lori, el dise che no saveva dove che jera andadi
e li spetava per tuta la sera, mostrando la polenta nei piati per i tre fioi”.
Ma il babbo Villio e i paesani sapevano tutto, non è vero? “In
realtà un fradel de mia mama in una trattoria nel sotoscala gaveva scoltado la
radio – spiega la signora Armida – el gaveva savudo de due barche de fasanesi finide
sul delta del Po, ma tuti i parenti i fazeva finta de no saver niente coi
titini”.
Era tutto un gioco di astuzia e di grande tensione. In paese
i titini mettono in giro la voce di aver catturato i 17 ragazzi scappati con le
due barche e di averli niente meno che imprigionati a Pola. Allora il babbo di
Eligio si reca a Pola e, nel carcere, gli confermano che il figlio e gli altri
16 sono reclusi lì. “Ma no podeva veder suo fio, i ghe gà dito – riferisce la
signora Armida, con un occhio furbetto – per forza el jera scampado!”.
E nelle case a Fasana cosa succedeva? “Succedeva che i
‘sciavi dell’Ozna i sequestrava
tuto quel che i voleva portar via – risponde la testimone – dalla bicicleta, a
la radio e, per rivalsa, soprattutto oggetti appartenenti ai fuggitivi”.
Con la sigla Ozna si
intende “Odeljenje za Zaštitu Naroda”, ovvero Dipartimento per la Sicurezza del
Popolo. Era la polizia segreta di Tito, che attuava requisizioni, vessazioni ed
addirittura che ha programmato le eliminazioni di italiani dell’Istria. La
pianificazione delle uccisioni, per pulizia etnica, è stata descritta da
Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio.
Poi cosa succedeva a Fasana nel 1948? “Jera pien de spie dei
‘sciavi – riporta la signora Armida – in quel tempo no se serava la porta de
casa, così i entrava i ‘sciavi a sentire cossa se diseva in famiglia per dirlo
all’Ozna”.
Comunque dagli anni 1960-1970 il clima di terrore in Istria è
cambiato? “Quel che sequestrava la roba ai italiani se ciamava Nino M., deto Nini – conclude la signora Armida Villio
– e un bel giorno nei anni sesanta el capita veramente a Grado nela mia nuova famiglia, gavevo sposado proprio un dei fradei Chersin, per domandar soldi per andare a Gorizia e dopo per tornar a casa in Jugo, el se
gà butado in zenocio e dopo el gà chiesto scusa per i sequestri fati, così la
mia famiglia commossa ghe gà dà el capoto, dei vestiti e i soldi per
andar a Gorizia e per tornar a Fasana… ecco ze finida l’intervista?”.
Lo scrivente ringrazia molto la signora Armida Villio, per la
testimonianza che ha fatto spontaneamente, anche se provoca dolore, rabbia,
confusione ed altri sentimenti. Si cercherà di diffonderla, perché bisogna
conoscere queste vicende, che sono dei pezzi di storia dell’Italia e
dell’Europa poco noti.
Tra cronaca e storia, foibe e negazionisti già nel 1948
Un ultimo dato storico. Nel 1943-1944 arrivano a Fossalon di Grado i primi profughi in fuga da Zara, sottoposta ai 54 bombardamenti degli angloamericani, su imbeccata dei titini. Tra il 1947 e il 1949 giunge nella cittadina balneare di origine romana, com’è Grado, una seconda ondata di esuli. Essi fuggono da Pola, da Fiume e da molte cittadine dell’Istria meridionale e occidentale. Si parla di 1.730 persone che vengono sistemate soprattutto a Fossalon, come ha scritto Ivan Bianchi su «Il Friuli» nel 2018.
Tra cronaca e storia, foibe e negazionisti già nel 1948
Un ultimo dato storico. Nel 1943-1944 arrivano a Fossalon di Grado i primi profughi in fuga da Zara, sottoposta ai 54 bombardamenti degli angloamericani, su imbeccata dei titini. Tra il 1947 e il 1949 giunge nella cittadina balneare di origine romana, com’è Grado, una seconda ondata di esuli. Essi fuggono da Pola, da Fiume e da molte cittadine dell’Istria meridionale e occidentale. Si parla di 1.730 persone che vengono sistemate soprattutto a Fossalon, come ha scritto Ivan Bianchi su «Il Friuli» nel 2018.
La cronaca del 1948, secondo il «Messaggero Veneto» è piena
di fughe di persone dalla Jugoslavia di Tito, ufficiali croati compresi. Da un
paese vicino a Caporetto scappano tutti, portandosi dietro gli animali di
allevamento e di corte, per stabilirsi nelle Valli del Natisone (UD). Ci sono
articoli riguardo l’uccisione di italiani nelle foibe perpetrata dai titini e
delle esumazioni per dare un nome alle vittime. C’è la cifra di 4 mila uccisi
nelle foibe in un articolo del mese di marzo. Ci sono le fughe in barca. Si scappa
a piedi per i boschi, anche a decine di persone. Si è considerato solo il mese
di marzo 1948, come campione, ma nei mesi precedenti e in quelli successivi è
la stessa musica.
Nella cronaca di Gorizia di detta testata si legge, nel
giorno 2 marzo 1948, che ai carabinieri di Capriva (GO) si presentano un prete
jugoslavo, sua cognata e due figlioli di lei. È don Stanko Drnas, di 36 anni e
la donna è Maria Akrap, di 37 anni, fuggiti dalla Dalmazia. Il cronista precisa
che i quattro fuggitivi sono stati aiutati “dalle popolazioni agricole che
hanno ospitato e, privandosene essi stessi, sfamato i fuggiaschi, nascondendoli
alla spietata caccia che loro veniva data dall’Ozna”.
Passiamo alla cronaca di Trieste. Il 3 marzo 1948 è riportata
la notizia del recupero di otto salme nella Foiba del Cane. Viene riconosciuto
il corpo di Angelo Morandini, di Lusevera (UD), classe 1896, abitante a Longera
(TS). Era capo operaio dell’Industria Triestina Frantumazione Pietre, con
cantiere sulla strada Trieste-Basovizza. Il 5 maggio 1945 è prelevato dai
titini nella persona di Francesco Marussich, assieme alla signora Dora Ciok. Vengono
fatti salire su un’automobile guidata da tale Gruden e portati alla caserma di
S. Giovanni, dove è fatta scendere la donna. Morandini è invece scortato alle
scuole di Gropada. Alcuni giorni dopo, con altri sette imprigionati, è condotto
alla Foiba del Cane, che dista un centinaio di metri dal paese. La gente di
Gropada narra che in quelle occasioni interveniva un individuo sanguinario, chiamato
“el Boia”. Proprio lui “el Boia”, con un’ascia, spacca la testa ai prigionieri,
prima di gettarli nella foiba. Il Morandini è freddato con una scarica di mitra
dallo stesso Marussich. Qui, il cronista riporta un fatto contingente. Il 4
febbraio 1948, quando la squadra di recupero inizia l’esumazione dei corpi a
Gropada, una maestrina comunista, con sdegno, dice agli addetti recupero salme
che nella foiba c’erano solo ossa di animali. Dopo il recupero di otto resti
umani, l’ispettore di polizia di turno chiede alla maestrina che insisteva
nella sua versione negazionista, se gli abitanti di Gropada erano usi mettere
la cravatta ai vitelli, scarpe ai bovi e vestiti ai cani. La giovane maestra
allora arrossisce e si allontana.
Cartolina di Rovigno, primi del '900, fotografo Nicolò Daveggia, Rovigno. Editore Photo Atelier "Flora", Pola. Immagine ripresa dal web
Un ulteriore cenno si fa a Dora Ciok. Come ha scritto Giuseppina
Mellace, nel 2014 “fu violentata dai suoi carcerieri e gettata, ancora viva,
nella foiba di Gropada”. La sua salma fu ritrovata nell’agosto del 1946, legata
con una cinghia e con filo spinato.
In un altro articolo dal «Messaggero Veneto» del 17 marzo
1948, sempre sulla cronaca di Trieste si legge della “Drammatica fuga di nove
istriani”. L’evento assomiglia molto al racconto di Armida Villio. Il cronista
spiega della partenza precipitosa con due barche a remi da Fontane, un paese
tra Parenzo e Orsera. Dopo diciotto ore di navigazione i profughi approdano a
Jesolo (VE) chiedendo assistenza alle autorità.
Una notizia della cronaca di Udine, infine, sempre dal «Messaggero
Veneto». Il titolo è sull’onda di quelli del mese stesso: “Continua la fuga”. Si
legge nell’articolo che al Centro Profughi di Via Gorizia si sono presentati
tre fuggiaschi da Rovigno. Essi sono scappati in una barca a remi a sono
sbarcati a Chioggia, poi sono stati portati a Udine, dove funziona uno dei più
grossi Centri smistamento profughi d’Italia.
--Fonte orale
Armida Villio, Fasana (Pola) 1933, intervista con taccuino,
penna e macchina fotografica a Grado (GO) a cura di E. Varutti del 30 agosto
2018. Si ringrazia, per la collaborazione riservata, la signora
Alda Devescovi, nata a Rovigno ed esule a Grado.
Bibliografia
- “Altri quattro jugoslavi fuggiti e riparati in Italia”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Gorizia, 2 marzo 1948, p. 2.
- “Altri quattro jugoslavi fuggiti e riparati in Italia”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Gorizia, 2 marzo 1948, p. 2.
- Ivan Bianchi, “Fossalon, il borgo che sta morendo”, «Il
Friuli», n. 34, 31 agosto 2018, p. 22.
- Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in
Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche
Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.
- “Un’altra identificazione tra le salme della Grotta del Cane”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Trieste, 3 marzo 1948, p. 2.
- “Continua la fuga”, «Messaggero Veneto», Cronaca di
Udine, 20 marzo 1948, p. 2.
- “Drammatica fuga di nove istriani”, «Messaggero
Veneto», Cronaca di Trieste, 17 marzo 1948, p. 1.
- Giuseppina Mellace, Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, Roma,
Newton Compton, 2014. 2.- “Un’altra identificazione tra le salme della Grotta del Cane”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Trieste, 3 marzo 1948, p. 2.
Sitologia
- E. Varutti, Parla Sara, nipote di Arnaldo Harzarich, che scoprì le foibe d’Istria, on-line dal 2
marzo 2015.
- E. Varutti, Il Campo profughi del Silos a Trieste, on-line dal 27 aprile 2015.
- E. Varutti, La foiba di Mario e Giusto, «friulionline.com» del 20 aprile 2015.
L’edificio del Silos di Trieste nel 1939, foto dal web. Dal
1945 funzionò come Centro Raccolta Profughi dell’Istria, Fiume e Dalmazia
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