C’è una mostra
interessante ed istruttiva da vedere. Intitolata “Da Kandinsky a Pollock. La
grande arte dei Guggenheim”, la rassegna è aperta al pubblico a Firenze presso
Palazzo Strozzi dal 19 marzo al 24 luglio 2016. Se vi appassionano i colori,
qui c’è trippa per gatti. Si va dal Surrealismo all’Action Painting fino
all’Informale e alla Pop art.
Fare un elenco delle
opere sarebbe riduttivo. La rassegna, pensata da Luca Massimo Barbero, curatore
associato della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, è nata dalla
collaborazione tra la Fondazione Palazzo Strozzi e la Fondazione Solomon R.
Guggenheim di New York. Mette in scena un originale ed innovativo rapporto tra
le collezioni di Solomon e Peggy, zio ed appassionata nipote. L’itinerario proposto
si sviluppa tra i più grandi artisti della storia dell’arte del XX secolo. Iniziando
con Kandinsky (visto il titolo della mostra) e proseguendo con Duchamp, Picasso
e Max Ernst. Ci si sofferma sull’arte del dopoguerra tra Europa e America, con
i cosiddetti informali europei tipo Alberto Burri, Emilio Vedova, Jean Dubuffet, Lucio Fontana. Poi ci sono i pezzi da novanta dell’arte moderna americana
del periodo 1940-1960, tra cui emergono Jackson Pollock, di cui sono esposte 18
tele, oppure Mark Rothko presente in mostra con ben sei quadri. Di Alexander Calder vedrete cinque grandi sculture cosiddette mobiles, ma anche, tra gli altri, Willem de Kooning, Robert Motherwell, Roy Lichtenstein e Cy Twombly.
Una pagina del depliant della ottima mostra di Palazzo Strozzi con la riproduzione di una tela di Jackson Pollock, Senza titolo (argento verde) / Untitles (Green Silver), 1949 circa, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
La stanza più bella è
quella dedicata a Rothko. È un parere personale. Tutta nera. Con le tele dell’artista
sotto i faretti a illuminare solo le sue campiture a forma di “rettangoloni”. Le
scritte accanto ad ogni opera sono stampate sulla parete. A caratteri grandi,
molto leggibili, anche da una certa distanza. Sono poste ad un metro e venti
centimetri da terra. Oserei dire: a norma europea (del parapetto). Mi scuserà
il lettore se insisto su tali aspetti diciamo così noiosamente accessori. Ho
visto troppe esposizioni o musei con le targhette di spiegazione formato
francobollo, posizionate a pochi centimetri dal battiscopa. Utili alle pantegane
forse, ma poco agevoli per gli umani.
Certi miei amici
architetti (e allestitori di mostre e musei) sostengono, ad esempio, che le
targhette color argento metallizzato (tipo specchio accecante) con le scritte
azzurre siano molto “di tendenza”. Sarà, ma sono illeggibili, quindi
demenziali. A Palazzo Strozzi è tutto leggibile e fruibile, persino alle famiglie
e ai bambini.
Uno degli ingressi alla originale rassegna di Firenze, Palazzo Strozzi “Da Kandisky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim”
Fotografia di Elio Varutti
Fotografia di Elio Varutti
È logico che le opere d’arte
siano al primo posto in una mostra, ma l’allestimento e la fruibilità dei
visitatori non sono da trascurare. Lo sapevano già i primi raccoglitori di opere
d’arte: sovrani e papi. Ma anche le casate nobili, come i Medici, gli Estensi e
i Gonzaga. Mi vengono in mente il corridoio vasariano, la galleria degli
Uffizi, oppure la Wunderkammer (camera delle Meraviglie) dei paesi nordici,
originatasi dal medievale tesoro dei castelli principeschi. Per giungere,
appunto, a Peggy Guggenheim e alla Galleria surrealista di “Art of This Century”
realizzata a New York nel 1942 circa, in piena seconda guerra mondiale. Pareti
ricurve, luci che si accendevano e si spegnevano ogni tre secondi, sgomentando
i visitatori, secondo le parole della stessa Guggenheim.
Appena entrati in
questa rassegna c’è la citazione dell’allestimento della Galleria surrealista
del 1942. Si incappa nelle deliziose linee squadrate di Giorgio De Chirico de “Il
pomeriggio soave (Le Doux Après-midi)” del 1916. Cent’anni fa, altro periodo di
tremenda guerra. Lì appresso c’è un Max Ernst intitolato “Il bacio (Le Baiser)”,
olio su tela del 1927, che campeggia nelle fotografie della mostra surrealista
del 1942. Corpi che si avvinghiano. Figure molli ed un piedone che spunta in
basso a destra. Max Ernst mi ha sempre fatto rivoltare le celulline del
cervello. Con l’encefalo ribaltato (o aumentato?) posso accingermi a visitare
questa mostra così intrigante. Allora capisco al volo la scultura in ottone di
Constantin Brancusi intitolata “Uccello nello spazio (L’Oiseau dans l’espace)”,
cm 151,7, del periodo 1932-1940, cui lo stesso autore era così affezionato da
esitare nel venderla, pur sapendo che sarebbe finita in ottime mani.
Tutta questa mostra è una
dimostrazione di affetto per l’arte dei mecenati, quali furono i Guggenheim.
Generosi, oltre tutto, con vari musei del mondo, viste le donazioni effettuate
da Peggy Guggenheim. Hanno creato, inoltre, due istituzioni culturali tra le
più celebri al mondo per l’arte moderna, la Collezione di Venezia, del 1951 e il
museo Guggenheim di New York, inaugurato nel 1937.
Ritorno alla sala di
Rothko, perché è come un ventre materno direbbero altri miei amici,
psicanalisti, questa volta. L’effetto buio genera nel visitatore un risultato
moltiplicatore delle sensazioni sprigionate dalle opere e dai colori caldi di
Rothko. Usciti di lì c’è l’ultima sala con un quadro di Roy Lichtenstein di
dimensioni ciclopiche. È un olio e acrilico su tre tele ravvicinate per
dimensioni totali di cm 304,8 x 548,6 intitolato Preparativi, del 1968. Ci sono volti grandissimi, tipo statue dell’Isola
di Pasqua, con fumanti ciminiere e una mano con martello che batte sulle travi
e putrelle metalliche di una metropoli industriale e città dei consumi.
Qualche visitatore si
sarà stizzito (anziché divertirsi) nell’osservare le sculte dondolanti di
Alexander Calder. Sono esse inserite in una grande sala con appese alle pareti
opere con forme tondeggianti e ricurve come le note lamiere di Calder.
C’è chi avrà esclamato:
“Ma quello lo so fare anch’io”, dinanzi alle tele sforacchiate di Lucio
Fontana, oppure dinanzi alle plastiche e cellotex incendiate e combuste di
Alberto Burri, nell’opera “Bianco B.” del 1965, o ai baffetti piazzati sull’immagine
di Monna Lisa da Marcel Duchamp nella sua “Scatola in una valigia (Boîte
en-valise)” del 1941. A parte che l’aveva già detto e scritto William Hogarth
nella sua “The Analysis of Beauty”, Londra, 1753. Scrive Hogarth di certi
semplici profili riprodotti nel volume “ed ognuno potrebbe fare il medesimo ad
occhi chiusi” (p.12 della edizione italiana “L’analisi della bellezza”, Milano,
Se srl, 1989). In generale bisogna ricordare quale sia il percorso artistico
compiuto da un pittore. Picasso non ha dipinto sempre e solo nasoni strani come
nel “Busto di uomo in maglia a righe” del 1939, presente pure in questa
rassegna. Il modernismo è anche questo.
Alle ore 16 di sabato 16 aprile 2016 "solo" 60 persone in coda, in fondo nella fotografia
Ho lasciato per ultimo
in questi modesti commenti un cenno a Mirko Basaldella, scultore nato a Udine
nel 1910 e morto a Cambridge nel 1969. Qui le sue sculture leonine degli anni
Cinquanta sono valorizzate tanto da evocare l’ingresso in certe importanti
cattedrali italiane, dove appunto si notano a destra e a sinistra del portale
principale la scultura dei grandi felidi.
C’è infine da dire che la mostra “Da Kandisky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim” è tra le cinque
cose da non perdere al mondo. Ciò almeno stando all'articolo del magazine
"Ulisse" di Alitalia, marzo 2016.
Ultimissime dalla biglietteria della rassegna. Nel pomeriggio del 18 aprile 2016 è stata superata la
quota 50 mila visitatori. Non male come inizio!
Teoria e pratica del magnetino di Klee
Avesse saputo Paul Klee che i suoi dipinti sarebbero finiti sui magnetini del frigorifero, non so cosa avrebbe pensato. Eppure la mini riproduzione del “Portrait of Mrs. P. in the South”, del 1924, della Peggy Guggenheim Collection di Venezia è proprio lì sul mio frigorifero. Me la godo ogni volta che la vedo. Mi fa impazzire per il miscuglio di tecniche usate dall’autore. Disegno ad acquerello e ricalco a olio su carta montata su tavola dipinta a gouache. Neanche fosse stato un tipografo! Quel delizioso cappellino con la veletta della signora “P. nel Sud” poi è lì in mostra a Firenze a Palazzo Strozzi. Klee mi ha sempre fatto sognare, e lo ringrazio.
Non vorrei scomodare Walter Benjamin col suo “Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit” (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica) del 1936. Egli sostiene che, col Novecento, le nuove tecniche per produrre, rifare e diffondere, a livello di massa, opere d’arte abbia sostanzialmente mutato l'approccio verso l’arte sia degli autori che del pubblico. Benjamin incrocia nel suo geniale saggio due temi di fondo, la riflessione sul rapporto tra arte e tecnica e la fruizione dell’opera d’arte nella società di massa.
È un dato di fatto che un banale magnetino di pochi euro (o un poster, una fotografia) di una celebre opera d’arte consenta la fruizione in ogni spazio, che non sia un museo o una galleria d’arte. Persino la portiera di un frigorifero.
Orario mostra: tutti i giorni inclusi i festivi 10.00-20.00. Giovedì: 10.00-23.00
Info: telefono +39 055
2645155 sito web: www.palazzostrozzi.org/mostre/guggenheim/
info@palazzostrozzi.org
Prenotazioni: Sigma CSC.
Dal lunedì al venerdì: 9.00-13.00 / 14.00-18.00. Telefono: +39 055 2469600.
prenotazioni@palazzostrozzi.org
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