lunedì 8 ottobre 2018

Cattaro, meglio prigioniero degli italiani che dei tedeschi in Montenegro 1941-1943

Riguardo alla seconda guerra mondiale, fino agli anni 1960-1970, c’era il modo di dire: Italiani, brava gente, che fu pure il titolo di un film del 1965

Si voleva intendere che si erano comportati bene in guerra i soldati italiani fino all’armistizio del 1943. Poi, a cominciare da Indro Montanelli, si svelava l’uso dei gas nell’occupazione dell’Etiopia. Si sviluppa allora una certa letteratura tendente a svelare certe malefatte dei militi, soprattutto quelli in camicia nera. Col nuovo secolo vengono a galla documenti nei quali generali italiani scrivono e firmano che in Jugoslavia “si ammazza troppo poco”. Nel 1942 ammonisce così il generale Mario Robotti, comandante del XI Corpo d’Armata italiano in Slovenia e Croazia. Il suo diretto superiore generale Mario Roatta rincara la dose: “Non dente per dente, ma testa per dente”.
Oppure viene scoperto il principio espresso, il 15 dicembre 1942, dal generale Gastone Gambara, da poco insediato comandante del XI Corpo d’Armata italiano nei Balcani. Egli scrive che il “campo di concentramento non è un campo di ingrassamento”. Si scopre che gli italiani amanti del mandolino e della pastasciutta hanno aperto campi di concentramento per internare elementi sloveni e croati, donne e bambini inclusi.
Cartolina dei primi del Novecento. Portatore d’acqua cieco e Casa turca a Buccari (didascalia originale). Immagine dal web

Succede così al Campo di concentramento dell’Isola di Arbe, nel Golfo del Quarnaro e in quello di Gonars (UD). Certi ufficiali italiani, nel dopo guerra, si ricoprono del sospetto di essere dei criminali di guerra, reclamati dalla Jugoslavia. Si veda: The Central Registry of War Criminals and Security Suspects, supplementary Wanted List No. 2, Part 2 - Non Germans (September 1947), Uckfield 2005, Naval & University Press.
Allo stesso tempo dagli anni 1990-2010 compaiono in libreria altri testi che rivalutano per così dire lo slogan Italiani brava gente. Mi riferisco al salvataggio degli ebrei nel Campo di concentramento di Arbe, oppure a tutti quelli salvati dalle grinfie naziste dai militari italiani nella Francia meridionale.
Ora desidero recensire un libro di Vasko Kostić, uscito nel 2014 nella traduzione italiana, che esalta le virtù dei soldati italiani durante l’occupazione del Montenegro rispetto ai tedeschi. Il testo riferisce degli internati iugoslavi a Presa, o Preza, in Albania, in un Campo di concentramento gestito dagli italiani, di cui poco si sa. A Presa sono imprigionati impiegati della pubblica amministrazione, maestri, professori, intellettuali, medici, impiegati bancari e altri il cui libero pensiero non comunista poteva influire che non voleva accettare l’annessione italiana delle Bocche del Cattaro (Vasko Kostić, pag. 67). Le condizioni di vita in tale campo di concentramento sono definite “sostenibili”.
1941 – Navi catturate dagli Italiani alla Marina iugoslava nella Baia di Cattaro. L’incrociatore “Dalmacija”, già “Niobe” tedesco, usato poi dagli Italiani come “Cattaro” fino al 1943. Vicino a due posamine “Mljet” e “Meljine”, a sinistra. Fonte: Archivio federale tedesco, Coblenza, Germania / Bundesarchiv

Il libro integra e completa i precedenti saggi redatti sull’occupazione italiana della Dalmazia, affidando ai ricordi di un adolescente di Cattaro la descrizione della occupazione della Jugoslavia; testimonianza integrata, ove necessario, dalle memorie e dai diari storici custoditi presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Nel libro si rivelano le esperienze del giovane, le sue impressioni sia sull’occupazione italiana sia sulle azioni svolte dai soldati italiani, dando un quadro completo e chiarificatore di moltissimi avvenimenti militari occorsi in quello scacchiere e tuttora poco noti.
Prima di tutto c’è da ribadire che Cattaro, nel 1941, è una provincia annessa al Regno d’Italia, fino al 1943. L’autore del memoriale scrive che diversi “bocchesi”, ossia gli abitanti delle Bocche del Cattaro, si sentono italiani. Sarà per i vecchi ricordi della dominazione veneziana, sta di fatto che i militari italiani li trattano come cittadini dello stesso stato. Ciò desta stupore, meraviglia e invidia da parte dei montenegrini dell’interno. Molti bocchesi non sono comunisti (vedi: Vasko Kostić a pag. 112), anche se a guerra finita il regime di Tito ed i suoi storiografi, li fanno appartenere al comunismo per comodità politica.
Cattaro, 1930. Due isole, due chiese. Immagine dal web

C’è poi un dato sconvolgente. L’uccisione di partigiani iugoslavi da parte di partigiani titini. Già denunciata in Slovenia, tale pratica si rileva anche nel sud della Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale. Lo ha raccontato, quando poteva parlare liberamente dopo il 2010-2011, Vasko Kostić in questo libro riguardante gli italiani della provincia di Cattaro, annessa al Regno d’Italia dal 1941 al 1943. Lo stesso Vasko Kostić cita un altro autore che è Nedjeljko Zorić, il quale riferisce un diktat dei partigiani titini del Montenegro: “Comunisti che non eseguono l’ordine – pallottola in testa!” (Vasko Kostić, pagg. 40, 121, 126). L’enunciato nella sua crudezza criminale è cinicamente assai convincente. Viene eseguito, infatti, con zelante precisione in tutta la Jugoslavia.
Poi ci sono i partigiani comunisti montenegrini che non riuscendo a fare molti adepti nelle Bocche del Cattaro trovarono la morte in strane circostanze. Il tale Božo Barbić, attivista locale, non voleva “andare in brigata” (ovvero partigiano titino). Anzi scappa nella foresta di Lustizza, per evitare l’impiccagione promessagli. Tale sgarbo rivolti ai titini gli costa assai caro. Muore, poco dopo, come si viene a sapere colpito da un… fulmine! Oppure altri patrioti non comunisti periscono per un colpo di fucile partito “per caso” dall’arma di un titino (pp. 106-107).
Perasto, anni ’40. La cittadina del Montenegro, di origine veneziana, è famosa per il giuramento alla caduta di Venezia nel 1797. Immagine dal web

Vasko Kostić scrive liberamente dopo il 2010-2011. Fino a qualche anno prima la censura iugoslava gli bloccava ogni suo articolo sulla stampa locale. Egli è un serbo delle Bocche del Cattaro, nato nel 1930, pilota militare e controllore di volo, ingegnere con tre lauree, storico, pubblicista e scrittore, membro dell’Associazione montenegrina degli storici. Ha al suo attivo più di quaranta libri e oltre 800 pubblicazioni. 
Naturalmente riporta anche dei cambi di casacca nelle Bocche del Cattaro. Chi dal 1941 veste divise fasciste, coi figli balilla o della GIL, dopo la guerra diventa niente meno che un quadro del Partito comunista locale (p. 74).
Anche in questo interessante volume ci sono storie riferite agli ebrei. Essi nel 1941 vengono concentrati nel Campo di Kavaja, in Albania, ricevendo “un significativo aiuto e protezione da parte della Croce rossa. Si trattava di gente molto abbiente che, al momento della disfatta della Jugoslavia, riuscì a raggiungere le Bocche del Cattaro, cercando sostengo e protezione. Sapevano che arrivando nelle Bocche avrebbero avuto salva la vita e infatti trovarono rifugio nei campi italiani. È chiaro cosa sarebbe loro successo se fossero rimasti nel territorio occupato dai tedeschi  o nello stato indipendente croato” (p. 67).
C’è anche un dato numerico assai interessante. “Nell’aprile 1942, da Pristina a Presa furono portati 79 ebrei” (p. 145).
Risano, Bocche di Cattaro. Cartolina degli anni ’40 ripresa dal web

Insomma è un libro da leggere e rileggere per capire che gli italiani nel secondo conflitto mondiale non sono tutti come Robotti, Roatta e Gambara. C’è chi si è fatto molto onore. Alcuni reparti, dopo l’8 settembre 1943, addirittura si schierano con i partigiani iugoslavi per combattere i nazisti. Molti altri sono imprigionati dai tedeschi che li deportano nei lager di Dachau, Auschwitz e Birkenau.
Secondo fonti iugoslave, come ha scritto Federico Vincenti in suo libro a pag. 80, furono 40 mila i soldati italiani presenti nelle file del Narodnooslobodilačka vojska i partizanski odredi JugoslavijeNovj (Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia).
La copertina del volume tradotto in italiano

Militari italiani in Montenegro da altri libri
Tra i vari militari italiani impegnati in Montenegro si sono trovati alcuni nomi di friulani nel libro di Mauro Romanello, del 2016. Ad esempio c’è il carabiniere, del 1918, Giovanni Candussi, detto Marcello e anche Berico, figlio di Tobia Marcellino di Bressa di Campoformido (UD). Arruolato volontario dei Reali Carabinieri e promosso vice brigadiere, prima di essere trasferito in Jugoslavia, prende servizio a Bolzano, Venezia, Bovolenta di Este (PD). Nel settembre del 1941 è trasferito a Piastre di Cattaro e quindi a Risano. Dichiarato disperso dopo gli eventi dell’armistizio dell’8 settembre 1943 nella zona di Risano di Cattaro, riesce tuttavia a rimpatriare e si unisce nel 1944 nelle file della resistenza. È nella Divisione Garibaldi, Gruppo M. Foschiani, col nome di battaglia “Foglia”, come riporta Romanello a pag. 80 del suo volume.
Ecco le notizie sull’alpino Mario Zuliani, figlio di Enrico Dree-Manzan, nato nel 1920 a Bressa di Campoformido (UD). Nel maggio del 1941, con la sua batteria di artiglieria n. 38 del 2° Gruppo Valle Isonzo, si trova in Montenegro, provenendo dai combattimenti del confine greco-albanese. Sin dal maggio del 1941 in Montenegro “sono scoppiati moti di ribellione”. Col suo reparto effettua “continui rastrellamenti anti-partigiani”. Anche nel 1942 l’artiglieria alpina è in Montenegro. “Nel marzo del 1942 il 2° Gruppo Valle Isonzo confluisce nella 6^ Divisione Alpi Graie, passando alle dipendenze del 6° Reggimento Artiglieria. Numerosi sono i combattimenti fino a maggio, quando i ribelli si ritirano nella vicina Erzegovina. A luglio la 38^ batteria raggiunge la vetta del Bobotov Kuk”. Poi il reparto è spostato di nuovo in Grecia e Albania. Alla data dell’armistizio sono catturati dai tedeschi e deportati in Germania. L’alpino Mario Zuliani rientra a casa in Friuli il 20 marzo 1946, come riferisce Romanello a pag. 238 del suo testo.
La traduttrice dei volumi storici Mila Mihajlović, a destra, con Anna Maria Zilli, dirigente scolastico dell’Istituto Stringher di Udine, in un’immagine del 2015. Fotografia di E. Varutti.

Il libro di Vasko Kostić è stato tradotto dal serbo da Mila Mihajlović, giornalista, scrittrice e storica italiana di origine serba, che lavora alla Rai di Roma dal 1985. La stessa Mihajlović è nota in Friuli dato che nel 2015, ha presentato a Martignacco  (UD) un volume da lei tradotto sul salvataggio dell’esercito serbo effettuato dalla Marina italiana nel 1915.

Il libro recensito qui
Vasko Kostić, Storia di un prigioniero degli italiani durante la guerra in Montenegro (1941-1943), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 2014. Titolo originale in lingua serba: Preza koncentracioni logor (Presa, campo di concentramento), 2011, traduzione italiana di Mila Mihajlović, cura delle bozze di Elio Carlo. Opera pubblicata col contributo del Comitato Provinciale di Padova dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD).
--

Bibliografia, sitologia di approfondimento
- Mauro Romanello, Gli oranti di Bressa. Lettere dai fronti di guerra 1941-1943, Udine, Aviani & Aviani, 2016.

- Sul trattamento degli ebrei di Pristina, in Kosovo, nella seconda guerra mondiale, si può vedere:

Michele Sarfatti, “Tra uccisione e protezione. I rifugiati ebrei in Kosovo nel marzo 1942 e le autorità tedesche, italiane e albanesi”, «La Rassegna Mensile di Israel», vol. 76, n. 3, settembre-dicembre 2010, pp. 223-242.


- Per approfondire il tema degli ebrei salvati dall’esercito italiano a Arbe si può vedere:

- Maggiori informazioni sulle fucilazioni di partigiani iugoslavi effettuate dai titini si trovano nel seguente articolo: E. Varutti,  Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina edalla foiba a Circhina nel 1944, on-line dal 20 settembre 2018.

- Riguardo alle forze militari italiane aderenti alle formazioni partigiane iugoslave vedi:
Federico Vincenti, Partigiani friulani e giuliani all’estero, Udine, Anpi, 1980.
Cattaro in una cartolina, da Internet, ai primi del Novecento con didascalia in tedesco e toponimo in italiano
--

Recensione di Elio Varutti. Servizio redazionale e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie dal web, da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Nessun commento:

Posta un commento